Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Chi ha paura del lupo cattivo?

Ma il lupo non è una specie protetta? È davvero possibile ordinarne l’uccisione? E, soprattutto, gli esperti considerano davvero l’abbattimento come una pratica efficace? Alcuni spunti di riflessione in attesa dell’annunciato Piano lupi, partendo dall’attuale quadro normativo e scientifico.

Secondo l’onorevole Michela Vittoria Brambilla, come riportato dall’agenzia Ansa, il ministero dell’Ambiente, Sergio Costa, avrebbe dichiarato che il Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia sarebbe finalmente pronto ad essere sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni. La più importante novità è che il Piano introdurrebbe «23 azioni di gestione, compresa […] la sperimentazione di iniziative di mitigazione a livello microterritoriale» ed escluderebbe, invece, l’uccisione dei lupi.
Ma il lupo non è una specie protetta? È davvero possibile ordinarne l’uccisione? E, soprattutto, gli esperti considerano davvero l’abbattimento come una pratica efficace?
Le parole dell’onorevole Brambilla fanno il paio con una dichiarazione, a mezzo Facebook, del ministro dell’Ambiente datata 3 febbraio che – di ritorno da una visita di due giorni con i presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano ha scritto di aver «sempre detto […]: lupi e orsi non si uccidono».
Nel messaggio, oltre a darsi precise indicazioni circa il superamento di uno degli aspetti più criticati del Piano presentato – e mai approvato – nel corso dell’ultima legislatura, si offriva qualche ulteriore dettaglio sul contenuto del documento che dovrebbe essere presentato e, forse, approvato: «Il piano segna un percorso di convivenza con i lupi e ben 23 azioni di mitigazione molto specifiche. […] Questa è una grande novità, che è stata accolta con favore anche dai due presidenti di provincia: nel piano c’è anche un milione di euro per mettere in campo azioni sperimentali di mitigazione specifiche per i territori.»
In attesa della presentazione ufficiale è comunque possibile mettere qualche punto fermo sul quadro normativo e scientifico che circonda l’approvazione di questo importante documento.

LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI
Il 25 dicembre scorso una foto-trappola ha ripreso un evento davvero speciale: per la prima volta in tempi moderni un esemplare di lupo è stato avvistato in Liechtenstein. Si tratta di un risultato unico, ma certo non casuale. A livello internazionale, infatti, sono moltissimi gli accordi stipulati tra Paesi, volti alla protezione di specie animali quali il lupo.
È il 19 settembre 1979 quando, nell’ambito del Consiglio d’Europa, viene firmata la Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa oggi sottoscritta da più di cinquanta Paesi (anche estranei allo stesso Consiglio d’Europa) il cui scopo è quello di «assicurare la conservazione della flora e della fauna selvatiche e dei loro biotopi, segnatamente delle specie e dei biotopi la cui conservazione richiede la cooperazione di più Stati, e di promuovere tale cooperazione» [articolo 1].
Qualche anno prima – il 3 marzo 1973 – a Washington, era stata stipulata la Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali selvatiche minacciate di estinzione che impone una stringente regolamentazione del commercio internazionale della fauna e della flora selvatica. Sempre in quell’anno l’International Union for Conservation of Nature (IUNC) pubblica la prima versione del Manifesto per la conservazione del Lupo.
In ambito europeo, il 21 maggio 1992 viene approvata la Direttiva 92/43/CEE relativa “alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche”, cosiddetta Direttiva Habitat, il cui scopo principale è «promuovere il mantenimento della biodiversità, tenendo conto al tempo stesso delle esigenze economiche, sociali, culturali e regionali» [Considerando n.3]. Tale Direttiva, da ultimo modificata nel 2013, inserisce il canis lupus (con alcune eccezioni relative alle popolazioni estoni, greche, spagnole, lettoni, lituane e finlandesi) tra le specie d’interesse comunitario la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione [Allegato II]; nonché tra le specie animali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa [Allegato IV], per le quali è previsto un regime di rigorosa tutela [articolo 12].
