La storia di Mamuddu, Charlie, Ade Bah e J-Man scappati dal Gambia dell’ex dittatore Yahya Jammeh.
“Regnerò su questo paese per un miliardo di anni, se Allah vorrà!” Queste le ultime parole famose di Yahya Jammeh, ex-dittatore del Gambia, pronunciate alla Bbc nel 2011. Dopo appena cinque anni di governo Jammeh è in fuga. Allah, a quanto pare, non ha voluto. E neppure i gambiani. “Finalmente posso ritornare al mio paese”, esulta sorridente Charlie. “Ci aspetta una Nuova Gambia”, sospira speranzoso Ade Bah. “Il regno della paura di Jammeh è finito”, tuona esultante Mamuddu.
I gambiani, oggi, sperano nella pace, nella giustizia e nelle promesse del nuovo presidente, Adama Barrow. Il compito che lo attende non è facile. L’ex dittatore fuggendo ha portato con sé ingenti somme di denaro. Alcune stime aggiornate al 23 febbraio scorso – ed ancora provvisorie – parlano di ammanchi per più di un miliardo di euro e di un paese virtualmente in bancarotta. Ma il Gambia va avanti, cercando di non far mancare stipendi e pensioni, grazie all’aiuto di sostenitori privati e dell’Unione europea che ha stanziato un fondo di 225 milioni di euro. La promessa del governo è chiara: “recupereremo quello che è nostro.” L’International organization for migration (Iom) stima gli arrivi dei gambiani in Italia sulla rotta del Mediterraneo in 11.384, tra gennaio e novembre 2016. Quasi il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: 6.979. Purtroppo l’Italia considera i gambiani per la maggior parte rifugiati economici. Infatti, secondo i dati Eurostat, nel 2015 il 66 per cento delle loro richieste di asilo è stata respinta. Ragazzi arrivati qui scappando da una dittatura. Che spesso si ritrovano soli, si sentono in prigione, senza prospettive per un futuro. Ragazzi come Pateh Sabally, che a Venezia si è suicidato nel Canal grande. Anche lui veniva dal Gambia.
YAHYA JAMMEH
Yahya Jammeh prende il potere appena ventinovenne la notte del 22 luglio 1994. All’epoca, tenente in carriera dell’esercito sfrutta un diffuso malcontento nelle forze militari per organizzare un golpe. Appena insediato proibisce qualsiasi tipo di opposizione politica. Bando che viene ritirato ufficialmente solo nel 2001, ma che continuerà ad essere messo in pratica grazie a minacce, torture, ed innumerevoli omicidi.
“In Africa è così, i dittatori cercano di mantenere il potere ed il consenso utilizzando l’esercito. Ah, ma Jammeh è furbo, sceglie bene le persone da tenersi vicino, ignoranti che non sono mai andati a scuola, persone completamente indottrinate”, mi racconta Charlie.
Ben presto Jammeh mostra manie di grandezza e fobie di persecuzione. Nella capitale Banjul fa costruire l’Arch 22, un enorme arco di trionfo. In suo onore e per commemorare il colpo di Stato che gli ha permesso di governare. Afferma di voler regnare per un miliardo di anni, di avere poteri terapeutici e di essere in grado di curare l’Aids. Minaccia di tagliare la testa a qualsiasi omosessuale Gambiano, di rintracciarli ed ucciderli anche se dovessero fuggire dal paese. Fa espellere, o peggio, incarcerare, qualsiasi giornalista straniero considerato scomodo. Decide di far uscire il Gambia dal Commonwealth e dai patti della Corte penale internazionale definendole “istituzioni neo-colonialiste” ed accusandole di interferire con la politica del paese. Istituisce un servizio segreto nazionale – il National intelligence agency (Nia) – con il solo scopo di sorvegliare, rintracciare, incarcerare e torturare eventuali oppositori o sovversivi. Crea una forza d’élite paramilitare, tra le più crudeli e sanguinarie del mondo: i Jungulars, specializzati in amputazioni a scopo di tortura. Mercenari senza scrupoli che godono d’immunità, la cui unica ragione di vita è quella di portare a termine gli ordini di Jammeh. Nonostante la sua crudeltà ed i suoi segni di squilibrio l’ex-dittatore continua per diverso tempo ad essere considerato da molti un semplice presidente. Uno di quelli che possono vantarsi d’essere stati amici stretti di Gheddafi e, contemporaneamente, essere ospite di Obama alla Casa Bianca. Del resto gli Stati Uniti hanno per anni sostenuto l’esercito di Jammeh. Perché?
