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Vajont 1963-2020, il fardello del ricordo dopo 57 anni

«Inizia l’ultimo giorno. Il 9 ottobre è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli stavoli più cose possibili. Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i beni, malgrado l’avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richieste provenienti dal cantiere (Viene la sera) e la gente, adesso, è tutta nei bar a vedere la televisione. Sono ancora pochissimi i televisori privati e in Eurovisione c’è la partita di calcio Real Madrid-Rangers di Glasgow. Due squadre molto forti, una partita da non perdere. E infatti molta gente è scesa dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra vincente. Sono le 22.39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile, centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime.»

Queste parole, scritte dalla giornalista de l’Unità Tina Merlin, riecheggiano ancora nella valle del Vajont, tra i monti Salta e Toc. Accompagnate nel loro cammino dal rumore sordo dell’acqua che continua a scorrere e dal sibilo del vento tra le montagne. Sono trascorsi cinquantasette anni da quel 9 ottobre 1963. Troppi, per chi è venuto dopo. Troppo pochi, forse, per i pochi reduci della catastrofe impegnati a rinfocolare la memoria su una tragedia dimenticata. A che serve parlare oggi del Vajont? A chi giova ricordare la storia delle duemila vittime innocenti che pagarono con la vita il prezzo del progresso della Nazione? Del resto, reduci, lo siamo un po’ tutti. Ciascuno a proprio modo, secondo la propria storia. Questo Paese sembra interamente costruito sulle spalle dei “sopravvissuti”.
La piana di Gela e quella di Rosarno, Taranto, Brindisi, Casale Monferrato, Borgo Ferrovia, Terra dei Fuochi, la Val d’Agri. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Tutti hanno versato il proprio tributo sull’altare del progresso. E tutti hanno avuto come corrispettivo la pietà, poi il biasimo e infine l’indifferenza. Le storie appartengono a chi le ha vissute. Solo a costoro spetta il fardello del ricordo. Dunque, è molto meglio territorializzarle, marginalizzarle, chiuderle nel ristretto spazio della memoria locale. Perché in fondo le grandi “tragedie pulite” della storia italiana smettono di esistere se nessuno le racconta. Ma la diga del Vajont è rimasta. Testimone spettrale della vergogna, se ne sta lì a sbeffeggiare la vacuità di una memoria collettiva che esige di essere ricostruita. Come un gigantesco monito a non dimenticare.

LA STORIA
Il progetto “grande Vajont” muove i suoi primi passi nel 1940. La Società Adriatica di Elettricità, holding creata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata, presenta al Ministero del Lavori Pubblici un progetto che prevede la realizzazione di una diga alta 200 metri su un serbatoio artificiale della capienza di 50 milioni di metri cubi di acqua. L’approvazione della IV sezione del Consiglio Superiore dei lavori pubblici arriva straordinariamente nell’ottobre del 1943, con il voto di 13 componenti su 34. Quando cioè l’armistizio era già stato firmato e «Re Vittorio Emanuele III fuggiva di nascosto, di notte, portandosi dietro il capo del governo Badoglio», come scrive giustamente la Merlin. Nel 1948, la Sade è pronta. Il comune di Erto Casso, due comunità abbarbicate sul monte Salta, pure. Tanto che nella fretta di iniziare a vendere alla Sade, cede pure terreni non propri che oggi definiremmo di “uso civico”.
I contadini, proprietari delle terre e delle case che dovranno essere sommerse per lasciar spazio al bacino artificiale, no. Comincia il braccio di ferro. Il monopolio privato da un lato, i montanari dall’altro. A condire il tutto, i concetti di “esproprio temporaneo” e “pubblica utilità”. Che servono sempre, se non altro per trovare una giustificazione. Nel 1956 le premesse ci sono già. Nasce persino un comitato, presieduto dal medico del paese e marito della sindachessa di Erto Casso. Ma dopo la contrattazione privata tra il sindaco di Erto e la società idroelettrica, la comunità si spacca in due. Divisa tra quanti vorrebbero fare come il sindaco e quelli che invece no, vogliono resistere. La Sade tuona. Chi non vende oggi, domani subirà l’esproprio forzoso e vedrà i suoi soldi depositati alla Cassa Depositi e Prestiti. Per riscattarli, dovrà poi dimostrare di avere le carte in regola col notaio. In tempi biblici in cui il passaggio di proprietà dal notaio costa più del valore effettivo del terreno, quella della Sade ha il sapore di una minaccia. A cui, prima o dopo, si piegano tutti. Specie se poi la società è così magnanima da impiegare nel costruendo cantiere gran parte della manovalanza locale, che si ritrova a fare il “salto” sociale da contadino a operaio.

