Il diario di un cooperante sull’ultimo viaggio nel Sahara Occidentale e sul popolo Saharawi, l’ultimo popolo africano a non aver ancora raggiunto l’indipendenza, costretto ad abbandonare attività fondamentali della vita quotidiana per rivendicare diritti non riconosciuti.
«Volo AH2024 ultima chiamata per i passeggeri del volo Algeri-Roma». È il 14 marzo 2020: la voce dello speaker dell’aeroporto Houari Boumediene di Algeri annuncia la partenza di quello che sarà l’ultimo volo di collegamento tra Algeria e Italia per la sospensione dei voli a seguito della pandemia Covid-19 che poi sarebbe esplosa in Europa. Siamo stravolti nella hall dell’aeroporto provenienti da Tindouf, nel sud dell’Algeria, dopo il trasferimento da Tifariti nei territori liberati del Sahara Occidentale. Facciamo parte di una missione di cooperazione internazionale che ha monitorato e riorganizzato alcuni progetti di cooperazione internazionale e solidarietà con il popolo Saharawi.
In pochi giorni, l’esplosione dell’emergenza sanitaria in Italia ha stravolto anche l’operato di chi stava svolgendo azioni di solidarietà a migliaia di chilometri. Da soggetti solidali siamo diventati oggetto di solidarietà da parte della popolazione locale, a conoscenza della drammatica situazione che si stava sviluppando in Europa. Da parte nostra ci siamo resi conto di rappresentare, provenendo dal Vecchio Continente, un rischio per la gente del posto. In pochi giorni abbiamo organizzato il rimpatrio dei cooperanti presenti nei campi profughi Saharawi. Ho sentito tutta la difficoltà di una scelta di un apparente abbandono, dettata dalla necessità di tutelare chi stiamo lasciando, ed è stato difficile convincere alcuni a rientrare sospendendo il prezioso lavoro che stavano facendo.
L’ULTIMO ITALIANO
Mi sono reso conto di essere l’ultimo italiano, assieme agli altri componenti la missione, ad essere stato tra quella gente, a contatto con le autorità Saharawi che sopravvivono di soli aiuti umanitari nei campi profughi nella zona di Tindouf. Enormi tendopoli – circa 200 mila profughi – dove hanno rifugio i Saharawi fuggiti dall’occupazione del regno del Marocco del Sahara Occidentale che, da quel momento, lasciavamo soli.
Provenivo da Tifariti, antico incrocio di piste nel deserto del Sahel, uno dei villaggi principali del Sahara Occidentale Libero. Un territorio, liberato dall’occupazione marocchina, dopo dodici anni di guerra di liberazione dal Fronte Polisario, delimitato ad est dai confini con la Mauritania e l’Algeria ad ovest dal muro costruito dal Marocco – 2.800 chilometri, il più lungo muro dopo la grande muraglia cinese – a difesa dei territori occupati.
I territori liberati in cui è stata proclamata la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD) sono abitati da popolazioni nomadi a cui è precluso ogni accesso alla zona occupata ricca di risorse naturali (terreni coltivabili, miniere di fosfati e minerali) ed alla pesca sulla costa atlantica (tra le più pescose, che fornisce enormi ricchezze all’occupante marocchino attraverso la vendita dei diritti di pesca alle compagnie internazionali).
OGNI VILLAGGIO HA UNA SCUOLA
Dopo l’ultimo annuncio, l’imbarco. Una volta comodo al posto, il cervello comincia a passare in rassegna quanto fatto durante la missione, sforzandomi di ricordare cosa fosse rimasto indietro. Nei territori liberi abbiamo risposto ad un appello delle autorità Saharawi che chiedevano di supportare quelle popolazioni che non sono raggiunte da nessun aiuto delle agenzie internazionali. Gli aiuti arrivano nei campi a nord in territorio algerino in quanto destinati a profughi, mentre alle popolazioni dei territori liberi, seppur private di tutte le risorse non possono essere destinati aiuti da parte degli organismi umanitari internazionali emanazione delle Nazioni Unite.
