Texas-Nigeria-Libia d’Italia, Lucania Saudita. Alla Basilicata hanno affibbiato nomi carichi di significati geopolitici legati al petrolio e ai suoi proventi. Una realtà, quella lucana, fatta di gestione criminale, come afferma la Procura, e pozzi fuori controllo.
Nel 2011 alcuni economisti, occupandosi di federalismo del petrolio e della politica ambientale in Italia, ricordarono che l’80 per cento della produzione nazionale di petrolio, e il 50 per cento di quella di gas, avviene in Basilicata. Una regione che rappresenta il 3 per cento del territorio nazionale e l’1 per cento della sua popolazione.
Secondo l’articolo 117 della Costituzione la regolamentazione dell’energia è di responsabilità del Parlamento nazionale e del parlamentino regionale; la sua gestione, invece, come regolata da un decreto del 2010, è affidata, dal punto di vista delle decisioni in ambito esplorazione e sfruttamento su terraferma, al ministero dello Sviluppo economico (Mise), con accordi che interessano le Regioni.
Un decreto che detta la disciplina della Valutazione d’impatto ambientale (Via) di esclusiva competenza nazionale, quindi centralizzata, mentre l’attuazione è condivisa tra Governi nazionale e regionale. Evidenze empiriche, dissero gli economisti, mostrano che l’interesse per l’ambiente è omogeneo dentro una regione e disomogeneo tra regioni. Se in uno Stato ci sono due regioni, una più popolata e senza petrolio, l’altra con meno abitanti ma petrolio e impatti ambientali, quando le decisioni sono centralizzate prevalgono le ragioni della prima, i cui residenti non sentono l’impatto della degradazione ambientale determinato dall’assenza di regolamentazione. Nel contesto italiano la non omogeneità di interessi per l’ambiente è «dettata soprattutto da ragioni geografiche».
È il federalismo fiscale del petrolio, trasformare una percentuale di italiani in persone di serie B. L’unica idea di fiscalità differenziata è stata prodotta dall’ex assessore all’Ambiente della Regione Basilicata, Aldo Berlinguer, ed è quella di abbattere per i lucani le accise sui prodotti energetici come benzina, GPL e gasolio, in modo da facilitare i consumi e attrarre imprese «così generando un volano di sviluppo economico».
PASSARSI LA PATATA BOLLENTE
Certo è una stramba politica quella che risolve i problemi causati dalle compagnie facendo consumare più carburanti e immettendo più CO2. Entrare nel vivo della responsabilità sullo sfruttamento delle energie fossili significa esaminare casi concreti, come un pozzo di reiniezione nel Comune di Pisticci, concessione operativa da decenni, assieme a un’altra poco più a monte, con annesso Centro olio. Negli anni Novanta il procuratore Nicola Maria Pace iniziò un’indagine su una richiesta proveniente dal Corpo forestale di Brescia per traffici illeciti di rifiuti radioattivi verso la Basilicata, accertando lo smaltimento illecito di sostanze chimiche in discariche dell’area e in pozzi di gas e petrolio, ipotizzando che la tecnica lucana fosse usata per centinaia di pozzi in tutta Italia. Nel pisticcese si parlò anche di pozzi di reiniezione dove vi reiniettavano acque di strato senza trattamento. Un atteggiamento delle compagnie ancora attuale se pensate al recente procedimento giudiziario su smaltimenti illeciti in Basilicata che riguarda il pozzo di reiniezione Costa Molina 2 in Val D’Agri. Un contesto geografico di sfruttamento a Pisticci, al centro di affioramenti anomali di fanghi, dove è importante capire cosa, come, e quanta roba hanno reiniettato nel pozzo “Pisticci 9”. Alla domanda il Mise risponde che «l’autorizzazione alla reiniezione è sempre stata di competenza regionale».
Un po’ uno scaricabarile dello Stato. «Risulta – continuano dal ministero – che dall’anno 2000 siffatta attività non è stata più condotta» e che l’Ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig), «svolge periodici controlli legati alla sicurezza dei luoghi di lavoro, e nel 2015 ha formalizzato il mancato utilizzo del pozzo di reimmissione», apponendo sigilli sulle valvole di testa pozzo in posizione di chiusura.