L’ABBAGLIO DELL’ORO NERO
È il 2004 quando Yahya Jammeh annuncia che una compagnia estera ha individuato grandi giacimenti di petrolio al largo della foce del fiume Gambia, annunciando un periodo d’oro per tutto il paese. Trascorrono due anni e nel 2006 la Buried Hill Energy – società internazionale che coopera con grandi compagnie petrolifere come Enterprise Oil, Shell, BP, Marathon, Petro-Canada, Petro Kazakhstan and Schlumberger – firma una licenza per l’estrazione in due zone denominate blocco A1 e blocco A4. Nel 2010 la Buried Hill firma un accordo di sfruttamento con l’African Petroleum Corporation LTD, società internazionale specializzata in estrazioni petrolifere in Africa occidentale, legata ad Anadarko Petroleum, Chevron Corporation, ExxonMobil, Total e Lukoil. L’accordo prevede che l’African Petroleum avrà il 60 per cento degli interessi dello sfruttamento petrolifero a patto di coprire il costo dell’80 per cento dei lavori, dei rilevamenti e del primo pozzo esplorativo. Nel 2015 la Erc Equipoise – società britannica che si occupa di valutazioni petrolifere e leader nel suo settore – stima i due blocchi in concessione per 3.079 Million stock tank barrels. Milioni di barili. Che, a una media di 52 dollari a barile fanno 160 miliardi e 108 milioni di dollari. Insomma per gli Stati Uniti d’America il Gambia è un potenziale partner petrolifero.
QUANDO JAMMEH HA PERSO
È il primo dicembre 2016 quando, a sorpresa, Adama Barrow, sfidante oppositore di Jammeh, vince con il 45 per cento dei voti. Nove punti percentuali in più rispetto al 36 per cento del presidente uscente. La tensione è alta. Jammeh regna da ventidue anni con pugno di ferro ed aveva indetto le elezioni convinto di vincerle. Alcuni intervistati a Banjul dichiareranno alle emittenti straniere di aver visto sostenitori del dittatore andare a votare con ben tre schede elettorali diverse. Nei giorni precedenti le operazioni di voto Jammeh ha negato l’ingresso agli osservatori internazionali ed ha bloccato l’accesso alla rete per 36 ore, al fine di impedire qualsiasi eventuale fuga di notizie di brogli. L’ormai ex-dittatore sembra prenderla bene. Afferma che passerà senza problemi il mantello del comando a Barrow e gli telefona in diretta TV. Si congratula con lui, sottolinea la trasparenza delle elezioni – “la più trasparente del mondo” – e promette di non contestare i risultati. I gambiani sentono di aver vinto, di aver conquistato un nuovo futuro. Sui social network esplode l’hashtag #GambiaHasDecided, il Gambia ha deciso. Tutta l’Africa è sollevata e piacevolmente sorpresa, abituata a passaggi di potere intrisi di sangue e violenza. Il 5 dicembre la Commissione elettorale ammette alcuni errori di calcolo dovuti ad una circoscrizione attribuita per sbaglio a Barrow. Le nuove percentuali comunque non cambiano la situazione: i risultati corretti danno Barrow con il 43,4 per cento dei voti e Jammeh con il 39,6 per cento. Nonostante questo il timore di una situazione di crisi inizia ad attanagliare la comunità. Molti cercano rifugio nel vicino Senegal.

