Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Direttiva Seveso e trasparenza. Il caso Abruzzo

La categoria degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante è stata introdotta in Italia dal 1988. Da allora, nelle more di recepimenti ed integrazioni, la direttiva Seveso sembra essere ancora un tabù.

Ci sono luoghi che entrano nella storia e nella memoria collettiva, e non ne escono più. Assumono una notorietà perenne, che cambia anche il senso e il significato del nome stesso. Può accadere per un evento straordinario. Ma ancor di più accade per eventi tragici, drammatici, mortali. Questa sorte toccò al Comune di Seveso, poco più di 20 mila abitanti nell’attuale provincia di Monza e Brianza. Nel 1976 una nube della diossina più pericolosa conosciuta, fuoriuscita dalla Icmesa, investì una vastissima area. Era il 10 luglio di una terra senza colpa, nella quale i bambini giocavano al sole, come scrisse qualche mese dopo Antonello Venditti in una canzone dedicata al disastro. Quando la storia di Seveso e della Brianza cambiò per sempre. Una città spettrale, dove chi raccoglieva campioni da analizzare vagava tra le case vuote ed esposte alla diossina, tra animali morti. Il silenzio era rotto solo dalle comunicazioni radio.
I fatti di Seveso indussero, sei anni più tardi, i governi europei a varare l’omonima direttiva che, ancora oggi, impone l’identificazione e una speciale regolamentazione e controllo degli “impianti a rischio di incidente rilevante”. Questa speciale legislazione, che negli anni ha subito diverse variazioni, prevede il coinvolgimento di tutti gli enti locali (Comuni, Regioni, Province), dei Vigili del fuoco e delle Prefetture.
La categoria degli “stabilimenti a rischio di incidente rilevante” fu introdotta in Italia con decreto del presidente della Repubblica n.175 del 17 maggio 1988, che recepiva nell’ordinamento italiano la direttiva 82/501/CEE, detta appunto “Direttiva Seveso”. La normativa è stata successivamente aggiornata con il decreto legislativo n.334/99 con recepimento della direttiva 96/82/CEE.
Una parte importante della legislazione prevede che la popolazione sia consultata e informata, che sia a conoscenza dei rischi e – lì dove ritenuto necessario – abbia un piano a disposizione nel caso l’incidente rilevante avvenga. L’articolo 20, infatti, prevede che “il prefetto, d’intesa con le regioni e gli enti locali interessati, previa consultazione della popolazione e nell’ambito della disponibilità finanziarie previste dalla legislazione vigente, predispone il piano di emergenza esterno allo stabilimento e ne coordina l’attuazione.”
Ma, la consultazione della popolazione è stata ulteriormente precisata e regolamentata dal decreto n.139/2009 del ministero dell’Ambiente, che fa seguito al decreto legislativo n.238/2005 che ha recepito in Italia la direttiva 2003/105/CE.
L’articolo 2 del decreto n.139/2009 prevede che “Il prefetto, ai fini di cui all’articolo 20, comma 1, del decreto legislativo n. 334 del 1999, nel corso della predisposizione del piano di emergenza esterno e comunque prima della sua adozione procede, d’intesa con il comune, alla consultazione della popolazione per mezzo di assemblee pubbliche, sondaggi, questionario, altre modalità idonee, compreso l’utilizzo di mezzi informatici e telematici.”
L’ultima modifica è avvenuta con il decreto legislativo n.105 del 26 giugno 2015.
In un articolo pubblicato a gennaio 2015 sul sito del mensile Altreconomia [Stoccaggi, che fine ha fatto il rischio industriale?, Pietro Dommarco] si apprende che nel 2013 l’Unione europea ha avviato una procedura d’infrazione europea nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto della normativa Seveso. La predisposizione e pubblicizzazione dei Piani di emergenza esterni, si legge nella stessa inchiesta, sono oggetto quotidiano di impegno per attivisti di Lombardia e Abruzzo.
Ma i focus su quella che rappresenta uno dei punti cardine della normativa di tutela ambientale sono diversi. Nel gennaio 2013, Legambiente in un suo studio sull’applicazione della “Direttiva Seveso” su tutto il territorio nazionale ha riportato il dato di oltre 1100 impianti (attualmente il sito del ministero dell’Ambiente parla di 1096 totali, di cui 556 rientranti nella tipologia che richiede la predisposizione del Piano di emergenza esterno) concentrati in 739 comuni italiani, ai quali venne inviato un questionario sul livello di “realizzazione o partecipazione” degli stessi “a periodiche esercitazioni, del recepimento da parte degli stessi comuni delle informazioni contenute nei Piani d’emergenza esterni redatti dalle prefetture competenti, della pianificazione urbanistica che tenga conto del rischio esistente.”
Solo il 29 per cento dei Comuni rispose al questionario di Legambiente. Di questi, il 14 per cento non aveva predisposto “una planimetria del territorio e individuato le aree di danno, sottoposte a conseguenze nell’eventualità di un incidente nello stabilimento a rischio.”
Addirittura solo la metà dei Comuni che risposero all’associazione ambientalista ha dichiarato di “aver realizzato campagne informative sui comportamenti da tenere in caso di emergenza, per dare a tutti coloro che vivono e lavorano in prossimità dell’insediamento informazioni pratiche, precise e puntuali su come riconoscere i segnali di allarme e come mettersi al sicuro.”
Un quadro sconfortante. Eppure basta scorrere l’elenco per capire immediatamente quanto la questione sia delicatissima e meriti la massima attenzione e responsabilità. Da nord a sud troviamo raffinerie, impianti per esplosivi, impianti siderurgici, distillerie, depositi energetici, centrali.