Inoltre, quel territorio non ha ultimato il processo di autodeterminazione con la costituzione di uno Stato indipendente (come sancito dalla risoluzione 1514/60 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite) e risulta ancora zona contesa tra Marocco e Fronte Polisario. Il referendum indetto per raccogliere democraticamente la volontà della popolazione Saharawi, indetto nel 1991 (risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 690/91) viene continuamente rinviato per l’opposizione del regno del Marocco. Abbiamo risposto a questo appello come Rete di soggetti solidali con il popolo Saharawi fornendo un sostegno ai bambini per favorire l’accesso scolastico. Sì, accesso scolastico nel deserto. Ogni villaggio ha una scuola che accoglie i bambini della zona desertica circostante, a volte molto ampia. Noi interveniamo investendo i nostri sforzi e risorse per fornire servizi che aiutino la frequenza dei bambini.
PER LA CONQUISTA DELLA LIBERTÀ
Al decollo le ali dei miei pensieri virano e tornano alla missione del 2012 in cui abbiamo dato inizio al progetto nel primo villaggio: Tifariti. Potevamo investire le risorse in acquisti di alimenti e distribuire aiuti. Abbiamo invece scelto di organizzare con la gente del posto un servizio di mensa autogestita in loco. Ristrutturati i locali della sala mensa, attrezzata una cucina, realizzato un impianto fotovoltaico. Per costruire tavoli, panche, banchi abbiamo chiesto aiuto al laboratorio di falegnameria dei campi profughi in cui Cgil Emilia-Romagna aveva, in precedenza, formato falegnami. Subito ci era sembrato ovvio che le donne del villaggio si proponessero per la cucina. In seguito, mi sono reso conto che cambiamento radicale questo rappresentasse per una donna nomade del deserto, dedita alle attività di sopravvivenza della propria tenda. Per un bene comune queste donne decidevano di dedicarsi ad una attività lavorativa quotidiana alla scuola, abbandonando la propria tenda ogni mattina per farvi ritorno solo al pomeriggio. Una dimensione ovvia per noi, per niente per un’organizzazione familiare, sociale nomade in quel contesto.
Nella missione successiva acquistammo una Land Rover per il trasporto a scuola dei bambini più lontani e ho ancora davanti a me il viso di Hanafi Alì l’autista, che con soddisfazione mi mostrava i 25 bambini che è riuscito stipare nella jeep.
Alla partenza venimmo fermati per strada da un anziano che ci aveva riconosciuti. Mi parlò, ci ringraziò, mi disse di essere orgoglioso che i suoi due nipoti frequentassero la scuola, che la sua famiglia aveva risolto il problema del cibo sapendo che i piccoli avevano un pasto garantito a scuola. Salutandomi mi disse che il suo popolo non cercava aiuti materiali, ma sostegno per ritornare nei territori occupati e conquistare la libertà. Parole chiare, forti che in quel momento mi sembrano espresse dall’autorità più alta di quel popolo. Conosceva la storia italiana. Aggiunse che è importante il nostro aiuto perché proveniente da un popolo che aveva combattuto per la libertà, in una lotta di liberazione. Aggiunse che il nostro aiuto serviva loro per raggiungere la stessa libertà che noi avevamo ottenuto con la liberazione dal nazifascismo. Mi abbracciò. Ricordo ancora l’emozione forte e chiara. Risalii in auto per ripartire. Per un attimo vacillai al pensiero che i valori riconosciuti da quest’uomo da noi siano ritenuti ingombranti, vengano rivisitati, messi in discussione.
Il volo prosegue, torno a riflettere sulla missione appena conclusa, controllo l’agenda. Appuntamenti a Rabouni (sede del governo RASD in esilio): Ministro Territori Liberati, acquisto scorte acqua, Ministro Cooperazione, thé alla tenda di Abdi, incontro con ricercatori e studenti dell’Università di Tor Vergata che effettuano screening sanitari, incontro con le altre delegazioni italiane ai campi, consegna zaino a Mohamed. Operando in questo contesto si ha la sensazione di poter incidere e interagire con l’insieme della società Saharawi con una continuità che elimina differenze tra gli interlocutori dando immediato riscontro della utilità o meno di quanto si stia facendo.
