C’è una città nella città. Il gran ghetto di Borgo Mezzanone, oggi, è molto più di una semplice baraccopoli. È l’emblema, nonché il fulcro, di un sistema che ha radici profonde sul territorio.
All’interno del ghetto di Borgo Mezzanone non ci sono solo droga e prostituzione. Bar, ristoranti, taxi, servizi di telefonia mobile, parrucchieri, meccanici e botteghe di generi di prima necessità sono parte di un apparato che scandisce la vita dei circa cinquemila “schiavi” che popolano le favelas foggiane. Se le istituzioni li respingono, se li osservano e non agiscono, loro dimostrano di essere perfettamente in grado di auto-governarsi. L’anti-Stato, nel gran ghetto, ha ormai colmato i vuoti di potere di uno Stato garantista solo all’apparenza. Assicurando quel sistema di welfare che, altrove, è solo un miraggio. Nell’ultimo articolo sul “quarto potere” di Borgo Mezzanone abbiamo sottolineato che la miccia criminale sembra innescarsi direttamente dal Cara di Foggia. Oggi, attraverso le immagini, possiamo dimostrarlo.

Foto: Visuale dalla baraccopoli. Il trasporto di una bicicletta all’interno del Cara

Foto: Ulteriore passaggio di consegne di generi di prima necessità al di là del Cara
E LA CHIAMANO ACCOGLIENZA
Non si tratta di semplici supposizioni. È una realtà tangibile per chi nel ghetto ci vive e ha il coraggio di alzare la testa e non chinare la schiena. Perché molti di loro, quelli che noi definiamo “schiavi”, non vogliono più essere servi del sistema.
«Capito cosa fanno?» prova a spiegarmi uno dei ragazzi. «Militari, carabinieri e polisia guardano ma non dicono nienti. Loro sanno che rete è rotta da tanto tempo. Sanno che ragazzi vengono in ghetto e sanno che noi di ghetto andiamo dall’altra parte, ma non parlano. Nessuno parla. Se tu vai dentro Cara, vedi come stanno i ragazzi. Danno 2,50 euro al giorno, pagano ogni due giorni e non danno soldi veri…sono come ticket, capisci? Ragazzi poi devono prelevare, ma come fanno a vivere con 2,50 euro? Non vivono. E vengono a cercare lavoro insieme a noi. Vai a vedere bagni di Cara, poi mi dici se non è melio noi che ci laviamo coi secchi di acqua. Poi dicono che noi migranti prendiamo 35 euro al giorno ma è bugia. È bugia, noi non prendiamo quei soldi.»
Il valore del pocket money non supera in nessun caso i 2,50 al giorno. Ma, in teoria, i centri di accoglienza dovrebbero garantire loro vitto, alloggio, luce, acqua potabile. Condizioni di vita accettabili, in sostanza. E, troppo spesso, questo non accade. E non solo a Foggia. Ma a Borgo Mezzanone c’è molto di più.
È un caso, forse, che la barriera metallica che dovrebbe separare i migranti che vivono nel ghetto da quelli stanziati all’interno del Cara sia squarciata proprio in prossimità dell’area nigeriana, tra le più pericolose e “attenzionate” della baraccopoli? È un caso che, a ridosso di quell’area, sorga la “discoteca”, il bordello più rinomato della favela? È un caso, ancora, che il flusso di persone e materie prime – specie cibo e generi di prima necessità – transitino indisturbati sotto lo sguardo vigile dei soggetti istituzionali preposti al controllo?
«Sai che dicono che tutti siamo maggiorenni anche se non è vero? Io non sono maggiorenne, ma loro hanno scritto su documenti che ho venti anni. Hai capito? Loro non voliono problemi e noi dobbiamo stare tutti zitti», rincara la dose un giovane ospite del Cara. Ma loro, pur celandosi dietro l’anonimato per evitare di subire ripercussioni, hanno smesso di tacere. E le immagini, del resto, parlano chiaro.

