Dal report 2019 “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” – il primo di sistema Ispra-Snpa (Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente), nato con la legge n.132/2016 – emerge l’immagine di un Paese ad alta fragilità ambientale nel quale, nel solo 2018, si sono persi, alla velocità di 2 metri quadri al secondo e alla media di 14 ettari al giorno, altri 51 chilometri quadrati di suolo naturale e agricolo. Al Sud ovviamente la maglia nera.
Un dato assolutamente preoccupante, non giustificato né dal decremento demografico in corso né dagli effetti del cambiamento climatico che sta ridisegnando le geografie urbane. Ne consegue, dunque, che ogni abitante ha in “carico” oltre 380 metri quadri di superfici artificiali.
A livello urbano Roma e Verona sono le città che hanno conseguito le peggiori performance ambientali, rispettivamente, con 75 e 33 ettari di nuovo consumo di suolo. Tra le città capoluogo di provincia o di regione si distingue Torino dove sono stati rinaturalizzati 7 ettari.
A livello regionale, invece, dopo Veneto e Lombardia – che si confermano ai primi posti tra i territori che hanno registrato il massimo incremento di ettari consumati nell’ultimo anno (rispettivamente +923 e +633) – troviamo sul terzo gradino del podio la Puglia (+425), seguita da Emilia-Romagna (+381) e Sicilia (+302). Quasi il 50 per cento dei principali cambiamenti avutisi nel 2018 sono geolocalizzati nelle aree urbane già fortemente compromesse e densificate, con la conseguenza che nel periodo estivo la differenza di temperatura tra città e cintura periferica o periurbana supera i 2 gradi centigradi. Tra le trasformazioni dell’uso del suolo naturale si segnala la tipologia del cantiere che ha coinvolto quasi 2850 ettari. La crescita del consumo di suolo ha generato, infine, una perdita di quasi 24 metri quadri per ogni ettaro di aree a verde.
LE NOVITÀ INTRODOTTO DALL’ULTIMO RAPPORTO ISPRA?
Nel rapporto 2019, oltre all’aggiornamento dei dati del 2018, sono stati introdotti una serie di nuovi parametri per meglio decodificare la complessità del paesaggio italiano. Tra questi, ottemperando alle prescrizioni dell’Unione europea, che ha introdotto la «land degradation neutrality», per la quale deve essere raggiunto il saldo zero di consumo di suolo entro il 2050 – l’indicatore del degrado dei suoli attraverso il quale si valutano, tra il 2012 e il 2018, sia i cambiamenti di copertura del suolo, la perdita di produttività, la perdita di carbonio organico e la perdita di qualità degli habitat; sia altri fattori quali la frammentazione, l’impatto potenziale del consumo di suolo, la densità delle coperture artificiali e gli incendi.
Per il primo parametro, la superficie attraversata dal degrado è pari a quasi 1200 chilometri quadrati; per il secondo la stima è di 9420 chilometri quadrati; per il terzo l’estensione del fenomeno intacca circa 670 chilometri quadrati che, infine, diventano quasi 34 mila chilometri quadrati, valutando il quarto indicatore. La stima complessiva, che considera anche i valori degli altri fattori di degrado, è di 80 mila chilometri quadrati, corrispondenti al 26,5 per cento del territorio nazionale. Questa analisi ancora sperimentale, fotografa chiaramente, tuttavia, lo stato di salute dei suoli del Mezzogiorno.
In particolare, come rivelato peraltro anche dalle evidenze scientifiche dell’Agenzia europea dell’Ambiente, il Mezzogiorno è a fortissimo rischio desertificazione per l’intensità degli effetti e degli impatti provocati dai cambiamenti climatici.
I PROCESSI DI TRASFORMAZIONE TERRITORIALE COME STANNO RIDISEGNANDO IL MEZZOGIORNO?
In Puglia, rispetto alla precedente rilevazione, si sono persi quasi 425 ettari di suolo naturale, con una redistribuzione, tra le sei province, molto meno omogenea del passato: svetta quella leccese, con 135 ettari artificializzati soprattutto dall’”industria del turismo”, seguita dall’Area Metropolitana di Bari, nella quale il consumo di suolo di 108 ettari ha origine nella costruzione, principalmente, di nuove residenze o di volumetrie destinate a servizi. A livello provinciale, tuttavia, si segnala il caso emblematico della Terra di Brindisi: gli oltre 50 ettari persi nell’ultimo anno, per l’insediamento di mega-parchi fotovoltaici su superfici agricole, diventano addirittura 890 ettari su un arco temporale di 8-10 anni.
A livello comunale, invece, Foggia e Bari, rispettivamente con 23 e 18 ettari di suolo naturale perso, si confermano ai vertici tra gli enti locali. Seguono, tra i poli urbani più importanti, Taranto con 15 ettari e Lecce con 11. Tra le prime due città si inserisce Monopoli, sempre con 18 ettari. È importante sottolineare quest’ultimo dato perché per l’intensità dei processi di trasformazione dei paesaggi costieri, nell’ultimo anno, la Puglia è quella che più ha intaccato in Italia tali territori: nel dettaglio, la densità del consumo di suolo entro i 300 metri ha raggiunto i 4,8 metri quadrati/ettaro, con l’indicatore che sale a 8,4 quadrati/ettaro nella fascia tra i 300 e i 1000 metri.
