Il piano nazionale sui vaccini Covid-19 ha messo a nudo incongruenze e contraddizioni, restituendoci una realtà, quella della medicina territoriale e di prossimità, depotenziata nella gestione di emergenze e contesti che, di fatto, non sono stati censiti come prioritari, ma dimenticati. Ha messo a nudo l’incapacità amministrativa di portare avanti politiche inclusive. Alla voce «immunità di gregge» mancano all’appello le persone senza fissa dimora, i centri di accoglienza, gli immigrati senza un permesso di soggiorno, gli ospiti dei centri di permanenza per i rimpatri, i ghetti. Centinaia di migliaia di invisibili.
Se c’è una cosa, prima fra tutte, su cui interrogarci di fronte alle conseguenze sanitarie e socio-economiche della pandemia di Covid-19, è l’attenzione verso il diritto alla salute. E, soprattutto, chiederci se questo diritto – come sancito dall’articolo 32 della Costituzione – è ritenuto fondamentale da chi legifera in materia, nell’«interesse della collettività».
Nello specifico, il Piano strategico nazionale per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 per l’esecuzione della campagna di vaccinazione nazionale – approvato con decreto del 12 marzo 2021 – può considerarsi equo?
Lo speciale Vax Populi – un approfondimento aperto, in continua evoluzione ed aggiornamento – non risponde solo a questi interrogativi, ma traccia una strada piuttosto tortuosa tra situazioni di scarsa accessibilità, disuguaglianze, emarginazione e confusione organizzativa.
Una fotografia che va a sovrapporsi con il pensiero espresso da Papa Francesco nel corso dell’Udienza generale del 19 agosto scorso, che ha evidenziato come «la pandemia ha messo allo scoperto la difficile situazione dei poveri e la grande ineguaglianza che regna nel mondo. E il virus, mentre non fa eccezioni tra le persone, ha trovato, nel suo cammino devastante, grandi disuguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate. La risposta alla pandemia è quindi duplice. Da un lato, è indispensabile trovare la cura per un virus piccolo ma tremendo, che mette in ginocchio il mondo intero. Dall’altro, dobbiamo curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli.»
Il piano vaccinale nazionale ha messo a nudo incongruenze e contraddizioni, restituendoci una realtà, quella della medicina territoriale e di prossimità, depotenziata nella gestione di emergenze e contesti che, di fatto, non sono stati censiti come prioritari, ma dimenticati. Ha messo a nudo l’incapacità amministrativa di portare avanti politiche inclusive, oggi più che mai indispensabili, di fronte ad un’emergenza sanitaria che da oltre un anno ha cambiato le nostre vite.
Alla voce «immunità di gregge» mancano all’appello le persone senza fissa dimora, i centri di accoglienza, gli immigrati senza un permesso di soggiorno, gli ospiti dei centri di permanenza per i rimpatri, i ghetti. Centinaia di migliaia di invisibili. Sono gli «immuni» al Covid-19? Tutt’altro.
Rappresentano la comunità per la quale il diritto alla salute non esiste. Una Babele pronta ad implodere che andrebbe raccontata. Su questa Babele, invece, è calato il silenzio.
Lo stesso che c’è sulle carceri italiane. Un altro capitolo su come la pandemia di Covid-19 e l’accesso alle vaccinazioni dei cinquecentomila al giorno ha inasprito nuove pene: gestione dei focolai, accesso ai vaccini in base alle linee guida nazionali, confusione sulle priorità.
Dalla narrazione – l’unica finora documentata – di quanto sta accadendo negli istituti penitenziari del nostro Paese, da Nord a Sud, emergono – in alcune situazioni – ritardi, operatività a macchia di leopardo, somministrazioni indiscriminate di vaccini indipendentemente da età, fragilità e patologie. Ma, specialmente, il ruolo assunto dalle Aziende sanitarie locali e il loro peso specifico nel contrasto effettivo dell’emergenza: nei diversi contesti e differenti territori i primi presidi di riferimento sono sempre più aziende che strutture socio-sanitarie. Come da tradizione.