ANNI FANTASMAGORICI
In questi cinque lunghi anni di vita il pozzo “Pisticci 9”, stando al verbale del 5 maggio 2015, non sarebbe stato usato. Risulta invece, dall’elenco dei pozzi attivi dell’Unmig che secondo il Mise ha svolto periodici controlli e apposto le valvole di chiusura il 5 maggio, che dieci giorni dopo, il 15, il pozzo era ancora in «reiniezione fluidi».
Alle domande su tale incongruenza il Mise non ha risposto. Né ha risposto a domande su atti relativi ai «controlli periodici» effettuati dal 2000 al 2015 che confermassero l’inutilizzo del pozzo. L’autorizzazione su metodo, quantità e qualità delle acque reiniettate, stando al Mise, è sempre stata di competenza della Regione Basilicata. E alla Regione Basilicata sono state poste domande a vari uffici. L’assessore all’Ambiente regionale, Gianni Rosa, in una giunta a prevalenza leghista tesa al federalismo fiscale, lamentava di recente solo l’assenza di compensazioni ambientali da parte di Eni-Shell. Contattato sia in via formale che informale ha preferito tacere. Ha risposto invece l’Ufficio compatibilità ambientale (Uca). «Questo Ufficio – scrive – non ha conoscenza diretta né risultano agli atti documenti inerenti all’autorizzazione alla reiniezione nel pozzo Pisticci 9, né dati sulla qualità e quantità di acque di strato, sulla chiusura mineraria e su eventuali monitoraggi e controlli». Ha comunicato però, che avrebbe fatto istanza per acquisire dall’archivio storico la copia del fascicolo del provvedimento di Giunta regionale del 1985 e atti connessi.
REINIEZIONE E MINISTERO DELL’AMBIENTE
Sono stati interpellati anche ministero dell’Ambiente e varie Direzioni generali (Rifiuti e inquinamento, Salvaguardia del territorio e del mare, Protezione della natura, Clima e energia). Clima e Energia risponde che non «dispone di informazioni sui singoli siti»; Salvaguardia del territorio e del mare (Dipartimento bonifiche e risanamento), oltre ad aver comunicato che «l’impianto non sembra ricadere nell’area di pertinenza del Sito di interesse nazionale Val Basento» (Sin, area soggetta a bonifica per l’inquinamento e il rischio salute riscontrato, ndr), invitava a fornirgli «una cartografia con l’esatta ubicazione del pozzo».
Se si chiede di fornire una cartina con «l’esatta ubicazione del pozzo», sulla base di cosa si afferma che «l’impianto non sembra ricadere» nel Sin? La logica del sembrare, di qualcosa che dà l’impressione di essere ma di cui non si ha certezza, è parte della narrazione istituzionale di questa storia di petrolio. Il pozzo a ogni modo, può star sereno il ministero dell’Ambiente, non rientra nel Sin, e forse il Dipartimento bonifiche e risanamento dovrebbe concentrarsi sulle bonifiche di pozzi fatte e da fare, e sui protagonisti delle bonifiche coinvolti in vari processi per traffici illeciti di rifiuti. Dicono poi che l’istanza è generica, che «non permette di identificare i documenti di interesse». È stato chiesto intanto se esistono documenti, e in caso accedere. Ha risposto anche la Direzione generale per le valutazioni e le autorizzazioni ambientali.
«Al riguardo – dice -, non risultano pervenuti a questo Ufficio atti relativi a detto pozzo.» Certo dal 1985 è stata emanata la direttiva della Comunità europea sulla Via, e in Italia nel 1988 due decreti iniziarono a disciplinarla.
L’ISTANZA A REINIETTARE SENZA RELAZIONE TECNICA
Nel documento ottenuto dall’Uca vi è l’istanza per reiniettare dell’Agip alla Regione, priva di Relazione Tecnica, la risposta della Regione all’istanza e la relativa autorizzazione. Alla domanda sul perché mancasse proprio la Relazione Tecnica da cui capire modalità, quantità e qualità di acque reflue provenienti da idrocarburi smaltite, la risposta è stata che «non risultava agli atti né era stata rinvenuta dall’archivio storico». Svanita. Eppure chi ha autorizzato la reiniezione lo ha fatto perché ha visionato non solo la Relazione Agip ma anche un’altra Relazione Tecnica descritta nell’autorizzazione, quella dell’Ufficio geologico regionale, ufficio che, riporta l’autorizzazione, «potrà eseguire, di concerto con gli assessorati preposti, controlli periodici sull’efficienza del sistema di smaltimento».