Esistono poi numerosissime altre iniziative internazionali per la tutela dei lupi, come il gruppo di esperti noto come Large carnivore Initiative for Europe (LCIE), istituito nel 1995 dal World Wide Fund e da esperti di 17 Paesi europei, che ha elaborato un Piano di Azione Europeo sul lupo [L. Boitani, Action Plan for the conservation of the wolves (Cansi lupus) in Europe, 2000].
Poco dopo, l’1 luglio 2008, la Comunità europea ha approvato le Linee guida per la gestione dei livelli di popolazione dei grandi carnivori, per fornire indicazioni di massima su come conservare le popolazioni dei quattro grandi carnivori europei: orso bruno (ursus arctos), lupo (canis lupus), ghiottone (gulo gulo) e lince eurasiatica (Lynx lynx).

COSA PREVEDE LA NORMATIVA ITALIANA?
La cosiddetta Direttiva Habitat è stata trasposta nell’ordinamento italiano con il decreto del Presidente della Repubblica n.357 del 1997, che tutela alcune specie animali stabilendo un generale divieto di «catturare o uccidere esemplari di tali specie nell’ambiente naturale»; così come di perturbarle, in particolare durante il ciclo riproduttivo; o di danneggiare o distruggere i siti di riproduzione e sosta [articolo 8, comma 1]. Vietato, inoltre, è anche il possesso, il trasporto, lo scambio e la commercializzazione di esemplari prelevati dall’ambiente naturale [articolo 8, comma 2].
Tra le specie in questione – «di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa», come le definisce l’Allegato D – figura anche il canis lupus, meglio noto come lupo o lupo comune (che, infatti, non risulta neppure tra quelle cacciabili ai sensi dell’articolo 18 della legge n.57 dell’11 febbraio 1992).
La previsione, tuttavia, non è inderogabile. Da un lato, infatti, la legge n.57 del 1992, “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, prevede che le Regioni – anche per la migliore gestione del patrimonio zootecnico e per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche – possano provvedere al controllo selettivo delle specie di fauna selvatica purché ciò avvenga mediante l’utilizzo di metodi ecologici, su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica [articolo 19, comma 2].
Dall’altro – secondo il decreto del Presidente della Repubblica n.357 del 1997 – su autorizzazione del ministero dell’Ambiente, è possibile derogare alle tutele di cui s’è detto sopra, in presenza di specifiche necessità quali la protezione della fauna, della flora e la conservazione degli habitat naturali; la prevenzione di gravi danni alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico, alle acque ed alla proprietà; in presenza di prevalenti interessi di sanità, sicurezza pubblica o altri motivi di rilevante interesse pubblico; per finalità didattiche e di ricerca, di ripopolamento e di reintroduzione di specie; nonché, infine, per consentire, in condizioni rigorosamente controllate, su base selettiva e in misura limitata, la cattura o la detenzione di un numero limitato di taluni esemplari.
Nel caso di specie particolarmente protette, per altro, ove si operi «il prelievo, la cattura o l’uccisione», sono comunque vietati tutti i mezzi non selettivi, suscettibili di provocarne localmente la scomparsa o di perturbarne gravemente la tranquillità.
È proprio l’articolo 7 del decreto n.357 del 1997 a stabilire che il ministero dell’Ambiente, sentiti anche il ministero per le Politiche agricole e forestali, l’Istituto nazionale per la fauna selvatica e la Conferenza Stato-Regioni, possa adottare linee guida – tra cui rientra altresì il cosiddetto Piano lupi – per il monitoraggio, per i prelievi e per le deroghe relativi alle specie faunistiche e vegetali protette (prelievi e deroghe, rispettivamente disciplinati dai successivi articoli 10 e 11).
Ancora, è la legge n.394 del 6 dicembre 1991 – la “Legge quadro sulle aree protette” – a stabilire che all’interno delle aree protette sia l’Ente parco a provvedere alla conservazione e gestione della fauna e a indennizzare i danni eventualmente causati.
