“Ingiusto e sbagliato criminalizzare povertà ed emarginazione sociale.” È questa in sintesi la contestazione di associazioni ed operatori sociali al decreto Immigrazione dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Marco Minniti e Luca Orlando, approvato il 28 marzo al Senato con i voti di Pd, Mdp e Area popolare.
Contro il decreto numero 13 del 17 febbraio 2017 – recante “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale” – si sono schierati anche l’Associazione nazionale magistrati ed il Consiglio superiore della Magistratura. Durissimo e lapidario il commento dell’organo di autogoverno della Magistratura: il decreto è una “pericolosa compressione delle garanzie”. Tra i primissimi punti contestati c’è proprio la questione giustizia: i richiedenti asilo non potranno più ricorrere in appello – ma solo direttamente in Cassazione – e saranno istituite sezioni specializzate nei tribunali. Una scelta che potrebbe essere considerata discriminatoria secondo l’avvocato dell’Asgi Gianfranco Schiavone. Sul primo punto ha espresso la propria forte contrarietà anche Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di Cassazione, che ha invitato il governo a riflettere sul “deficit dal punto di vista delle garanzie” che il decreto determina per i migranti.
Tra i punti più controversi del decreto c’è l’apertura dei Cie (ex Cpt), rinominati in Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), in quelle regioni su cui il Governo vuol tornare a puntare. Istituiti con l’articolo 12 della legge n.40/1998 e divenuti Cie con il decreto legge n.92/2008 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), i Centri sono stati da sempre attenzionati per violenze e abusi. La documentazione e la raccolta relative a queste denunce hanno portato associazioni, movimenti e giornalisti a definire alcuni Cie, veri e propri lager. Uno, dei più emblematici, è il “Regina Pacis” di Lecce, contro cui si batté Dino Frisullo e la cui situazione fu denunciata nel documentario “Mare Nostrum” di Stefano Mencherini. Nel 2006 il cardinale Renato Martino, allora presidente del Consiglio Vaticano “Giustizia e Pace”, definì i Cpt “una soluzione che va scoraggiata”, “luoghi dove viene umiliata la dignità umana” e “vere prigioni dove si violano sistematicamente i diritti dell’uomo”.
L’emergenza Nord Africa – proclamata da Roberto Maroni nel 2011, in veste di ministro dell’Interno, dopo l’inizio della guerra in Libia – ha portato in gran parte al superamento dei Cie con la costituzione dei Cas, e successivamente degli hotspot. Strutture contro cui si sono levate denunce per violazioni dei diritti umani, violenze e abusi. A Bologna contro la riapertura del Centro di Via Mattei si sono espressi i centri sociali Tpo e Làbas, secondo cui già “per troppi anni abbiamo convissuto con gli orrori quotidiani di un luogo dove persone vittime della legge Bossi-Fini venivano private della libertà e della dignità, punite anche con violenze e abusi polizieschi per un reato che non hanno commesso.”
L’ultimo fatto increscioso è delle ultime settimane: il 18 marzo Cathy La Torre, legale del Movimento identità transessuale, ha denunciato la storia di Adriana, una transessuale brasiliana in Italia da 17 anni, in sciopero della fame da 8 giorni per protestare contro la sua detenzione in un reparto maschile. “Adriana è al Cie di Brindisi dal 21 febbraio e si trova in mezzo a centinaia di uomini, correndo ogni istante evidenti rischi di violenze. Proviene da una zona pericolosa del Brasile, dove ogni anno vengono uccisi 200 trans. Vogliamo che della questione si interessi il ministro della Giustizia e il Dap, perché Adriana passa 23 ore al giorno in cella per proteggersi.”
Adriana ha anche denunciato l’impossibilità di portare avanti una cura ormonale. “Ho fatto più volte richiesta per ricevere le pillole – ha raccontato – ma continuano a ripetere che avrei bisogno delle visite e che ci sono problemi burocratici.” Il permesso di soggiorno di Adriana era scaduto dopo aver perso il lavoro regolare da cameriera. Il 24 marzo è uscita finalmente dal Cie di Brindisi, dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno di 6 mesi, in attesa che il prossimo 10 aprile si riunisca la Commissione che dovrà decidere sulla sua domanda di asilo umanitario.
Insieme al decreto numero 13 del 17 febbraio 2017 è in discussione anche un secondo decreto, il numero 14 del 20 febbraio 2017, su “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”. Stabilisce, tra le altre norme, che possano essere allontanate per la “tutela ed il decoro di particolari luoghi” persone la cui “colpa” potrebbe essere il non avere una fissa dimora, introducendo una sorta di mini-Daspo urbano. Un provvedimento quasi anticipato dal sindaco di Roma, Virginia Raggi, che ha annunciato un nuovo regolamento comunale con divieti e multe per chi rovista nei cassonetti. La fusione tra i due decreti crea un mix che andrà a colpire poveri e persone ai margini della società. Tantissime le voci contrarie. Sabato 8 aprile, a Roma, nel circolo Arci Solidarietà di via Goito, operatori sociali di tutta Italia si sono autoconvocati in un’assemblea. Che non è l’unica. Un’assemblea si è già svolta due settimane fa all’Università La Sapienza, convocata da diverse associazioni nazionali e durante la quale don Armando Zappolini – presidente del Cnca – è arrivato ad invocare anche la disobbedienza civile. Un appello contro “un messaggio politico culturale reazionario” che accredita “la tesi della criminalizzazione degli ultimi.”
La data di approvazione in Senato del “decreto Immigrazione” (28 marzo 2017, ndr) cade proprio nel diciannovesimo anniversario del naufragio della Katër i Radës. Il 28 marzo 1998 la nave affondò dopo essere stata speronata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana. I morti furono 81, 34 i superstiti e tra i 24 e i 27 i dispersi. a tragedia della Katër i Radës è passata alla storia come “la strage del venerdì santo”. Una strage collegata alla stretta contro l’immigrazione del primo governo di Romano Prodi che la settimana precedente aveva deciso un blocco navale nel Canale d’Otranto contro l’arrivo delle “carrette albanesi”.