INNALZARE LA DIGA
Nel 1957 la Sade presenta l’ultima domanda di modifica del progetto iniziale. Si passa a un’altezza della diga di 266 metri, un innalzamento del livello del lago a 722,50 metri e un aumento della capacità del bacino fino a 150 milioni di metri cubi d’acqua. Sul Vajont vogliono realizzare la diga a doppio arco più grande del mondo, fiore all’occhiello dell’ingegneria italiana. Del resto, il progettista, l’ingegner Carlo Semenza, è uno dei più esperti del settore e conosce il territorio a menadito. Suoi sono pure i progetti degli altri bacini artificiali siti nell’area. Ma non si può realizzare la diga più grande del mondo senza conoscere le caratteristiche geologiche del sito prescelto. Il geologo di riferimento è il “barone” universitario Giorgio Dal Piaz. Sui suoi libri si sono formate generazioni intere di geologi. Una coppia così, non può certo sbagliare. Anche se l’ultima perizia geologica sull’area risale al 1937, quando i progetti della Sade non si erano ancora spinti fino a immaginare di realizzare la Banca dell’acqua artificiale più imponente del creato. Il Ministero del Lavori Pubblici approva, ma chiede ulteriori indagini geologiche. Una formalità. Nel frattempo, come è ovvio, ad essere sommerse saranno tutte le restanti aree della valle del Vajont. Tutti i terreni fertili coltivati dai contadini di Erto Casso. Insieme alla rabbia cresce la paura. I contadini sanno che le loro comunità sono costruite su costoni di vecchie frane sedimentatisi centinaia di anni prima. Per altro, Erto, sita a 776 metri sul livello del mare, verrebbe a trovarsi a meno di 54 metri sul livello del nuovo bacino artificiale.
La gente cerca di avere una reazione. Vuol coinvolgere tutti i parlamentari della zona, farli passare dalla sua parte e avere qualche strumento per combattere i “padroni” della Sade. Tentativo vano. Da Roma, viene nominata la Commissione di collaudo che dovrà verificare il corretto espletamento dei lavori sul Vajont. Dei quattro membri di cui è composta, due hanno già approvato il progetto generale della diga non corredato della prescritta perizia geologica. L’altro, Francesco Penta, ha invece già lavorato per la Sade per la realizzazione della diga di Pontesei. Il concetto di terzietà sembra ampiamente sopravvaluto.
Nel 1959 a Forno Zoldo, località sita a pochissimi chilometri dal cantiere del Vajont, una frana si stacca e cade nel bacino artificiale di Pontesei di proprietà della Sade. Muore l’operaio Arcangelo Tiziani, addetto al servizio di sorveglianza. Una decina di anni prima, a Valsella di Cadore – poco distante da Erto Casso – veniva accertata la stretta correlazione tra il serbatoio di Pieve di Cadore, sempre della Sade, e i dissesti a 101 fabbricati siti nell’abita- to. La società sa che qualcosa non va. Anche perché da quando hanno iniziato a costruire la strada di circonvallazione che dovrà collegare le aree ora separate artificialmente dal nuovo bacino, si iniziano a intravedere strane fessurazioni nel terreno. Viene convocato sul posto il geotecnico austriaco Leopold Muller. Il team guidato da Muller, composto dai geologi Franco Giudici ed Edoardo Semenza – figlio dell’ingegnere progettista del Vajont – arriva a una conclusione disastrosa: «esiste un’enorme massa in movimento, estensibile su circa due chilometri e mezzo, dalla quale si possono distaccare frane a ripetizione, soprattutto con gli invasi e gli svasi del lago.»
Semenza padre dubita, tentenna. Chiede al figlio di rivedere le sue conclusioni, magari con l’ausilio del vecchio professor Dal Piaz. E nomina un nuovo esperto, Pietro Caloi, che per tutta risposta esprime un parere completamente opposto a quello di Muller. La Sade può procedere tranquilla. Agli ertani però nessuno spiega nulla. In fondo, perché dovrebbero? È la paura a mettere le ali ai piedi dei montanari. Centoventisei capi famiglia si riuniscono nella vecchia baracca del Cral e si costituiscono, alla presenza del notaio, in Consorzio per la rinascita della valla ertana. L’unica giornalista presente all’incontro, Tina Merlin, il 5 maggio pubblica su l’Unità l’articolo che le costerà una citazione in giudizio per «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». Ovviamente l’ordine turbato è quello imposto dalla Sade. Il titolo dell’articolo incriminato è: «La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono». Il Gazzettino di Venezia, passato dalla titolarità della Sade a quella della Dc, invece tace.
Nel frattempo, l’unico che si è opposto all’imperio del monopolio bloccando più volte il cantiere per la costruzione della strada di circonvallazione, l’ingegner Desidera – capo del Genio Civile di Belluno – viene rimosso con una lettera urgentissima firmata il 23 luglio niente meno che dal ministro dei Lavori Pubblici, Giuseppe Togni.
La Commissione di collaudo, intanto, va e viene dal Vajont, ma della diga – ad onore del vero – ha visto poco. Durante le gite tra Cortina e Venezia, i tecnici del Ministero non hanno il tempo di formulare osservazioni all’impianto. Tanto che decidono di far propria la relazione che la Sade, prontamente, promette di inviargli. Il monopolio ha la necessità di andar veloce, di chiudere la partita sul Vajont prima che nel Paese si proceda alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. L’imperativo è collaudare l’impianto prima di perdere gli ultimi contributi governativi. Quindi si parte con le prove d’invaso. La terra inizia a tremare. Lungi dall’abbandonare l’opera, la Sade pensa bene di far emettere al comune di Erto un’ordinanza che vieti ai pescatori di accedere al bacino a causa del possibile «cedimento delle sponde». Il 4 novembre del 1960 «una grande frana – scrive la Merlin – si stacca dai terreni del Toc, poco più su della diga, e piomba nel lago. È un intero appezzamento di bosco e prato, interessante un fronte di 300 metri.»
La Sade lo sa già. Ha riunito i massimi esperti del Vajont, compreso Caloi, che ora non propende più per la sua tesi iniziale. Gli ingegneri Alberico Biadene – direttore del servizio costruzioni idrauliche della Sade – e Mario Pancini – direttore dei lavori del cantiere – pensano a come far funzionare l’invaso con la possibile caduta della montagna. Ipotizzano di costruire una sorta di by-pass di collegamento così che, se anche il Toc dovesse venir giù, la società potrà comunque sfruttare le acque del bacino a scopo elettrico.
Il 30 novembre a Milano si svolge il processo alla “facinorosa” giornalista dell’Unità, Tina Merlin. Gli ertani «si appellano ai giudici con foga contadina». I magistrati, dopo una brevissima camera di Consiglio, assolvono con formula piena la Merlin. Il monopolio per la prima volta viene battuto sul suo stesso terreno.