Se sono stati fatti controlli sono stati prodotti documenti? Sembra invece che non esistono. E forse nemmeno i controlli sono mai avvenuti. Dopo queste domande i toni dell’Uca cambiavano. Ogni altra richiesta doveva passare secondo il Regolamento approvato dalla Giunta. Dal documento sappiamo che nel 1985 la Regione determinò che «l’esame delle relazioni e del progetto di smaltimento delle acque» aveva fornito elementi di giudizio utili a concedere l’autorizzazione. Diversi «elementi di giudizio» sono un copia-incolla dall’istanza Agip. Scopriamo poi che la «necessità di smaltimento» è di 25 metri cubi al giorno su una «capacità di assorbimento del pozzo 9 di 216», e che «le caratteristiche stratigrafiche sembrano escludere la possibilità di mescolamento delle acque reflue con quelle superficiali e di falda».
«Sembrare» dà la certezza che nel tempo le acque reflue non si siano mescolate con acque superficiali e di falda? In quattordici anni di reiniezione, se l’attività è cessata nel 2000 (Unmig riportava ancora nel 2015 che reiniettavano), a 25 metri cubi al giorno con un calcolo sommario significa circa 130 mila metri cubi di acque reflue smaltite sottoterra. Se è andata avanti sino al 2015, oltre 170 mila. Un lago del Pertusillo di acque reflue provenienti da idrocarburi smaltito sottoterra.
ACQUE (IN)VISIBILI?
Lago smaltito in un’area usata nel modo spiegato da Pace, e in una formazione geologica che nel 1988 l’Agip definì con una «instabilità» dovuta alla struttura fatta da «piccole cavità e calcarei fratturati che mostrano caratteristiche petrofisiche estremamente variabili sia orizzontalmente che verticalmente», e con un petrolio con «caratteristiche di viscosità e base chimica naftenica».
Agip sapeva anche di effetti sfavorevoli come la precipitazione di asfalteni quando iniettavano CO2 per incrementare la produzione. Pisticci ha problemi di asfalteni, miscela complessa di composti aromatici, composti eterociclici contenenti zolfo, azoto, ossigeno e metalli pesanti come vanadio, nichel.
«Il loro colore – dice Agip – è rosso carico, perciò essi contribuiscono alla colorazione molto scura dei greggi e dei residui».
In Val D’Agri tali problemi sono trattati con il naftalene. Uno studio per lo stoccaggio gas a Pisticci spiegava inoltre che il livello da sfruttare era «caratterizzato da una forte spinta d’acqua» che ne limitava le prestazioni, e la buona produttività della formazione non poteva essere sfruttata per il «rischio elevato» che si formassero coni d’acqua sotto il livello di gas che spingessero acqua nei pozzi (e chissà dove altro viste le caratteristiche petrofisiche). Spinte o meno, in un’area con problemi di asfalteni, acidificazioni effettuate, reiniezione di acque reflue e CO2, smaltimenti illeciti, può essere avvenuta corrosione di materiali metallici vari? E tra cavità e calcarei fratturati può essere accaduto altro? Intanto lungo il corso dei fiumi Cavone e Basento (ma anche in Val D’Agri), affiorano da sottoterra fanghi rossi con patine iridescenti e oleose. In un esteso e recente affioramento sul Cavone, l’ente di controllo lucano registrava elevati contenuti di naftalene, ferro, alluminio, e manganese, e poi vanadio, cobalto, nichel, piombo, arsenico, boro.
E se per l’ente regionale di controllo gli elevati tenori di alcune sostanze non sono preoccupanti, anni fa, un professore del Cnr che avrebbe dovuto analizzare i pozzi per il Comune prima che deliberasse sullo stoccaggio, rinunciò all’incarico perché gli avevano detto «lascia stare, lì c’è la merda.»