Ana, brasiliana senza saudade
Ana è l’antiprototipo femminile di una brasiliana. Perché grassa, non altissima, non bellissima e morigerata. È il contrario esatto di quello che noi italiani pensiamo debba essere – perché l’estetica è un dover essere, da queste parti – una donna latinoamericana. Non è disponibile a vendersi, ma a lavorare. E lo fa, come cuoca, da quasi quindici anni, a Milano.
La ristorazione italiana, vanto dell’economia nazionale, si nutre da un bel po’ di personale straniero di grande qualità e zelo. Ana è arrivata quando il Brasile non era ancora tra le più promettenti potenze mondiali, ma un grande subcontinente in cerca di una identità diversa da quella calcistica. Era il Brasile che prendeva la rincorsa per gareggiare sulla pista melmosa del capitalismo mondiale. Lo stesso Brasile che oggi…
“Il mio paese sta morendo per colpa della Roussef. Ho fatto bene a andar via di lì, non c’è speranza. Ora ammazzano anche i bambini delle favela. Che altro deve succedere per far aprire gli occhi all’Occidente?”
Nel suo essere un archetipo al contrario, Ana non ha rimpianti, non soffre di saudade.
“Non voglio tornare più laggiù. Non mi riguarda la vita del Brasile. Sto bene qua, anche se potrei stare meglio…”
“Sicura di star bene in Italia?”
“Sicurissima. Ho imparato a cucinare in una scuola italiana quando sono arrivata. Ho imparato la lingua e la cucina, e poi ho cominciato a lavorare. Forse sono stata fortunata. Tu che dici?”
Dico che Ana è stata molto fortunata, perché è riuscita a entrare miracolosamente in un affluente gorgogliante del Lete del sistema dell’accoglienza italiano. Le è andata bene, perché non le si son parati davanti i tanti Buzzi & Carminati di cui è zeppa l’Italia del welfare.
“Vedi quanto è bello il duomo? Questo è il bello di Milano. Che alzi la testa e vedi la bellezza” Il cliché del migrante che ce la fa, che perlomeno non stenta a sopravvivere, è ricco di luoghi comuni sul Belpaese. Ana cerca di legittimare sé stessa in una città climaticamente e architettonicamente diversa da Rio, la sua città natale.
“Ma Rio non ti piace?”
“Mi piace, ma ora sto qua”, dice con una prima, timida punta di rimpianto.
Qua è il cuore dell’Europa italiana, o forse la sola città europea d’Italia. E neanche una delle più evolute. Milano non è una città facile e abbordabile. Sembra essere tornata la Milano degli emigranti con la valigia di cartone, dei meridionali che ne invadevano le periferie in cerca di lavoro e fortuna. È una città di flussi di manodopera sempre più globalizzati.
“Sai quante brasiliane ci sono a Milano?”, mi domanda con una sfumatura di civetteria pungente come aroma di caffè. “Molte”
“Tutte residenti in Svizzera, così non pagano le tasse in Italia”
“E cosa fanno?”
“Le puttane”
Ecco. Per segnalare un’altra differenza tra sé stessa e i brasiliani più comuni, Ana rimprovera le sue connazionali messe a lavorare nel grande circo del mercato del sesso italiano. Un mercato tra i più fiorenti del mondo europeo.
Lo stesso mercato che fa del nostro Paese il secondo in Europa per prostitute ridotte in schiavitù.
“Fanno su e giù tra Milano e Lugano”, commento e lei annuisce. “Tu, invece, sei diversa”
“Io lavoro. Mi danno mille euro al mese, ma sono onesta” Onestà. Parola grossa se usata in Italia. Parola che stona con qualunque indicatore economico nazionale.
“E il tuo padrone è onesto? Te lo fa un contratto?”
“Coi voucher”
Onestà è sinonimo di voucher, jobs act e lavoro nero. Onestà, albergo dello sfruttamento.
“Quante ore lavori?” “Undici”
Undici ore in cucina, per sei giorni a settimana, per mille euro versati con il sistemone dei voucher e di altri contrattini orari.
