Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015

L’obiettivo, da buon gelese, era quello di poter lavorare nella Raffineria di Gela. Stipendio e continuità lavorativa mi avrebbero permesso di sistemarmi. La ‘chiamata’ non arrivò mai per tutta la durata della mia prima vita.

“Siamo tutti lì, di fianco al mio papone. Sono gli ultimi respiri affannosi e noi tutti vogliamo essergli vicini quando il cuore smetterà di battere.”
Le dita sono diventate nere, il respiro è faticoso e angosciante. Alle parole di mia sorella “papà ti vogliamo bene”, le facevamo eco noi. Poi mia madre tra le lacrime, ma con una voce forte, rassicura la sua metà: “Franco basta soffrire, vai se devi andare, ti vogliamo bene.” Alle parole di mia madre fa seguito l’ultimo respiro di un uomo povero di soldi, ma con un cuore e con degli ideali che pochi hanno. Quell’uomo è mio padre. Quell’uomo è morto dopo una lunga agonia il 16 ottobre 2006, circondato da amici e parenti che lo amavano e che lo rispettavano. Il 16 ottobre 2006 è iniziata la mia vita. A Gela, vivere un’esperienza del genere ti mette di fronte ad un bivio: andare avanti nell’indifferenza pensando che sia stata la vita ad uccidere tuo padre o scoprire perché tuo padre – come altri otto ex dipendenti del cloro-soda dicloroetano di Gela – è morto di cancro.
Il cloro-soda di Gela – reparto attivato nel 1971 e poi dismesso nel 1994 – utilizzava la scissione elettrolitica per scindere il cloruro di sodio ed ottenere cloro, sodio, idrogeno solforato, dicloroetano, acido solforico, ipoclorito di sodio. Un reparto in cui le emergenze erano routine. Il campo magnetico faceva fermare le lancette degli orologi e l’oro giallo a causa del mercurio sparso ovunque diventava bianco. L’esposizione continua a cloro comportava un senso di nausea così forte da costringere gli operai a bere litri di latte. La stampa locale ha battezzato quel maledetto impianto come “killer”. Forse perché ha mietuto vittime innocenti. Più di venti operai nel corso degli anni.

LA NASCITA DEL COMITATO SPONTANEO EX LAVORATORI CLORO-SODA DICLOROETANO
Il continuo numero di decessi di ex dipendenti del cloro-soda dicloroetano di Gela sconvolse un po’ tutti i cittadini gelesi. La paura tra i colleghi era, ed è tanta. La rabbia pure. Così nel novembre del 2006 venne costituito il Comitato spontaneo ex lavoratori cloro-soda dicloroetano di Gela. Il Comitato sosteneva il movimento pro polo oncologico affinché venisse istituito un reparto di Radioterapia a Gela, e porre fine all’esodo dei malati di tumore verso altre città. Ma si rendeva necessario avviare cause in sede civile nei confronti di Eni ed Inail per ottenere il riconoscimento dei danni morali e biologici. E collaborare con la Procura della Repubblica. Il primo obiettivo si concretizzò nel 2011 quando per la prima volta il cloro-soda dicloroetano di Gela veniva riconosciuto come causa o concausa della morte di un ex-lavoratore. Il secondo obiettivo fu raggiunto nel gennaio 2014 quando la Struttura ospedaliera gelese, adibita alla radioterapia, prese in cura i primi quattro pazienti. Il terzo obiettivo, invece, fu raggiunto nel momento in cui la Procura della Repubblica avviò un’indagine, per ipotesi di omicidio colposo, a carico di diciassette ex-dirigenti Eni e del cloro-soda dicloroetano di Gela.

LE FAMIGLIE, CIRCA CENTO, FANNO CAUSA
Successivamente partirono anche le azioni giudiziarie di diverse famiglie gelesi nei confronti delle aziende del gruppo Eni. Chiedevano un risarcimento danni per le malformazioni neonatali che hanno colpito i loro figli. Un’azione che cade come un macigno sull’intero petrolchimico, nel momento in cui il Tribunale di Gela nomina un Collegio peritale formato da esperti e studiosi di indiscussa fama internazionale (prof. P. Mastroiacovo, prof. T. Mattina, dott. E. Morselli, dr. F. Nardo, ing. A. Cosenza, prof. B. De Vivo e prof. Bacaloni). Il Collegio è chiamato ad indagare sul possibile nesso tra le malformazioni congenite accertate e l’esposizione prolungata negli anni dei loro genitori a inquinanti chimici, nonché stabilire il grado di invalidità permanente e quanto questa possa incidere sulla capacità lavorativa dei pazienti. I periti si sono affidati al criterio della plausibilità biologica ed epidemiologica, valutando il nesso causale dei singoli casi trattati come possibile e non possibile. Nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee che interessano il polo industriale dell’Eni – ormai in fase di dismissione – sono state riscontrate, in altissima quantità, sostanze tossiche, nocive, cancerogene e mutagene. Molte di esse classificate come endocrine disruptors chemicals. In considerazione del tipo di contaminazione, l’esposizione ambientale ad agenti chimici della popolazione di Gela potrebbe essere considerata mediamente attribuibile più a fattori industriali, piuttosto che ad altri. Ed è proprio di fronte a questa probabilità che due Studi legali gelesi – Maganuco e Fontanella – decidono di avviare delle cause giudiziarie particolari ed uniche nel loro genere. Sono un centinaio le famiglie che hanno aderito all’azione legale dello Studio dell’avvocato Maganuco. Si richiede all’azienda un ristoro di 50 mila euro procapite in quanto accusata di aver introdotto nell’ambiente sostanze endocrine che attraverso il bio accumulo umano potrebbero aver causato problemi di salute a chi ne è venuto a contatto attraverso la respirazione, la catena alimentare e alla sua prole.
Nel caso specifico il ristoro non viene chiesto solo ad Eni ma anche a tutti gli organi di controllo che avrebbero dovuto far rispettare la legge. Dal presidente del Consiglio al ministero dell’Ambiente, dal Comune di Gela alla Regione Sicilia, dall’Arpa regionale alla Protezione civile, fino all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Pertanto, l’azione promossa dallo Studio Maganuco non richiede un ristoro per un danno subito (danno biologico o danno morale) ma per danni esistenziali. In una città in cui il tasso di bambini malformati supera la casistica nazionale e, in una città in cui ci si ammala di più che nel resto d’Italia i cittadini non vivono serenamente la loro quotidianità. Devono fare i conti ogni giorno con la paura di morire o di mettere al mondo un figlio che possa avere problemi di salute.

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