Foto: Una delle “botteghe” del ghetto
LA PIOVRA
Che nel gran ghetto di Borgo Mezzanone vi sia una struttura mafiosa tentacolare non è più un mistero per nessuno. Ma la trasversalità dell’organizzazione non può lasciare indifferenti. Così come la capacità di queste nuove mafie di stringere alleanze multietniche. Sintomo che l’integrazione, declinata in tal senso, non costituisce affatto un problema per le nuove élite criminali stanziatesi sul territorio. Nella provincia di Foggia – come nel resto della Puglia – risulta ormai consolidata la presenza dei gruppi criminali albanesi. Il territorio pugliese, infatti, è stata la base per l’insediamento delle prime cellule criminali provenienti dall’est e rappresenta, ancora oggi, un approdo obbligato per i traffici illeciti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”. Una via di transito privilegiata che garantisce lo smercio di stupefacenti, armi ed esplosivi. Ma il vero centro nevralgico del sistema è rappresentato dalle strutture criminali di matrice africana. Tra queste, la più pervasiva è quella nigeriana, formata da diverse cellule criminali indipendenti caratterizzate da strutture operative differenziate, eppure interconnesse, dislocate in Italia e in altri Paesi europei ed extraeuropei. Le recenti attività investigative condotte dalle forze di polizia evidenziano come tali consorterie abbiano assunto la conformazione di vere e proprie associazioni per delinquere, utilizzando modi operandi tipici delle mafie autoctone. Con cui, di fatto, hanno stretto prolifiche alleanze.
Particolare attenzione va riservata ai gruppi degli “eiye” e dei “black axe”. Dette formazioni sarebbero riconducibili – secondo le più recenti relazioni della Commissione antimafia – ai cosiddetti “secret cults” – da anni presenti in Italia – noti per essere attivi nella commissione di gravi reati tra cui spiccano il traffico internazionale di stupefacenti, la tratta di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione. Ed è proprio su di loro che si stanno concentrando le maggiori attività investigative potate avanti dagli organi inquirenti che, in silenzio, indagano sul gran ghetto di Borgo Mezzanone. Perché, a quanto trapela dalle più recenti attività investigative, sarebbero proprio loro i nuovi protagonisti della “santa alleanza” con le mafie locali. Il “quarto potere” – la mafia del Gargano – si autoalimenta così. Lungi dal lasciarsi ingannare dai falsi slogan populisti, per loro non vengono prima gli italiani. Per loro conta il business. Che non ha colore, né razza.
TAXI DRIVER
«Se io non lavoro in campagna, guadagno soldi con servizio taxi. Accompagno ragazzi a lavorare oppure faccio altri lavori per la gente di campo. Così posso guadagnare qualche cosa. Altrimenti, come si fa?» È uno dei giovani senegalesi che vivono nel ghetto a introdurci nelle maglie del “sistema” che sfocia nel servizio taxi. Funziona così: i bulgari – in particolare alcuni ex residenti del ghetto bulgari di Borgo Mezzanone, sgomberato poco più di un anno fa – trasportano e vendono nella baraccopoli auto rubate. Gli esperti meccanici della favela si preoccupano di effettuare dei congrui cambi di targa, in modo tale che le automobili non possano più essere in alcun modo riconoscibili e, successivamente, passano alle modifiche sostanziali ai motori e alle componenti interne ed esterne dell’autovettura. Le materie prime – materiali di scarto, spesso rubati anch’essi – vengono portati all’interno del campo dagli stessi bulgari. Che, per il servizio offerto, si fanno pagare profumatamente. «Dipende da quello che devi fare», ci spiega la nostra fonte. «Quelli (i bulgari, ndr) si fanno pagare pure le spese per trasporto. Tutto si fanno pagare. Loro portano tanti pezzi, ma anche macchine che non possiamo più usare. Allora meccanici smontano tutto e vedono quali pezzi si possono ancora usare e quali sono solo spazzatura.»
«Quanto hai pagato per la tua macchina?» gli chiedo.
«Più di duemila euro. Ho lavorato tanto tempo in campagna per comprare macchina e ho finito di pagare solo un mese fa. Io vivo a Borgo da quasi tre anni. Prima non c’era tutta questa gente. Adesso è diverso. Adesso per lavorare devi fare tante cose e devi stare attento» mi risponde senza remore.
«Attento a cosa?» insisto.
«Tutti ti voliono fregare, capisci? Allora meccanici comprano da bulgari. Ma io che compro da meccanici, senza parlare direttamente con bulgari, pago di più. Allora melio quando parli con bulgari senza altre persone.»
«E tu, quanto ti fai pagare per fare il servizio taxi?» domando ancora.
«E dipende…dipende da quante persone metto in macchina. Se riempio macchina 3 o 4 euro ogni persona. Però non porto solo persone a lavorare. Se io non trovo lavoro in campagna e quelli di ristoranti di Borgo serve legna secca per accendere brace, allora io prendo macchina e vado in campagna a prendere legna. Per quella mi pagano 30 euro quando consegno. Ma c’è benzina che consumo, campagna in cui devo cercare, poi devo raccoliere. Poi se ti vedono italiani che prendi legna in campagna loro, mamma mia…tanto rischio, capisci? Ma se non faccio così io non posso vivere qua dentro. Qua tutto costa assai. Se hai mal di testa e vai in bottega paghi anche 1 euro per bustina di Oki. Qua paghi pure per respirare aria di merda. Allora voliono servizio taxi? Pagano pure loro. Non sono più stupido di loro io» afferma con una certa nonchalance. No, non lo è affatto. Ma è parte inconsapevole o incosciente di un business mafioso che alimenta una guerra tra poveri. In cui il penultimo vince sull’ultimo della catena. Mentre, chi tiene le briglie, resta a guardare.