Foto: Charlie // Pellegrino Tarantino
IL COLPO DI CODA DEL DITTATORE
Il 10 dicembre incontro Charlie. “Finalmente posso tornare in Gambia”, mi dice. C’è chi lo esorta ad attendere ad esultare, ricordandogli che il dittatore ancora non ha lasciato il potere e che difficilmente lo farà. Mai parole saranno più profetiche. Poche ore dopo in un discorso TV Jammeh dichiara che successive indagini hanno rilevato gravi irregolarità e brogli. Afferma di rigettare il risultato delle elezioni. Promette, e minaccia, di rimanere al potere fino a nuove consultazioni elettorali. La Corte suprema prende in analisi la questione ma, per mancanza di giudici, non potrà esprimersi fino alla fine di maggio. Jammeh ha così il tempo di occuparsi dei suoi oppositori. La paura di un eventuale conflitto aumenta di giorno in giorno. L’Economic community of West African States – Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale – minaccia un intervento militare se Jammeh non lascerà il paese entro il 19 gennaio. Intanto il capo delle forze armate, Ousman Badjie, il 4 gennaio 2017 si schiera pubblicamente con Jammeh, nonostante notizie non ufficiali lo dessero allineato con Barrow. Il dittatore, forte e sicuro dell’appoggio del suo capitano, dichiara che qualsiasi intervento esterno sarà interpretato come un atto di guerra: il conflitto militare sembra inevitabile. Il 16 gennaio Jammeh dichiara lo stato di emergenza per novanta giorni. Denuncia nuovamente brogli elettorali, riferisce di alcuni suoi sostenitori che sarebbero stati allontanati con la violenza dai seggi, incolpa forze straniere occidentali di aver interferito con l’andamento delle votazioni. Sembra mostrare il panico di chi si sente messo all’angolo. Promette di “ristabilire pace, legge ed ordine nel paese”.
È IL 19 GENNAIO, GIORNO DELL’ULTIMATUM. IL 21 JAMMEH CEDE
Più di 26 mila Gambini sono fuggiti in Senegal temendo lo scoppio di una guerra e i turisti europei vengono fatti rimpatriare. Ousman Badjie, che solo due settimane prima aveva promesso il suo appoggio a Jammeh, asserisce che i suoi militari non combatteranno le forze dell’Ecowas. “Si tratta di una disputa politica. Non ho intenzione di coinvolgere i miei uomini in una lotta stupida.”
Il dittatore però continua nel suo affronto: “qualsiasi intervento militare straniero sarà considerato come una dichiarazione di guerra.” Presidenti e diplomatici mediano. Nel frattempo Barrow, regolarmente eletto, giura da nuovo presidente del Gambia nell’ambasciata di Dakar, in Senegal. Nella notte tra il 19 ed il 20 gennaio le prime truppe Ecowas entrano in Gambia. Il capo delle forze armate Badjie afferma che “quando i nostri fratelli dell’Ecowas arriveranno gli offriremo una tazza di tea. Perché mai dovremmo combattere? Io amo i miei soldati ed il popolo Gambiano”, cambiando di nuovo casacca e giurando alleanza al nuovo presidente.
Il 21 gennaio Jammeh cede. Lo annuncia il presidente della Mauritania, Mohamed Ould Abdel Aziz, tra i diplomatici in missione. “Il presidente uscente lascerà il paese appena ci saranno le condizioni, molto presto di certo.” Quali siano queste condizioni e quanto presto il dittatore lascerà il Gambia? Molti temono che sia solo una mossa di Jammeh per prendere tempo. Intanto Barrow, fiducioso, dichiara che il regno di terrore nel paese è finalmente finito. Il giorno dopo Jammeh e la sua famiglia partono per l’esilio politico, diretti prima in Guinea-Conakry (Guinea Francese) e poi in Guinea Equatoriale (Guinea Spagnola), fuori dagli accordi della Corte penale internazionale: per l’ex-dittatore si prospetta un salvacondotto, con in tasca 500 milioni di Dalasi (più di 10 milioni di euro). A scoprirlo, il 23 gennaio, è Mai Fatty, politico dell’opposizione.
