Inps: “Restituite gli indennizzi ricevuti”. È questa, in sintesi, la richiesta recapitata agli operai della ex Società vastese oli alimentari (Svoa), storica fabbrica di Punta Penna, a Vasto, chiusa nel 1993 dopo il fallimento dell’azienda. Per decenni gli operai hanno lavorato in un fabbricato e con macchinari industriali dove l’amianto era quasi l’unico materiale presente. Il racconto della vicenda giudiziaria e risarcitoria.
Per i lavoratori ex-Svoa, questa, è una storia che inizia quando Franco Cucinieri – oggi tecnico Enea e referente dell’Osservatorio nazionale amianto, e lavoratore dell’azienda dal 1975 al 1989 – contatta la famiglia di Michele Acquarola, operaio deceduto di mesotelioma nel 2001. Acquarola, quando ancora in vita, aveva provato ad ottenere il riconoscimento della malattia professionale, ma non riuscì ad andare oltre l’invalidità civile. Riconoscimento ottenuto, invece, altri due ex operai. “La vedova Acquarola – ci ha raccontato Franco Cucinieri, in compagnia dell’avvocato Nicholas Tomeo, che ha approfondito la vicenda Svoa per l’Atlante dei conflitti ambientali – mi autorizzò ad accedere al certificato necroscopico di Michele. Nel frattempo ci fu un altro decesso. Contattai la famiglia e ottenni anche in questo caso di poter accedere al certificato necroscopico”. Certificati che vanno richiesti all’Azienda sanitaria locale competente. Cucinieri fu il primo a farlo e ad intervenire, come sottolineato da una dirigente dell’Asl.
La macchina si mette così in moto. Nel 2002 nasce il Coordinamento esposti amianto che presenta subito un esposto alla Procura. Partono le indagini a carico di tre ex dirigenti dello stabilimento. L’attenzione degli inquirenti si concentra sulla morte di due ex operai Svoa. Il procedimento si chiuderà, però, nel 2009 per “intervenuta prescrizione”.
Cinque anni dopo la morte di Michele, la famiglia decide di ricorrere anche al Tribunale del lavoro. L’anno successivo, nel 2007, viene riconosciuta la malattia professionale (la sentenza è confermata anche dalla Corte di appello dell’Aquila, ndr), obbligando l’Inail a riconoscere alla vedova Acquarola la rendita prevista dalla legge per i familiari di operai morti per asbesto.
L’INPS, LE PENSIONI E I RICORSI
Nel 2004 la partita giudiziaria coinvolge anche l’Inps, per il riconoscimento della pensione relativa a tutti gli ex lavoratori Svoa. Nel 2008, il Tribunale di Vasto emette una prima sentenza favorevole ai lavoratori, confermata nel 2009 dalla Corte di appello. L’Inps inizia ad applicare la sentenza ma, contestualmente, promuove ricorso in Cassazione. Il 14 agosto 2012 – con sentenza n.14492 – arriva la doccia fredda. La Corte ribalta le precedenti sentenze e accoglie il ricorso dell’Istituto previdenziale.
“Erroneamente la Corte territoriale non avrebbe considerato, ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico in questione, la soglia espositiva minima pari a 0,1 fibre per centimetro cubo, valore già previsto dal decreto legislativo n.277 del 1991, articolo 24 e poi solo modificato dal decreto legge n.269 del 2003, articolo 47 convertito con modifiche nella legge n.326 del 2004.” Questa la motivazione.
Nel caso dell’ex Svoa non sarebbe stato documentato in maniera qualificata il superamento di questa soglia e – scrivono ancora i giudici – “neanche la certificazione Inail costituisce prova esclusiva dell’esposizione qualificata.” Viene così cancellato il riconoscimento di alcuni diritti previdenziali e sanitari: la legge prevede anche una sorveglianza sanitaria agli ex lavoratori con patologie asbesto-correlate. L’Inps chiede quindi la restituzione di quanto già erogato. Gli ex operai rischiano di dover restituire somme tra 20 e 80 mila euro. Cesare Damiano, membro della Commissione lavoro della Camera dei deputati, ha definito la vicenda “una vera e propria ferocia burocratica”.
“In passato – sottolinea Franco Cucinieri – la Cassazione non aveva fatto riferimento a determinate soglie ma soltanto alla elevata probabilità di esposizione. Un orientamento confermato anche successivamente. Infatti per 4 lavoratori che si sono rivolti ai tribunali successivamente alla sentenza della Cassazione, il riconoscimento c’è stato e ormai è definitivo.” Il riferimento alle soglie rende più che perplesso Cucinieri, chimico professionale. L’amianto ha un indice di volatilità più unico che raro, altissimo, e quindi non dovrebbe essere possibile fare riferimento a determinate soglie. Tramite il sangue umano può raggiungere qualsiasi organo. Per di più, attività come quelle della Svoa rientravano in un particolare codice Istat, previsto lì dove c’è presenza di componentistica in amianto. La legislazione, addirittura, per le attività che ricadono in questo codice prevedeva il pagamento di un contributo supplementare all’Inail. Un contributo che la Svoa non avrebbe mai versato.