Foto: Il lago del Vajont, con il segno dello scivolamento della frana del 1960. Si nota la punta del Toc, con il Castelletto // Di Venet01 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=55342228

A PROPOSITO DI TERRENO, QUELLO DEL TOC È IN FRANA
È evidente che la Sade vuol vederci chiaro. Fa ricorso all’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova e al suo titolare Augusto Ghetti. Al centro di Nove di Vittorio Veneto, proprietà della Sade, sarà realizzato un modello per prevedere gli effetti della caduta del monte Toc nell’invaso artificiale del Vajont. Per il momento i tecnici del Ministero non devono saperlo. Infatti, nel 1961, alla commissione di collaudo viene mostrato solo il by-pass di collegamento. Insieme alle richieste per aumentare l’invaso del bacino, che come sempre arrivano. Nel 1962 le scosse registrate dai sismografi fatti installare dalla Sade sono numerose. Più l’acqua si alza, più il rumore sordo all’interno del Toc si fa acuto. Il Comune di Erto scrive al Genio Civile di Belluno, alla Prefettura, alla Sade. Nessuna risposta. A Roma nessuno sa che al Vajont la terra trema. Le rilevazioni dei sismografi vengono accuratamente epurate dalle relazioni che la Sade invia al Ministero. Se ne occupa l’ingegner Biadene in persona, che fa carriera. Anche perché nel frattempo Carlo Semenza è morto chiedendo scusa alle montagne.
E Dal Piaz lo ha seguito pochi mesi più tardi. Nell’estate del 1962 arriva la relazione di Ghetti. Pur partendo da un presupposto sbagliato – e cioè che la frana sarebbe crollata in due tempi – il team di Padova dichiara che con «l’invaso oltre i 700 metri la caduta di una frana di 200 milioni di metri cubi avrebbe potuto comportare conseguenze dannose anche per la zona a valle della diga». Longarone, dunque. Quella Longarone che fino a questo momento della storia non compare mai. Ghetti chiede alla Sade di fare ulteriori indagini per verificare l’effetto della frana proprio su Longarone. Ma il monopolio risponde picche. Per poter consegnare l’impianto collaudato alla nascente Enel deve portare l’invaso a 715 metri. Anche se la quota di sicurezza prescritta dallo studio di Ghetti è 700 metri, non di più. Ma lo Stato fa più in fretta, e nel dicembre dello stesso anno l’Enel è già nata. Nella fase di transizione, quando Biadene passa agilmente da responsabile Sade a dirigente Enel, l’acqua sarà portata alla quota prescritta. Qualsiasi cosa accada. Le scosse aumentano d’intensità durante tutta la primavera del 1963. È come un lungo preludio alla catastrofe, che ormai si avverte già nell’aria.