LA NJOVA SPERANZA HA IL NOME DI ADAMA BARROW
Il 26 gennaio il nuovo presidente rientra in Gambia prendendo il posto che i gambiani gli hanno affidato. Le strade sono in festa. “Ti diamo il benvenuto, nostro presidente, nostra speranza, nostra soluzione.” Adama Barrow è un venditore immobiliare di 52 anni. Si è candidato da indipendente dopo aver rassegnato le dimissioni dal Partito democratico unito (Udp), ma appoggiato da una coalizione di sette partiti di opposizione. Il suo programma politico si basa su tre punti: rinascita economica del paese, ridurre dell’emigrazione (soprattutto quella giovanile) e ripristino dei diritti umani negati dal governo di Jammeh, in particolare la libertà d’espressione. Barrow ha promesso che il suo sarà un “governo di transizione” per un Gambia libero e democratico, e che rimetterà il mandato dopo soli 3 anni. Con le casse dello Stato vuote e con i sostenitori dell’ex-dittatore ancora sparsi per il paese, il compito del nuovo presidente non sarà certamente facile. Barrow, che ha promesso di riformare le forze armate in modo da “separarle dalla politica” ha chiesto all’Ecowas di non ritirarsi ancora e di rimanere per altri sei mesi. Almeno.

Foto: Ade Bah // Pellegrino Tarantino
COSA PENSANO I GAMBIANI
“Abbiamo avuto il cuore in gola tutte le notti”, dice Mamuddu. “Non riuscivamo a dormire”, gli fa eco Ade Bah. “Ho un amico di Amnesty International, lui me l’avevo detto: stavolta Jammeh non vincerà. Io lo sapevo, ma comunque ho una famiglia lì, mia madre e mio fratello. Ero preoccupato”, racconta Charlie.
Mamuddu spiega che Jammeh ha deciso di indire nuove elezioni “perché era sicuro di vincerle, lui si crede una divinità. Noi africani siamo molto spirituali, ed alcuni leader finiscono per credersi prescelti. Lui pensava di poter curare l’Aids, ti rendi conto?”
“Doveva indirle per forza, altrimenti ci sarebbe stata una guerra civile. Le persone ormai non avevano più paura di lui. E nel momento in cui i gambiani non hanno più avuto paura di lui allora è stato lui ad aver paura dei gambiani. Credeva di avere tutto il potere, ma il potere appartiene a noi, ai gambiani. Pensava di essere lui il potere, ma il potere sono io ed il mio popolo”, esulta vittorioso Charlie.
Jammeh, nei suoi ventidue anni di dittatura, ha creato un clima di terrore totale. “Ci sono stati…”, si confrontano un attimo, contano “…sedici, circa sedici tentativi di colpo di Stato contro Jammeh negli ultimi ventidue anni, ognuno dei quali è stato represso nel sangue. Si è arrivati al punto che non si poteva dire niente, non si poteva neanche nominarlo, oppure finivi in prigione e buttavano via la chiave”, dicono Ade Bah e Charlie. “O peggio, ti ritrovavano a pezzi. Un pezzo tra le fauci di un coccodrillo, un pezzo in bocca ad un leone…”, aggiunge Mamuddu con l’aria di chi vuole maledire il cielo. La lista delle atrocità del dittatore è infinita, eppure gli è stato concesso di scappare. “Può andare dove vuole, non mi interessa. Noi gambiani prima o poi lo prenderemo. Deve pagare per i suoi crimini”, tuona infuriato Mamuddu. “Non può restare così, libero. Sono molto preoccupato. Anche dalla Guinea Equatoriale potrebbe pilotare dei nuovi colpi di Stato. Ci sono ancora persone fedeli a lui, mercenari e militari schierati con lui. Poi la riforma dell’esercito, le casse vuote, l’Ecowas che vuole rimanere. Se riduci l’esercito e non lo paghi si ribella”, dice saggiamente Charlie. Un ragionamento, il suo, che non fa una piega.
LA PROPRIA CASA È LA PROPRIA CASA
Il 10 gennaio, quando questa storia era ancora in divenire, poco prima che Jammeh si rimangiasse tutto, prima dello stallo, della paura della guerra, Charlie ha detto di voler ritornare in Gambia.