LA SITUAZIONE ABRUZZESE
Gli impianti abruzzesi riportati nell’inventario nazionale sono 26. Localizzati in 20 comuni. Di questi, solo 2 risposero al questionario della Legambiente. Un dato inferiore alla già bassissima media nazionale. Il quadro della situazione in terra d’Abruzzo viene tracciato in uno studio del 2014, a cura dell’Associazione antimafie Rita Atria e da Peacelink. Dieci dei 26 impianti presenti risultano classificati nella categoria degli impianti a più alto rischio. Sullo sfondo una enorme difficoltà ad avere accesso alle informazioni, diversi ritardi nell’applicazione della normativa e mancanza di trasparenza, tanto che “la popolazione non è neanche a conoscenza, in alcuni casi, che lo stabilimento situato nel proprio Comune è ricompreso nell’Inventario Nazionale.
Un precedente accesso agli atti presso tutti gli enti coinvolti addirittura “ebbe pochissime risposte, in alcuni casi fu alquanto laborioso (in un caso per avere un documento che la normativa impone sia di dominio pubblico si è dovuto arrivare quasi a minacciare di adire le vie legali) e in un Comune, addirittura, gli stessi uffici comunali non conoscevano la normativa e che uno stabilimento a rischio di incidente rilevate fosse presente nel loro Comune.

QUATTRO ANNI DOPO LA SITUAZIONE È CAMBIATA?
Abbiamo ripetuto lo stesso procedimento, alla ricerca dei dieci Piani di emergenza esterna degli impianti considerati più a rischio, secondo il decreto legislativo n.334/99, come modificato n.238/05, articoli 6, 7 e 8.
Lo abbiamo fatto consultando principalmente i siti istituzionali. Innanzi tutto, l’inventario nazionale – disponibile sul sito del ministero dell’Ambiente, e aggiornato al 3 agosto 2015 – riporta che gli impianti a cui ci stiamo interessando sono così catalogati: 2 di “Produzione e/o deposito di esplosivi”, 1 è “Stabilimento chimico o petrolchimico”, 3 sono “Depositi di gas liquefatti”, 1 è “Deposito di olio minerale”, 2 sono “stoccaggi sotterranei” e 1 ha produzione di diversa natura non specificata. Distribuiti nelle province di Chieti, L’Aquila, Pescara e Teramo.
Le aziende titolari, invece, sono la Stogit spa, Eni spa, Edison Stoccaggi spa, Solvay Chimica Bussi spa, Butangas spa, Wts Gas spa, Simad spa, Alannogas scarl, Esplodenti Sabino srl e Laboratori Nazionali del Gran Sasso.
Al termine della nostra ricerca il quadro sembra essere quello di due anni fa. Su dieci Piani di emergenza esterni ricercati ne abbiamo trovati solo quattro.
Ne mancano all’appello sei ed interessano territori in cui, ad oggi, la popolazione non è consultata ed informata sui rischi e sulla gestione dell’emergenza in caso di incidente rilevante. In perfetta simbiosi con quello che accade in Pianura Padana, il cuore degli stoccaggi italiani.

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Autore:

Attivista di vari movimenti pacifisti e ambientalisti abruzzesi, referente locale dell’associazione Antimafie Rita Atria e PeaceLink.