“È vero, tu sei più onesta”, ironizzo.
Ana non afferra. Si stringe nel suo piumino verdone e mi invita a prendere un caffè.
“D’accordo, a patto che mi racconti quanto è bella Rio” Sorride e alza un braccio. L’ho convinta a tirar fuori qualche rimpianto e quell’amore per il suo Paese che le brilla ancora negli occhi.
Mario, il cuoco londinese
Milanese vero, come si definisce lui smentendo il proverbio che nega da sempre l’esistenza di una razza milanese purosangue, Mario è cuoco a Londra. Faceva il contabile, ma guadagnava pochissimo. Ha vissuto nella miseria per un paio d’anni, dopodiché ha deciso di prendere un diplomino e di partire per la capitale del Regno Unito.
“Perché? Solo un fatto di soldi?”, gli domando. “Soprattutto per Londra. A Milano tutti se la tirano, manco fossimo davvero meglio degli altri. Milano è un bluff. Londra è città vera. Anche se è dura. Ma anche Milano è dura per gli stranieri”
Sì, Milano è dura. Dura l’Italia dei nuovi razzisti diffusi da Nord a Sud, dei nuovi poveri che guerreggiano con i poveri di sempre.
“Si son messi in testa che bisogna far la guerra alla povertà”, dico.
“Ai poveri!”, mi corregge intelligentemente.
Infatti, la cronaca milanese è piena di attacchi xenofobi, di risse tra italiani e stranieri, tra periferici e periferici.
“Sono scappato quando ho capito che l’Italia non ce la farà mai”
“Quando l’hai capito?”, gli domando.
“Un giorno che ho visto il mio vecchio padrone prendere a calci il suo cane perché non ce la faceva a pagare una bolletta. Tutto parte dalla teste. Se son matti i capi, diventiamo matti tutti. Ma io no”
Ci siamo fermati davanti al Duomo. Lo ammiriamo stupefatti. Le guglie che pungono il cielo nebbioso e ovattato.
“Tu no?”
“No. A Londra è dura. Anche lì il padrone rompe i coglioni, ma c’è lavoro. Sì, sono usciti dall’euro, ma mi dici a che serve avere l’euro se non c’è l’Europa?”
Non so cosa rispondere, perché la distanza tra Europa e Euro è abissale. Tanto è vero che qualunque rimedio finanziario al disastro economico dell’Ue non trova mai d’accordo governi e popoli europei. Siamo una federazione in procinto di esplodere, più che una comunità di valori e persone.
“Quanto ti pagano?”
Mario si gonfia.
“Tremila euro al mese. E sono solo un aiuto cuoco. Stiamo parlando di un buon ristorante, dove posso esercitarmi la mattina per preparare dei piatti all’italiana che nessuno sa fare. Sono diventato bravo. Mi fanno sperimentare…”
Mario apprezza lo stipendio e la libertà. L’iniziativa che gli fanno prendere in Inghilterra perché sanno, loro, che l’economia rinasce dove c’è inventiva, creatività, libertà. Un’economia che nulla ha a che fare con le gelide ricette della Bce.
“Rimarrai sempre lì?”
“Non lo so. Per ora sì. Non mi conviene tornare in Italia. Anche l’Italia è cara, che ti credi? Milano è diventata intoccabile, ma guardati intorno. Siamo sotto Natale ma nessuno che compra. Tutti a guardare. È la crisi? No, secondo me è la fine che è già arrivata e non se ne sono accorti”
“Chi?”
“Voi che siete ancora in Italia”
In quell’ancora c’è un’esortazione a seguirlo. A fare come lui, come gli altri centosettemila che nel 2015 hanno mollato la penisola per l’estero. C’è tutta l’Italia che se ne va per non più tornare. Annuisco e lo invito a fare due passi. Mi dice che vuol mostrarmi un localino che vorrebbe imitare, per aprirne uno simile a Londra. Lo seguo volentieri, e usciamo dalla tristissima bruma milanese di piazza Duomo.