LA SITUAZIONE NEI CAPANNONI AZIENDALI
La Svoa lavorava raffinando e commercializzando oli vegetali per uso alimentare. Inizialmente doveva produrre 25.000 chilogrammi al giorno tra olio raffinato e sottoproduzione. Successivamente la capacità fu ampliata a 110.000 chilogrammi al giorno. I lavoratori erano in continuo e costante contatto diretto con l’asbesto. I capannoni erano ricoperti di lastre di amianto. E nell’impiantistica l’amianto era utilizzato in maniera massiccia: guarnizioni, giunti accoppiati, scaricatori di condensa e strumenti per la lavorazione degli oli. Persino i guanti protettivi forniti per proteggersi dalle ustioni erano in amianto. La situazione era aggravata dalle correnti che rimuovevano continuamente le polveri e le fibre di amianto disperdendole nell’aria. E all’esterno del sito era presente una discarica di materiali di risulta contenenti amianto. L’azienda era divisa in sei capannoni, a cui si aggiungevano anche la centrale termica, il magazzino ricambi e l’officina meccanica. Nel magazzino “l’infiltrazione degli scarichi provenienti dai camini delle caldaie ricadevano sulla copertura in eternit del magazzino causando dispersioni all’interno. C’erano giorni in cui rimanere nel locale era impossibile”. Nell’officina meccanica c’era “l’abitudine alla pulizia dei tavoli da lavoro e degli strumenti con aria compressa”. Due o tre volte l’anno nella centrale termica avveniva la manutenzione dell’impianto e della strumentazione “rimanendo all’interno delle caldaie per turni interi, rimuovendo e riapplicando gli sportelli in amianto con le sostituzioni dei cordoni in amianto. Oltre a sostituire tutte le guarnizioni di amiantite” (composta da gomma e amianto, venduta anche con il nome di sirite). Materiali composti anche di 10 o 15 lastre a cui si aggiungevano cordoni di 80 o 100 metri (tutto composto da amianto) e una quantità incalcolabile di varie guarnizioni.
All’interno del Capannone 2 – 2000 metri quadrati dove si trovavano tutti gli impianti di raffinazione – l’esposizione era “peggiorata dalla presenza di due ventilatori con le pale all’ultimo pianto che aumentavano la circolazione delle polveri”. Le lavorazioni sulle guarnizioni provocavano dispersione delle fibre di amianto anche negli altri reparti.
Ma i lavoratori avevano qualche conoscenza dei rischi per l’esposizione all’amianto? La risposta di Franco Cucinieri è lapidaria. “Nel 1975 gli unici rischi conosciuti erano chimici (come l’uso di soda caustica) o legati agli infortuni. Cominciammo a capire solo verso la fine degli anni Ottanta dopo il riconoscimento per esposizione ad amianto ad un lavoratore della Icic di Ancona, azienda con cui la Svoa condivideva proprietà e lavorazione, che aveva iniziato il riconoscimento addirittura tramite il ministero del Lavoro. Lo scoprimmo quando questo lavoratore venne in trasferta da noi. Provammo anche noi a chiedere lo stesso percorso ma non ci riuscimmo. La Icic aveva anche pagato il contributo supplementare all’Inail per l’amianto. All’incirca nello stesso periodo un lavoratore di Taranto, licenziatosi da un’azienda simile alla nostra in Puglia, fu assunto alla Svoa. Dopo il suo arrivo fu contattato da un patronato tarantino che gli comunicò il riconoscimento per l’esposizione all’amianto.”
Nel corso del nostro incontro Cucinieri varie volte sottolinea che quanto sta testimoniando “è stato documentato e presentato anche alla Procura e a tutti gli enti possibili”. Alla Procura di Vasto e all’Inps è stato depositato un fascicolo dettagliato con tutte le diagnosi ospedaliere di asbestosi. Durante il processo penale i figli di un lavoratore testimoniarono che la sera, al ritorno a casa, a volte il padre non riusciva neanche a mangiare per i fortissimi attacchi di tosse. Erano molti i lavoratori con forti problemi respiratori, anche mentre lavoravano, ma “non venivano mai correlati all’amianto. Si pensava ad alcuni composti chimici”, considerando anche l’uso di terre decoloranti e farine fossili, contenute in sacchi da 25 chilogrammi, che “potevano procurare polveri insalubri che si depositavano sui pavimenti. La cui pulizia avveniva con scope che rimuovevano le polveri dal pavimento ma potevano disperderle ulteriormente.”
