Reportage dall’epicentro del sisma che, nell’agosto del 2016, ha devastato l’Appennino centrale. Ci siamo tornati ad un anno di distanza.
È la notte del 24 agosto 2016 quando, alle 3:36, un boato scuote l’Appennino centrale. Decine di piccoli borghi, incastonati tra valli e montagne, precipitano nell’incubo. La terra madre – dalla maestosa e poetica bellezza – mostra il suo lato più violento e crudele. Migliaia di scosse continuano a susseguirsi senza sosta. E come se tutto questo non bastasse arrivano il gelo e la neve. Come se dall’alto la natura volesse coprire con un candido manto la distruzione che ha generato.
“Nella sfortuna siamo stati fortunati”, mi dicono alcuni terremotati. “Se non fosse stato per l’emergenza neve si sarebbero già dimenticati di noi.” Infatti, l’eco della tragedia svanisce ben presto dai titoli dei giornali. Lo stesso vale per i disagi provocati dalle abbondanti nevicate. Il Paese sembra voler andare avanti, mettendosi alle spalle quanto accaduto.
I VIAGGI DEGLI SFOLLATI
Gli sfollati sono ancora 11.700, di cui 2.600 sono stati sistemati in plessi messi a disposizione dai Comuni ed 8.900 vivono in strutture alberghiere. Con l’arrivo della stagione estiva i gestori iniziano a protestare. Vogliono liberare le loro stanze per i turisti: pagano in anticipo e più dello Stato. Il rischio è che i terremotati tornino ad essere trattati come pacchi postali. Come un problema da smistare, di cui disfarsi. Alcuni albergatori, però, rinunceranno completamente alla stagione estiva pur di dare una mano. Molti anziani alloggiati negli hotel raccontano di sentirsi non solo abbandonati, ma in prigione. Perché, di fatto, hanno perso tutto quello che li ha resi liberi: il piccolo orto, il giardino, gli animali, il bar della piazza, il sagrato della chiesa, le passeggiate all’ombra delle grandi montagne. Non sono abituati al mare, al sole e al caldo, con i loro abiti pesanti. Hanno solo quelli. Una buona parte delle donazioni si è fermata dopo le nevicate e anche per i volontari diventa difficile trovare abiti leggeri nei fondi di magazzino.
LA CASA, IL CIBO, IL LAVORO
La situazione non è migliore per chi non è considerato sfollato. Tra questi, le 1.100 persone che risiedono nei container in 23 aree abitative di 9 comuni del cratere e coloro che percepiscono il Contributo autonoma sistemazione (Cas), erogato dallo Stato a chi provvede autonomamente a trovare una sistemazione alternativa.
Il Cas in alcuni casi è una fortuna, in altri no. Può lasciare spazio a chi specula sulla tragedia. Gli affitti nelle zone limitrofe al cratere sono aumentati fino a tre volte. Così un trilocale da 250 euro al mese oggi costa 750 euro. Quasi quanto il contributo per una famiglia media di quattro persone: 800 euro. “Tanto paga lo Stato.”
Chi riceve il contributo statale non ha diritto alla tessera mensa. Un pasto costa in media 12 euro. Una famiglia di quattro persone spende 96 euro al giorno. Quasi tremila euro al mese.
“Vabbè, ma lavoreranno no?” Dipende.
Molti commercianti e ristoratori, con i propri esercizi inagibili, attendono la costruzione di nuove aree urbane con container adibiti a negozi. Chi aveva un lavoro autonomo (idraulici, elettricisti, muratori) è senza lavoro o quasi. È paradossale in una realtà che necessita più che mai di manodopera per la ricostruzione e l’allestimento delle casette di legno.
“Ovviamente chiamano tutte aziende appaltatrici forestiere. Tutti contratti che vengono da Roma”, spiega un operaio.
Le zone colpite dal sisma sono a forte vocazione rurale. Chi aveva una produzione a fini commerciali, con partita iva, può richiedere un Modulo abitativo provvisorio rurale emergenziale (Mapre). In pratica container che vengono installati in prossimità della propria attività. Chi invece – come tanti e soprattutto gli anziani – viveva di un’agricoltura e di un allevamento di sussistenza, spesso, è con le spalle al muro. I più fortunati riescono a comprare una roulotte o un container con i risparmi di una vita, ed avere il permesso di installarlo nei pressi della propria fattoria. C’è anche chi, per cocciutaggine o mancanza di alternative, rifiuta di abbandonare tutto e continua a vivere in case dichiarate inagibili perché seriamente danneggiate. Come lo sono le nuove semine e gli alberi da frutto, a causa delle improvvise gelate di aprile.
IL VOLONTARIATO
Percepire l’abbandono dello Stato non è difficile. Non quello delle associazioni presenti sul territorio, animate da molti giovani. Come i ragazzi delle Brigate di solidarietà attiva (Bsa). Non sono un movimento, né semplici volontari. Qualcuno definisce le Bsa un “esperimento anti capitalista”. “I Briganti”, così si fanno chiamare loro.
“Un gruppo di gente impossibile che tenta di fare cose impossibili”, dice Peppone, uno dei fondatori. L’esperienza condivisa con loro mi ha dimostrato quanto sia vero. Tra gli “impossibili” che ho conosciuto c’è un ragazzo che chiamano “il Roscio”. Un ventiduenne sempre all’opera: raccoglie sondaggi, organizza staffette e rifornimenti. È costantemente al telefono, al pc o nei magazzini. E prende appunti sulla mano. Il Roscio conosce tutto di tutti. La gente si confida con lui, parla, gli chiede aiuto e consigli nonostante la giovane età. Anche per gli altri “briganti” è un punto di riferimento. Un sorriso e una parola di speranza e di incitazione non gli mancano mai. E quando viene ringraziato risponde con il suo solito humor: “No, a me i grazie non piacciono. Mi fanno schifo! Io non faccio niente. Non è il pacco di pasta che consegno al terremotato che viene al magazzino a cambiare le cose.” Come se facesse solo quello. Ma è vero, non è solo con lo scatolone di beni di prima necessità che si cambiano le cose. In un contesto in cui c’è bisogno di ricucire il tessuto sociale, per poter parlare davvero di ricostruzione, le Brigate di solidarietà attiva sono l’alternativa ad un governo che, ora più che mai, dimostra di essere lontano.
Un altro “brigante” racconta che il 25 agosto era ad Amatrice con la Protezione civile. Spiega di essere tornato per chiudere un cerchio. Sente di non aver fatto abbastanza in quei giorni. Non vuol sentirsi semplicemente “un becchino” che ha tirato fuori i corpi dalle macerie. Aveva bisogno di fare di più, in linea con lo scopo delle Bsa: portare un aiuto reale e tangibile. Non solo con l’assistenza basilare, ma anche con progetti per il territorio. Come la “filiera antisismica”. Una filiera corta dove “I Briganti” mettono in contatto i piccoli produttori locali con possibili clienti. Animano sportelli legali e vademecum con la collaborazione dello studio legale “AlterEgo”, per fornire assistenza gratuita ai terremotati. Organizzano incontri, assemblee e manifestazioni. Ascoltano storie, raccolgono rabbia.
“Non diciamo loro cosa fare, ma li aiutiamo a capire cosa possono mettere in moto e la forza che hanno”, spiega Fars, un altro dei fondatori. “Noi siamo auto-organizzazione, gente che si ritrova dalla stessa parte della barricata, come fratelli. Oggi la gente è sola, si sente divisa, atomizzata. Il nostro compito è quello di creare socialità.”