Le evidenze richiamate, dunque, confermano che in questi contesti particolarmente vulnerabili si consolida l’aumento delle superfici artificiali a danno di quelle naturali, con una significativa riduzione dei servizi ecosistemici. Con questa espressione si intendono i benefici multipli prodotti dalla natura ed è fondamentale, dunque, valutarli rigorosamente nell’era geologica che stiamo attraversando, ridefinita “antropocene”, nella quale la pervasività dell’azione dell’uomo sovrasta la capacità della natura di rigenerare i propri cicli vitali.
In Puglia, quindi, la riduzione dei servizi ecosistemici a causa del consumo di suolo, secondo le rilevazioni dell’Ispra, sta producendo danni economici pari a 300-400 milioni di euro all’anno, cioè un valore fra 700 e 940 mila euro per ettaro. E va considerato che tali danni rimangono costanti per tutti gli anni a venire, per i servizi perduti.
In Basilicata, nella Matera capitale europea della Cultura si è registrato, nell’ultimo anno, un consumo di suolo di 17 ettari, sei in meno di quelli persi nel piccolo comune di Tolve, dove, a fronte di un valore pro capite annuo di 72 metri quadri, la densità ha sfiorato i 18 metri quadri per ettaro. Potenza, Melfi e Vaglio, con 17, 16 e 13 ettari completano, rispettivamente, la cinquina di polarità urbane che hanno visto il maggiore incremento di consumo di suolo nel 2018. Con i dati aggiornati, dunque, Matera – secondo la serie storica di rilevazione avviata nel 2012 – ha impermeabilizzato quasi 2200 ettari, 300 circa in più di Potenza. Oltre il 60 per cento dei nuovi cambiamenti è riconducibile alla realizzazione di nuovi impianti per le energie rinnovabili, in particolare parchi eolici che stanno riconfigurando gli assetti paesaggistici locali, prettamente rurali.
GLI STRUMENTI E LE POLITICHE DA METTERE IN CAMPO PER FAVORIRE I PROCESSI DI ADATTAMENTO AI CAMBIAMENTI CLIMATICI O DI RIGENERAZIONE URBANA
L’Italia, nella quale è ancora vigente la legge fondamentale dell’urbanistica del 1942, non dispone ancora di una legge nazionale contro il consumo di suolo, con la difficoltà odierna non solo di regolamentare un fenomeno assolutamente impattante sullo stato di salute della città e di chi le vive, ma anche di correlarsi con le Regioni, corresponsabili dei processi di trasformazione territoriale per il carattere concorrente della materia del governo del territorio.
Ad oggi, dunque, le Regioni sono gli organi di governo locale che maggiormente dovrebbero essere interrogate e sollecitate per una conversione ecologica radicale e solidale. In assenza di una disciplina nazionale che favorisca, inoltre, i processi di rigenerazione urbana e di innovazione sociale, nella salvaguardia delle identità locali issate a bene comune dalle nuove “comunità di destino” ricostituitesi sempre più spesso attraverso l’istituto della partecipazione civica, è responsabilità delle Regioni spingere sui Comuni perché, superando strumenti urbanistici spesso obsoleti e storicamente superati, adottino nuovi Piani Urbanistici nei quali siano messe al centro, strategicamente, misure integrate oggi ineludibili come il censimento del patrimonio edilizio esistente e la moratoria sul nuovo consumo di suolo con il precipuo intento di riqualificare, anche energeticamente e non solo funzionalmente, l’immenso patrimonio dismesso e degradato, nonché di dotare, diffusamente, lo spazio pubblico di sistemi naturali che migliorino il microclima urbano.
Nel nostro Paese sono sempre più numerose le buone pratiche, da nord a sud, che andrebbero conosciute e replicate ovunque possibile per elevare la qualità della democrazia locale.
È il caso, ad esempio, del Paesc del Consorzio dei Comuni delle Terre del Sole, in provincia di Taranto, che per primo ha posto l’accento non solo sulle strategie energetiche, ma anche sull’analisi microclimatica locale, concentrandosi, inoltre, sulla possibilità di predisporre una prima valutazione del rischio e sulle linee di indirizzo delle misure di mitigazione ed adattamento, giungendo, infine, a indicare anche gli strumenti operativi per la loro trasformazione in progettualità esecutive integrate.
Da questa visione emergono misure radicali, come la ripermeabilizzazione di aree asfaltate, l’incremento della capacità di accumulo sistemico e diffuso delle precipitazioni, l’analisi della resilienza delle strutture e delle infrastrutture esistenti per il loro irrobustimento, oltre ai percorsi di riorientamento dell’agricoltura e il piano mobilità.
Segnali tangibili, e ancor più indispensabili, per un territorio nel quale si registrano, con frequenza crescente, eventi estremi sempre più intensi. In un mondo che cambia, dunque, la soluzione è spesso a portata di mano: gli amministratori del Mezzogiorno non dovrebbero inventarsi nulla. Dovrebbero soltanto copiare le esperienze virtuose e coraggiose presenti. Sicuramente nessuno chiederebbe loro la giustificazione.