NEL WELFARE (CHE NON C’È)
L’area nigeriana, immediatamente a ridosso del Cara di Borgo Mezzanone, pullula di attività. Non ci sono solo i sei bordelli e lo spaccio di droga. L’apparato di gestione si è strutturato e articolato in modo tale da fare in modo che gli abitanti del ghetto facciano diretto riferimento ai “capò neri” per tutto quello di cui hanno necessità. C’è una baracca in cui è possibile fotocopiare i documenti e gli incartamenti essenziali. Il prezzo varia a seconda della documentazione e del numero di copie.
«Se devi copiare documenti importanti paghi anche 20 o 30 centesimi ogni copia», mi spiega uno dei ragazzi. «Se hai tanti documenti, servono tanti soldi. Però ragazzo che fa fotocopie è bravo, ogni tanto ci aiuta. Se non ho soldi subito, posso pagare dopo», aggiunge.
Per il servizio di parruccheria, invece, i prezzi lievitano. «Dipende da quello che fai. Se devi colorare, se devi fare trecce, se ti servono altre cose. Però paghi sempre. Tutto si paga.»
«E se volessi farli io i capelli? Se volessi farmi le treccine come alcune delle ragazze che vivono qui, quanto mi farebbero pagare?» azzardo.
Ride. «Tu sei bianca, con te è diverso. Hai visto che ragazze ti guardano brutto? Voliono capelli come tuoi, vestiti come tuoi, pelle come tua. Loro guardano te e si arrabbiano. Forse non ti fanno proprio entrare. O, se entri, non lo so quello che succede. Tu non piaci alle ragazze, ma ai ragazzi sì», argomenta. Io sono parte del mondo al di là della frontiera immaginaria. Non ho accesso alle baracche in cui le donne nere intrecciano i capelli di altre donne nere. Sono l’espressione di una fetta d’umanità diversa e rinnegata da chi vive nel campo. Non sono una donna come loro. Non posso pensare di somigliare a loro. Non posso neppure provarci.
Bar e ristoranti restano per lo più chiusi durante il giorno. Il ramadan non è ancora finito. Anche bere acqua davanti a loro, in questo momento, potrebbe rappresentare un atto di sfida. Le donne osservano in silenzio. Molti degli uomini, che ormai sanno chi sono e cosa faccio, mi sorridono e passano avanti. Ma alcuni di loro non sorridono affatto. I loro sguardi pesano come macigni.
«Alcuni nigeriani sono buoni, altri non sono tanto buoni», sostiene il mio accompagnatore. «Sono diversi da noi. Quelli non vogliono imparare italiano, parlano solo inglese e voliono comandare tutto loro. Quelli cattivi, decidono un sacco di cose qua dentro. Sai quello che fanno con ragazze, no? Però lo fanno pure con alcuni ragazzi. A voi bianchi piace pure così…»
IL MALIANO
Non pronuncerò il suo vero nome. Non descriverò il suo volto, i suoi capelli, le sue mani, la sua pelle. Non voglio causargli più problemi di quanti non ne abbia già. Sceglie di parlare con me perché si fida del mio accompagnatore. O forse, più semplicemente, perché ha bisogno di sfogarsi con qualcuno. E io lo ascolto. Ascolto, in silenzio, il rumore assordante delle sue lacrime.
«Io vengo da Mali, ma non posso più tornare in mio Paese. Mia familia non mi vuole più. Miei fratelli non mi voliono più. Nessuno mi vuole più. Ma nessuno mi vuole da nessuna parte. Forse nemmeno Allah mi vuole, io non lo so. Sono tanto solo, io.» È così che inizia a raccontarmi la sua storia. Un giovanissimo uomo fuggito da una violenza per approdare in un mondo pieno di violenze. Marchiato a fuoco dalla vita come “cavallo bianco”, la prostituta romena cui hanno venduto il proprio bambino, oggi è la vittima silenziosa di altri abusi che gli stanno spegnendo, poco a poco, la voglia di andare avanti.
«Tante volte penso che forse basta così. Basta vivere così. Perché qua tutti sanno che possono usare me. Io volio lavorare, come altri. Ma non volio più fare quello che mi fanno fare. Non volio più. Quelli cattivi mi fanno lavorare come le ragazze. Ogni tanto mettono su un furgone bianco, quando vengono persone qui al campo. E io come le puttane. Maschi con maschi, hai capito?» Rabbrividisco. «Sì, ho capito. Ma chi ti costringe a fare questo?» provo a chiedergli.
«Quelli cattivi, quelli cattivi! Tu lo sai chi sono quelli cattivi! Tu lo sai! Qua nessuno vuole bene a me. Qua io sono buono quando viene la sera. Quando certe volte devo andare in villa di Foggia.»
«Quale villa di Foggia? C’è qualcuno che ti porta fuori da qui per andare in una villa?» chiedo ancora. Ma mi fermo subito. Lui piange. Le mie domande fanno male. Provo rimorso anche solo per averle fatte. Gli chiedo scusa, ma non serve. Provo a sfiorargli la mano, ma si ritrae immediatamente.
«Basta di parlare, non serve di parlare. Non toccare me! Voi italiani volete solo questo. Voi vi piace così. Basta! Basta!» Se ne va così. Non faccio in tempo a dirgli che avrei voluto aiutarlo. Non posso dirgli che avrei potuto portarlo all’Arci di Foggia per consentirgli, al più, di essere tutelato. Lui se ne va per non tornare. Io, che resto, non posso fare a meno di chiedermi cosa siamo. E quanta umanità ci resta.

Foto: Passaggio di un carrello di generi di prima necessità al di là del Cara

Foto: Il rientro nel ghetto dopo la doccia nel Cara