RIAPPROPRIARSI DELLE PROPRIE RISORSE
Chiudo l’agenda e focalizzo sui risultati della missione. Abbiamo esteso ad un altro villaggio, Buer Tighzit, il servizio alimentare per i bambini a scuola. Per ora si tratta di una merenda a metà mattina: vedremo in futuro come e con che risorse ampliare. A Tifariti si aggiunge la coltivazione di un orto che darà alimenti alla scuola ed alla popolazione: ne ho discusso a lungo con Massimiliano Caligara, Legambiente, in missione con me e che sostiene questo progetto. Abbiamo capito l’importanza per questa gente espropriata di tutto, di potersi riappropriare delle proprie risorse, anche a partire dal poco che può fornire il deserto. Rifletto con Massimiliano su alcune battute di Abdi, il nostro interprete durante il sopralluogo agli orti di Tifariti. Ironicamente, ma non troppo, ci faceva presente di essere contento di contribuire alla riuscita di questo progetto, ma che sono altre le risorse a cui hanno diritto. Affiancava l’umiliazione per la privazione della libertà alla condizione umiliante di dover dipendere da aiuti, quando le ricchezze dei loro territori ora occupati, generano profitti al Marocco.
Ci si prepara all’atterraggio: spero che il capitano sia preparato. Il tempo non è buono. Atterrati a Fiumicino saluto le altre delegazioni che sono rientrate. Gli amici campani di Agropoli che sono scesi per la prima volta nei territori per investirsi nei progetti. I toscani di Città Visibili. Gli studenti di Tor Vergata. Con l’amico Rambaldi dell’associazione El Ouali di Bologna proseguiamo il viaggio.
Oggi mi rendo conto che l’atterraggio in quella data, quei saluti, gli arrivederci resteranno un punto fermo senza un seguito al momento prevedibile. Non sarà possibile tornare. Il 13 novembre 2020 la tregua tra Fronte Polisario e Regno del Marocco che reggeva dal 1991 (accordo di cessate il fuoco dopo 12 anni di combattimento, firmato il 30 agosto 1988 sotto l’egida di ONU e Unione Africana) è stata infranta.
NUOVI SCENARI DI GUERRA, NUOVI ORIZZONTI
Dal 20 ottobre, i Saharawi, esasperati anche dall’immobilismo delle Nazioni Unite nel non attivarsi a condurre la trattativa per la soluzione del conflitto, hanno occupato pacificamente il passo di El Guerguerat all’estremo sud del Sahara Occidentale. Da questo varco nel muro che divide i territori liberati da quelli occupati dal Marocco, transitavano i prodotti dei territori occupati che il Marocco commercializza nel resto dell’Africa.
A questo blocco il Regno del Marocco ha reagito militarmente infrangendo la zona smilitarizzata prevista dagli accordi di pace del 1991 (accordo militare numero uno tra Polisario e Minurso nel 1997 e tra Marocco e Minurso nel 1998). Il Fronte Polisario ha risposto dichiarando la rottura della tregua. Da allora si susseguono attacchi e scontri. La popolazione a rischio è stata evacuata, le scuole abbandonate e probabilmente si riverserà nei campi profughi a nord, nella zona di Tindouf in Algeria, già affollati.
Un nuovo scenario di guerra che viene materializzato dalle foto del web. Riconosco alcuni collaboratori, in divisa militare, che imbracciano un fucile. Riconosco un amico che si occupava di attività sportive per i giovani dei campi profughi e un giornalista: leggo i loro messaggi che parlano di scelta per interpretare nel modo più efficace la loro vita per conquistarsi la libertà.
Sono l’immagine di una contraddizione di un popolo, l’ultimo popolo africano a non aver ancora raggiunto l’indipendenza, costretto ad abbandonare attività fondamentali della vita quotidiana per rivendicare diritti non riconosciuti per l’incapacità della diplomazia internazionale e l’opposizione di potenze economiche occidentali, Francia in testa.
Alla finestra vedo passare un aereo, scatta il desiderio di poterci risalire al più presto per un viaggio di ritorno interrotto il 14 marzo.