È, infine, sempre il decreto del Presidente della Repubblica n.357 del 1997 a prevedere che le Regioni provvedano al monitoraggio delle popolazioni di lupo e all’implementazione di una banca dati sugli esemplari rinvenuti morti.

QUALI SONO LE BEST PRACTICES INTERNAZIONALI SULLA GESTIONE DEL LUPO?
A fronte di una normativa, nazionale ed europea, che contempla comunque il controllo selettivo (leggasi, abbattimento) del lupo, viene anzitutto da chiedersi quale sia l’opinione degli esperti sull’utilità di una simile pratica: uccidere i lupi, cioè, serve davvero a diminuire gli episodi di conflitto con l’uomo?
Nel febbraio del 2018 viene pubblicato un documento commissionato dal Dipartimento per i diritti dei cittadini e per gli affari costituzionali del Parlamento dell’Unione europea, il cui titolo è “Large carnivore management plans of protection: best practices in EU member states”.
Lo studio parte dalla premessa di fondo per cui – a differenza di Canada, USA e Russia – gli Stati dell’Unione Europea si estendono su territori densamente popolati e mancano di quelle larghe aree scarsamente abitate che facilitano la conservazione dei grandi carnivori.
Tali specie, tuttavia, proprio per gli specifici tratti ecologici e comportamentali che le caratterizzano, necessitano di vaste aree territoriali per soddisfare i propri bisogni, con la conseguenza che, spesso, il loro raggio di azione si sovrappone ad attività umane. Non è, quindi, una sorpresa che il maggior conflitto tra umani e grandi carnivori derivi proprio dalla predazione degli allevamenti.
In base ai dati disponibili, lo stato di conservazione del canis lupus varia molto a seconda delle nazioni e delle popolazioni, potendosi considerare favorevole in otto nazioni e cattivo o inadeguato in nove Paesi europei (per gli altri Paesi dell’Unione, invece, mancano perfino i dati indispensabili ad effettuare tale valutazione).
Per quanto riguarda il nostro Paese, tanto la popolazione alpina, quanto quella della penisola italica – le due popolazioni di lupi che insistono sul territorio nazionale – sono considerate vulnerabili (VU), mentre lo stato di conservazione è definito come inadeguato, ma in via di miglioramento (U1+).
La pagella europea, dunque, non ci colloca tra i primi della classe neppure in questo ambito.
Storie popolari ed antiche leggende sono la prova più evidente di un conflitto antichissimo, quello tra lupo e uomo, che ha portato all’estirpazione di questo magnifico animale da una porzione enorme del vecchio continente.
Nonostante le diversità delle singole situazioni, la prima causa di conflitto ha ancora a che fare con l’allevamento allo stato brado: in Europa, tuttavia, la percentuale totale di perdita di capi che pascolano in libertà si attesta su un assai modesto 0,6 per cento (anche se non mancano casi locali di allevatori che subiscono impatti assai più alti per via delle condizioni orografiche sfavorevoli o di pratiche di allevamento scorrette). Tra le cause, oltre all’assenza di buone pratiche anti-predatorie, ad esempio, va considerata la sostituzione delle razze autoctone (abituate al territorio e alla presenza di predatori) con razze selezionate per essere più produttive, ma non avvezze alla presenza di lupi.
In molte aree del Mediterraneo, infatti, si sta assistendo alla sostituzione del tradizionale allevamento di pecore e capre, con quello di bovini (cosa che sovverte le tecniche tradizionali) e, spesso, non è accompagnato da forme di protezione del bestiame. Nonostante questo, in Portogallo – il territorio con il livello di attacchi documentati più alto – solo il 2 per cento degli allevatori ha subito attacchi da lupi e, di questi, solo il 4 per cento subisce attacchi cronici. Anche in tale situazione, comunque, le predazioni si concentrano per lo più su bestiame allevato allo stato brado, in cui i capi rimangono non protetti e non confinati durante le notti invernali. Il dato fa il paio con una scarsa conoscenza da parte degli allevatori delle opportune tecniche di prevenzione e con una scarsa volontà di cambiare le abitudini di allevamento in assenza di aiuti tecnici ed economici.