AMIANTO, LA SITUAZIONE REGIONALE
Nel mese di luglio dello scorso anno, il Giudice del lavoro di Vasto ha accolto i ricorsi presentati da 7 ex lavoratori della Magneti Marelli di San Salvo. Altri 21 ex lavoratori della stessa ditta avevano visto il loro ricorso accolto già nel marzo del 2012. Sotto accusa la lavorazione di “resina frammista ad amianto al 63 per cento”, fino al 1992. L’azienda era impegnata nella produzione e nel montaggio di alternatori, motori di avviamento e piccoli motori: elettro-ventilatori e tergicristalli-tergilunotti. Ma quello della Magneti Marelli non è un caso isolato. Nella stessa area industriale, come testimonia un’interrogazione parlamentare del senatore Felice Casson, datata 3 luglio 2014, nell’allora Società italiana vetro (Siv) fu “impiegato amianto in grandi quantità”, oltre ad “altri composti tossici”, come diclorometano, fenolo, stirene, acetone, toluolo, butanolo. Drammatico il bilancio riportato nell’interrogazione. Secondo una stima effettuata da alcuni operai, ci sarebbero stati “153 lavoratori, deceduti 10, 20, 30 e persino 40 anni prima dei loro giorni, dal 2009 ad oggi sono morti prematuramente, di cui i primi 65 avevano un’età media di appena 49 anni, mentre i primi 100 raggiungevano, mediamente, i 55 anni tra i quali solo nel biennio 1993-1995 sono deceduti 13 lavoratori, con età media di 52,3 anni in costanza di rapporto di lavoro mentre, altri 15 lavoratori deceduti, ugualmente, in costanza di rapporto di lavoro e 23 lavoratori di 50 e 60 anni, erano in mobilità o in pensione”. Ancor più lungo, aggiunge Felice Casson nell’interrogazione, sarebbe l’elenco degli ex lavoratori colpiti da malattie gravi: “1.044 interventi chirurgici all’apparato respiratorio eseguiti nel periodo 1997-2010” tra cui “14 casi di mesotelioma pleurico, 384 resezioni polmonari, 169 lobectomie, 128 resezioni atipiche parenchimali“. Casson cita anche l’incendio del 2007 – oggetto di un comunicato dei Cobas, impegnati da anni nella vicenda dell’esposizione all’amianto dei lavoratori – che interessò “un capannone con copertura in amianto che si è diffuso anche all’esterno della fabbrica.”
Solo in Abruzzo, secondo i numeri diffusi dall’Osservatorio nazionale amianto sarebbero 600 i siti industriali e 5000 gli edifici pubblici (tra cui scuole) contenenti amianto. In occasione della prima Giornata mondiale delle vittime dell’amianto – il 28 aprile 2015 – Legambiente rese noti i risultati di una propria indagine. Secondo l’associazione erano presenti 641 siti industriali, 4.369 edifici pubblici, 5.544 edifici privati e, complessivamente, 222.817 siti con amianto censiti. I casi di mesotelioma riscontrati nella regione tra il 1993 e il 2008 sono stati 58. I primissimi dati sull’utilizzo dell’amianto negli edifici abruzzesi sono, però, molto più datati. La prima inchiesta risale addirittura agli inizi degli anni Novanta: un dossier redatto da Pietro Leo, dirigente della Fillea Cgil, scomparso il 17 giugno 2003.
Ma non esiste ancora un’anagrafe regionale dei siti e una raccolta organica dei dati sugli operai malati o deceduti. Alcuni dati possono essere tratti dalla mappatura nazionale dei siti d’amianto effettuata dal ministero dell’Ambiente nel 2014. Secondo i dati raccolti dal ministero, su 10 regioni, il 50 per cento della concentrazione nazionale sarebbe presente nelle Marche, in Abruzzo e “un po’ tutto il versante adriatico”. Sul sito dello stesso dicastero, nella sezione “Piano nazionale amianto: stato di attuazione e prospettive future”, troviamo il censimento di 2270 siti.
Scorrendolo è possibile leggere una lunghissima serie di “sito non bonificato”, intervallato 33 volte da “sito in corso di bonifica” o “sito parzialmente bonificato”. Sono dati, riporta il ministero, forniti dalle Regioni stesse e datati 2015.
Nella stessa sezione troviamo anche una cartina della Penisola, con lo stato dell’aggiornamento all’anno successivo. L’Abruzzo è colorato di arancione, il colore delle “regioni che non hanno inviato alcun aggiornamento relativo al 2016”.