TUTTI SANNO CHE LA MONTAGNA VERRÀ GIÙ
Il Toc si muove, e con lui la strada di circonvallazione realizzata dalla Sade. Le scosse si sentono persino a Longarone. Ma l’Enel-Sade rassicura. Caloi, lo stesso che non aveva riconosciuto la frana sul Toc ai tempi delle prime indagini, dice che l’epicentro dei terremoti è in altre zone e che non c’è attinenza con la diga. L’impianto viene collaudato, ma il movimento della montagna ora è visibile quasi a occhio nudo. Il Toc è completamente fessurato, il comune di Erto chiede rassicurazioni. Biadene, il 7 ottobre, intima al sindaco di Erto di far sgomberare la gente che vive sotto al Toc. Di Longarone, ancora una volta, non si parla. L’invaso è colmo fino a oltre il limite previsto da Ghetti. L’ultima mossa dell’Enel-Sade è quella di far venir giù l’acqua il più rapidamente possibile. Anche se così facendo viene giù rapidamente anche tutto il costone della montagna.
Quel che è accade dopo è storia. A cui possiamo solo aggiungere l’umiliazione di un ingiusto processo e la diaspora dei sopravvissuti. Giovanni Leone da Presidente del Consiglio dei Ministri aveva giurato alla gente del Vajont che giustizia sarebbe stata fatta. Ma rivestiti i panni del “semplice” avvocato, solo qualche mese più tardi è membro del collegio difensivo che tutelerà l’Enel-Sade e i suoi dirigenti in giudizio. Nel febbraio del 1968, il giudice Mario Fabbri chiude l’istruttoria sul Vajont ritenendo responsabili 11 persone e rinviandone a giudizio 9 – nel frattempo sono deceduti Penta e Luigi Greco, presidente generale del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici. Il rinvio a giudizio è trasversale: colpisce i dirigenti Enel-Sade, i componenti della commissione di collaudo ministeriale, i membri del Consiglio Superiore dei lavori pubblici e il Genio Civile di Belluno. Sono tutti imputati, in concorso tra loro, di omicidio e lesioni aggravate plurime con l’aggravante della prevedibilità dell’evento. Per Biadene e Tonini – direttore dell’Ufficio Studi Sade – viene emesso mandato di cattura. Ma i due fuggono prima. L’ingegner Pancini, in attesa del giudizio, muore suicida. La Corte di Cassazione a maggio trasferisce l’intero procedimento a L’Aquila e revoca i mandati di cattura.
La speranza di giustizia dei sopravvissuti si attenua. La prima sentenza arriva il 17 dicembre 1969: solo tre imputati – Biadene, Violin e Batini – vengono riconosciuti colpevoli e condannati a sei anni di reclusione, di cui tre condonati. Nella sentenza d’Appello del 3 ottobre del 1970 solo Biadene viene condannato. La Corte, tuttavia, riconosce la prevedibilità dell’evento e aumenta la pena detentiva a 10 anni e 6 mesi, di cui 6 anni condonati. La prevedibilità viene confermata anche in Cassazione con la sentenza del 23 marzo 1971. E Biadene, che in prigione resta poco più di un anno, tornato in libertà riacquista i suoi ruoli dirigenziali all’interno dell’Enel. Mentre ciò che resta degli ertocassani, in base a un referendum, si divide tra Maniago, Ponte delle Alpi e un nuovo paese di Erto, costruito in quota sicurezza solo dieci anni più tardi. Al posto dell’antica Longarone, invece, oggi c’è solo una spianata di fango e detriti.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.