Secondo numerosi studi, sono capre e, soprattutto, pecore ad essere le prede preferite dei lupi, sia per il considerevole numero dei capi, sia perché l’allevamento avviene per lo più all’aperto (a differenza di quanto accade per i bovini). Nonostante ciò, i numeri si rivelano invero assai modesti: uno studio portato avanti per ben sei anni ha dimostrato come in Finlandia solo l’1 per cento delle capre sia stato effettivamente attaccato dai lupi e come in Portogallo il dato si attesti sull’1,2 per cento per le capre e solo allo 0,4 per cento per le pecore.
Diverso è, invece, il caso dell’allevamento semidomestico di renne. In gran parte della Scandinavia, infatti, si è verificato un progressivo abbandono dell’allevamento intensivo, in favore di quello all’aria aperta e al contemporaneo naturale ripopolamento della penisola da parte del lupo. Soprattutto per via della mancata adozione di quelle specifiche contromisure che sono consigliate dagli esperti, al momento del cambio delle pratiche nell’allevamento, si è tuttavia verificata una incidenza del lupo pari al 38 per cento del totale delle perdite di capi. Il dato è significativo di quanto la consapevolezza da parte degli allevatori sia fondamentale per consentire la pacifica convivenza dell’uomo con il lupo.
I fattori che mettono a rischio la conservazione del lupo, tuttavia, sono anche altri.
Basti pensare ad alcune attività di piacere come il wildlife watching o gli sport svolti in aree particolarmente sensibili come i cd. siti rendez-vuos, luoghi particolarmente protetti in cui avviene l’allevamento dei cuccioli nei primi mesi di vita; alla realizzazione di infrastrutture in aree remote abitate da lupi; alla caccia, che spesso crea occasione di conflitto tra l’uomo e il lupo (visto come un diretto concorrente del cacciatore); o, infine, alla paura del lupo, che si sviluppa soprattutto in quelle zone che, ricolonizzate dal lupo, sono abitate da popolazioni la cui memoria collettiva della convivenza con questo animale è ormai sparita, lasciando spesso spazio ad una irrazionale paura.

GESTIONE E MITIGAZIONE DEL CONFLITTO UOMO-LUPO IN EUROPA
La gestione e la mitigazione del conflitto tra uomo e lupo è ad oggi basata su tre azioni chiave: abbattimento da parte delle autorità e/o quote di esemplari cacciabili; compensazioni per i danni subiti dagli allevamenti; e, infine, misure preventive.
Abbattimento e caccia sono pratiche in uso su sette delle dieci popolazioni europee di lupo, sulla base dell’idea per cui una simile gestione del rapporto uomo-lupo finisca per mitigare la tensione sociale, diminuendo non solo le perdite degli allevamenti, ma anche il bracconaggio. Sempre maggiori, tuttavia, sono le evidenze che un simile metodo di controllo della popolazione non sia compatibile con l’integrità ecologica delle popolazioni di lupo e, in aggiunta, non abbia come necessaria conseguenza una effettiva riduzione delle perdite di animali domestici o una maggiore tolleranza da parte dell’uomo. Al contrario, l’uccisione indiscriminata di lupi può determinare un incremento degli attacchi al bestiame proprio per via del deteriorarsi della struttura sociale di questo animale; senza contare che il numero di abbattimenti di lupi necessari a ridurre la percentuale di attacchi metterebbe in serio rischio la sopravvivenza stessa ed il ruolo ecologico del lupo (in palese contrasto con la Convezione di Berna e con la Direttiva Habitat).
