Il 3 marzo è stato il primo anniversario della morte di Berta Càceres, leader del popolo indigeno Lenca e tra i fondatori di Copinh, il Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras. Quella notte, tre uomini hanno fatto irruzione nella sua casa di La Esperanza, a ovest di Tegucigalpa, sparandole addosso da breve distanza. Ad oltre 12 mesi da quel fatto, che ha scosso la società civile internazionale e tutto il movimento ambientalista, non è stato dato ancora un volto ai mandanti.
Berta si batteva per bloccare il progetto della diga di Agua Zarca, portato avanti dalla DeSa (Desarrollo Energéticos), che avrebbe interrotto il fiume Gualcarque inondando le terre dei Lenca, costringendoli senza il loro consenso a lasciare i luoghi in cui vivono e coltivano da generazioni. L’attivista, vincitrice del premio Goldman nel 2015, aveva subito negli anni diverse intimidazioni da parte dell’esercito e della polizia. Le minacce avevano allertato anche la Commissione interamericana per i diritti umani, e lo stesso governo si era detto favorevole a garantire protezione alla coordinatrice del Copinh. Tuttavia il 3 marzo 2016, quando l’hanno uccisa, nessuna forza pubblica presidiava la sua casa.
L’Honduras e il massacro
Da quando nel 2009 un colpo di Stato militare ha deposto il presidente Manuel Zelaya, 123 attivisti ambientali sono stati massacrati in Honduras, che oggi è considerato il Paese più pericoloso del mondo per chi si batte in difesa della terra e dei popoli nativi. Chi lotta contro l’avanzata famelica delle grandi compagnie minerarie e le aziende energetiche, come sempre accade in America Latina, deve guardarsi anche dalle oligarchie militari e dai servizi segreti. È contro le più alte cariche dell’esercito e dell’intelligence, infatti, che punta il dito un’inchiesta del Guardian uscita nel giorno del tragico anniversario. Secondo il quotidiano britannico, l’omicidio di Berta sarebbe stato ordito dai servizi segreti militari ed eseguito materialmente da soldati addestrati negli Stati Uniti. Ogni anno Washington spende infatti milioni di dollari per finanziare l’apparato militare in Honduras.
Messico insanguinato
La scia di morte che solca l’America Latina si è estesa anche al Messico. Qui, infatti, è scomparsa il 15 gennaio un’altra figura chiave dell’ambientalismo contemporaneo. Si chiamava Isidro Baldenegro, ed era uno dei leader della comunità indigena dei Tarahumara. Combatteva contro la deforestazione della Sierra Madre in Messico, opponendo la disobbedienza civile alla ingordigia delle imprese e all’inerzia del governo. Anche lui, come Berta Càceres, è finito sotto il tiro di una pistola. Sei colpi esplosi da breve distanza, un’altra bara, un’altra croce, un’altra famiglia orfana. E una comunità internazionale, quella ambientalista, che perde l’ennesimo suo simbolo. Vincitore, come Berta, del premio Goldman – il Nobel dell’ambiente – nel 2005, Isidro conosceva i rischi delle sue scelte. Ma era convinto che valesse la pena difendere uno degli ecosistemi a maggior tasso di biodiversità del mondo, la Sierra che si dipana in quattro profondi canyon alternando rocce a foreste. Oltre agli uccelli migratori che d’inverno popolano la regione, tra pini e querce vivono anche 26 specie in via di estinzione. Tra loro, gli stessi Tarahumara, uno dei più grandi gruppi indigeni del Nord America, vivono uno dei periodi più bui della loro storia. La lunga mano dell’estrattivismo è arrivata anche qui, la violenza e la corruzione hanno inquinato la foresta e le comunità locali. Negli ultimi anni, tagliaboschi e allevatori sono diventati più aggressivi. Famelici di legname e terra, obbligano molte persone a fuggire distruggendo le antiche foreste della Sierra.
Secondo le Ong locali e internazionali, l’area è controllata da criminali locali che hanno guadagnato potere legandosi ai cartelli della droga, riciclando per loro denaro sporco attraverso investimenti nella deforestazione e nell’allevamento. Il tutto nell’assenza di una risposta politica da parte del governo. Lo stato si è ritratto da tempo dalla Sierra Madre, lasciando che la legge del più forte governasse indisturbata un territorio e un ecosistema così fragile.
Isidro lo sapeva che non avrebbe potuto contare sui papaveri di Mexico City. E sapeva che quella battaglia l’avrebbero condotta da soli, lui e i suoi compagni. Aveva le spalle larghe, il cuore indurito dagli eventi. Succede, quando ti ammazzano il padre, attivista anche lui, davanti agli occhi. Ma forse proprio perché quel crimine gridava vendetta, Isidro non ha voluto andarsene. Ha preferito caricarsi di una pesante eredità, guidando la resistenza indigena alla criminalità organizzata. Non ha dovuto attendere molto per ricevere le prime minacce di morte, ma per allontanarlo dalla sua terra ci voleva ben altro. Ad esempio una falsa accusa di detenzione illegale di armi e di droga, che nel 2003 gli è valsa il carcere per 15 mesi. Il suo arresto ha generato la reazione di importanti Ong internazionali per i diritti ambientali e umani, e poco dopo essere uscito gli è stato offerto l’ambìto premio Goldman. Il tributo non è bastato a impedirne l’assassinio. Certi interessi non si fermano di fronte a una coccarda. Lo dimostrano i dati raccolti da Global Witness, che ogni anno pubblica un rapporto sulle violenze subite dagli attivisti ambientali. Ben 122 su 185 uccisi nel 2015, vengono dall’America Latina. Una regione le cui vene aperte, così ben descritte da Eduardo Galeano, non hanno mai smesso di grondare vita.