“La propria casa è la propria casa. Come la mamma. Vorrei poter tornare, vedere la Nuova Gambia, ma solo per qualche mese, lo sai, sono un viaggiatore. Il mio sogno è viaggiare e suonare. Sarebbe bello. Sono convinto che la musica sia un’arma di pace”, racconta col sorriso.
“Anche io voglio tornare”, dice Mamuddu. “Ma non adesso. Quando la situazione sarà tranquilla. Prima avevo una fattoria ed un allevamento di bestiame. Compravo e vendevo mucche. L’oscillazione del Dalasi mi ha reso, però, le cose difficili. Poi un giorno un macellaio a cui ho dato i miei capi, e che avrebbe dovuto pagarmi una volta venduta la loro carne, è semplicemente svanito nel nulla, è scappato. Io sogno di poter tornare nel mio paese e poter riprendere la mia attività. Ormai il mio terreno lo avranno occupato, di sicuro dovrò comprarne un altro.”
“Anche a me piacerebbe tornare”, confida Ade Bah. “In Gambia avevo un negozietto con i miei, uno spaccio alimentare, vendevamo riso, semi, olio, ma è sempre stato difficile andare avanti. La gente di Jammeh ci chiedeva il pizzo, cifre altissime, certe volte veniva anche più gente a chiedercelo nello stesso mese. In Gambia era così. Non potevi avere nessun tipo di business se non controllato da Jammeh. Doveva avere tutto. Anche io sogno di poter tornare e riprendere la mia attività, il mio bel negozietto…”

Foto: J-Man // Pellegrino Tarantino
LA STORIA DI J-MAN
Insieme a Charlie e i suoi c’è un ragazzo che non vuole essere fotografato e non vuole far sapere il suo nome. Porgendogli un’agendina chiedo come vuole che lo chiami. Scrive: “J-Man”.
J-Man è in Italia da diversi anni. È scappato da Jammeh, dalla repressione, da una condanna a morte. In Gambia era un professore e come persona di cultura si è occupato anche di politica. Militava nel principale partito di opposizione – lo stesso di Barrow -, insieme a suo padre. Alle penultime elezioni si presentò come scrutatore per controllare eventuali brogli. Sa bene che alle votazioni precedenti Jammeh ha sempre truccato i risultati, ed è pronto a fare di tutto affinché questa volta, almeno nel suo seggio, non accada. Ma i brogli ci sono ed alcuni uomini gli dicono di dover prendere i voti del suo seggio per scrutinarli altrove. Lui si oppone. “I voti non vanno da nessuna parte senza di me!”, insiste. Prendono le urne con la forza. Lui si ribella divenendo nemico del regime. Vanno a prendere suo padre, lo portano via, in prigione. Di lui non si saprà mai più nulla. J-Man scappa. Riesce a nascondersi a casa di un parente per qualche tempo, sa che stanno cercando anche lui. Che Jammeh ed i suoi lo hanno praticamente condannato a morte.
“Sai cosa sono i Jungulars?” Descrive la loro brutalità, la violenza. Nei suoi occhi odio, rabbia e la paura di chi, svegliandosi un giorno, ha avuto il dubbio che quegli spietati animali stessero cercando proprio lui. J-Man ha lasciato una moglie e una figlia piccola, al sicuro, ma lontane, e lui avrebbe tanto voluto veder crescere la sua bambina. “Quando riesco a sentirla a telefono mi chiede se sono suo padre. Non sai quanto fa male al cuore”, ricorda con tristezza. Poi mostra delle foto dei suoi compagni, scattate in un bunker sotto la fattoria nella città natale di Jammeh. Il pavimento pieno di sacchetti di droga. Gli chiedo se vuole tornare a casa. “Per cosa? La situazione non è risolta. Io non sono felice. Non so dove si potrà andare con le casse vuote. Ho perso la speranza, in tutto. Sono anni che sto qui ed ancora non ho i documenti. Dimmi tu su cosa sono seduto? Quale possibile futuro ho?” Nella sua condizione è facile perdere la speranza. Eppure J-Man si congeda con un’invocazione: “Vorrei tanto la libertà!”