Anche la previsione di strumenti di compensazione per le perdite subite dagli allevatori è stata oggetto di numerose discussioni. Al riguardo, recenti ricerche hanno evidenziato come la presenza del solo strumento compensativo non sia d’aiuto né per la conservazione del lupo né a fini di equità sociale. Su dodici Paesi europei che prevedono questo strumento, nella metà dei casi lo stesso è accompagnato da misure di abbattimento/caccia; nei sette paesi dove non è prevista la compensazione, invece, l’abbattimento e la caccia del lupo risultano essere l’unico strumento di gestione.
Anche in Italia sono presenti strumenti di compensazione dei danni arrecati agli allevatori (anche grazie alla linea di finanziamento europeo Life).
In linea generale, dunque, oltre a far presente la dannosità di strumenti di gestione che prevedono l’uccisione del lupo, gli studiosi raccomandano l’adozione di misure preventive e la necessità di modificare abitudini controproducenti da parte degli allevatori, al fine di aumentare la tolleranza e permettere una pacifica coesistenza tra uomo e lupo. Perfino gli strumenti di compensazione, da soli, si dimostrano tuttavia insufficienti: è, invece, indispensabile assistere agricoltori e allevatori nell’applicazione delle misure di prevenzione, soprattutto nelle aree dove i lupi sono stati assenti per un lungo periodo di tempo.
Molti studi, poi, hanno sottolineato l’importanza della disponibilità di prede in natura per diminuire gli attacchi agli allevamenti, tanto che in numerosi casi si sono attuati programmi di reintroduzione di animali da preda di grandi dimensioni.

BEST PRACTICES E PROGETTI PILOTA
È, infine, il caso di valutare quali siano le migliori pratiche adottate in Europa e quali progetti pilota si siano negli anni dimostrati validi strumenti per superare le criticità del rapporto uomo-lupo. L’approccio migliore, in generale, sembrerebbe essere quello che combina misure preventive tradizionali all’ausilio offerto dalle moderne tecnologie.
Anzitutto, l’utilizzo di cani da pastore è un mezzo economico ma assai efficace per preservare il bestiame: molte ricerche hanno infatti mostrato come la presenza di cani riduca incisivamente il numero sia degli attacchi subiti, sia dei capi depredati. In più, nonostante il loro utilizzo sia tradizionalmente associato a pecore e capre, questi animali possono essere utilizzati anche con le mucche (per altro, pur rappresentando certamente un costo, l’allevamento dei cuccioli e la seguente vendita degli stessi può certamente rappresentare un’ulteriore fonte di reddito per gli allevatori).
Un altro fondamentale presidio è sicuramente il confinamento (utile anche se unicamente notturno) degli animali allevati, soprattutto in periodi di particolare fragilità quali la nascita e i primi momenti di vita dei piccoli.
Meritano, infine, di essere almeno citate ulteriori misure di non poco interesse.
Anche se non hanno dimostrato particolare efficacia possono anzitutto essere utili strumenti deterrenti, anche sonori e luminosi; così come è da incoraggiare l’allevamento di specie autoctone, che siano cioè ben adattate alla possibile presenza di predatori.
Fondamentale è, poi, il ruolo delle campagne di informazione in materia ambientale, nonché di dialogo tra le parti interessate dalle problematiche e dalle opportunità derivanti dalla coesistenza tra uomo e lupo: non pochi, infatti, sono gli esempi dei progetti portati avanti in questi anni che hanno dato ottimi risultati ai fini della facilitazione della convivenza tra pastori e grandi carnivori.
Solo per citare alcuni esempi che interessano il nostro Paese, è il caso di menzionare il progetto Life Wolfalps, che ha l’obiettivo di realizzare azioni coordinate per la conservazione a lungo termine della popolazione alpina, anche individuando strategie funzionali ad assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali; il progetto Life Medwolf, che concerne le migliori pratiche volte alla conservazione del lupo nelle aree mediterranee, coinvolgendo Italia e Portogallo; o, infine, il Progetto Pasturus, che intende mitigare il possibile conflitto tra grandi predatori e pastori attraverso la formazione di volontari in grado di fornire le loro conoscenze e aiuto concreto sul campo.

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