Da cineasta cerco di esplorare l’identità femminile nella società attraverso il bagaglio che si porta dietro una donna migrante, una donna straniera, una donna di origine diversa da quella italiana. La donna di seconda generazione, come me. Un tema che oggi, in Italia, è ancora un tabù. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo straniero, il migrante, il diverso si sentono respinti da questo Paese. Tanto nel mondo dello spettacolo, quanto nella società civile. Perché ancora non viene riconosciuto loro il diritto di essere, semplicemente, portatori di un’identità altra.
I tempi in cui il dialogo era l’elemento essenziale del vivere civile paiono finiti. O almeno questa è stata la “mia” Felandina. Quel che penso degli sgomberi e del rispetto dei diritti umani non è un mistero per nessuno. Mi sono recata al campo fin da quando i braccianti avevano appena incominciato a realizzare i primi insediamenti abitativi. E ho continuano ad andarci, in tutti questi mesi, per una questione di solidarietà umana. Perché per me era ed è fondamentale aiutare i fratelli e le sorelle che si trovano in difficoltà. Qualche volta al ghetto ci ho portato persino mio figlio. Proprio perché ero convinta che la sensibilità a certe cause vada manifestata fino in fondo. Tenendo presenti criticità e sofferenze a cui si deve, nel proprio piccolo, tentare di porre rimedio.
Il giorno dello sgombero non sarei mancata per nessuna ragione. Perché a quella forma di violenza andava data una voce. Ma la mia decisione di farlo attraverso una diretta social a quanto pare ha dato fastidio a molti. Che, anziché discutere nel merito, hanno preferito insultarmi pesantemente. Uomini e donne mi hanno sbeffeggiata, attaccata e derisa perché sono un’artista, perché sono afrodiscendente e, come se non bastasse, sono una donna.
Rispondere a degli insulti razziali e sessisti è, per me, una forma di insulto a ciò che sono. Ecco perché, accanto alla via del silenzio, ho scelto quella della denuncia e della legalità. Perché è importante non lasciar correre e lanciare un segnale chiaro.
IL DRAMMA DI ESSERE DONNA E STRANIERA
Un segnale analogo e altrettanto forte sarebbe dovuto arrivare dopo la morte della giovane madre nigeriana nel devastante incendio che ha distrutto uno dei capannoni del ghetto de La Felandina pochi giorni prima dello sgombero. La morte di Petty sarebbe dovuta servire ad aprire una riflessione seria sulle condizioni di vita di centinaia di donne che purtroppo, ancora oggi, sono costrette ad essere delle braccianti di giorno e delle prostitute di notte.
I drammi della tratta e dello sfruttamento della prostituzione vanno affrontati con la dovuta delicatezza, è vero, ma anche con determinazione. Perché dare a queste donne un’alternativa per sottrarsi al giogo della prostituzione vuol dire offrire loro una prospettiva di vita sana e rispettosa della dignità umana.
Dopo lo sgombero, delle donne che popolavano il ghetto si è persa ogni traccia. Nessuno ne ha più parlato. E il mio rammarico è quello di non essere riuscita, nel tempo, a instaurare un rapporto con loro. So che qualcuna, fortunatamente, è stata sostenuta e aiutata dalle parrocchie locali.
Alle altre, di cui oggi non so più nulla, vorrei dire che non sono sole. Che le mura della diffidenza possono essere abbattute. Credo che le donne afrodiscendenti che oggi vivono in Italia, esattamente come me, abbiano molto da raccontare. E credo sia loro diritto farlo anche quando la società talvolta glielo impedisce.
UNA FINESTRA SUI NOSTRI TEMPI
Oggi c’è chi ha scelto di abbandonare la via del confronto per chiudersi nella paura. Gli insulti razzisti e sessisti di cui sono stata oggetto durante lo sgombero e, non da ultimo, la vicenda di Petty e la contestuale scomparsa da ogni forma di narrazione delle donne del ghetto sono la dimostrazione che le politiche di accoglienza Made in Italy hanno fallito.
Innanzitutto, è già incredibile che chi nasce in questo Paese da genitori stranieri non acquisisca di diritto la cittadinanza italiana. Il cosiddetto “ius soli” di cui tanto si è parlato, lungi dall’essere ormai una consolidata ovvietà, è ancora un diritto per cui battersi. In secondo luogo, l’accoglienza dei migranti va strutturata in modo completamente diverso. Va orientata verso un modello inclusivo a tutti gli effetti. Per fare in modo che chi arriva in Italia possa apprendere la lingua e la storia, ma anche l’educazione sociale. Affinché, insomma, persone diverse possano scambiarsi saperi, culture, idee differenti. Insegnando che le diversità sono un plus valore e, in definitiva, una ricchezza. Ma anche, e forse in parte soprattutto, cambiando la narrazione dell’afrodiscendenza e degli afrodiscendenti. Troppe volte affidata ai filtri degli stereotipi più che a quelli della realtà.
“BIANCO, NERO E A COLORI”
Il mondo dello spettacolo, in tal senso, potrebbe dare il suo contributo iniziando a riflettere a tutti gli effetti la multiculturalità di cui la società italiana moderna è fatta. Gli artisti e i cineasta afrodiscendenti non sono ancora membra attive del panorama cinematografico italiano. Eppure, proprio come i migranti stipati nei ghetti, esistono. Io sono diventata regista proprio perché in Italia non mi sono sentita rappresentata in quanto artista e attrice afrodiscendente. Perché pare si faccia ancora fatica a mostrare al pubblico che questo Paese è divenuto, esattamente come tutti gli altri, multietnico e multiculturale.
Da regista faccio parte di un movimento – creato grazie al supporto del presidente della Roma Lazio Film Commission Luciano Sovena, di Simona Banchi dell’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini e di Laura Delli Colli, presidente della Fondazione Cinema per Roma – che si chiama “Bianco, nero e a colori”. Il nostro obiettivo è quello di lottare per un cinema diverso, che porti sul grande schermo ciò che le donne afrodiscendenti sono in realtà. Un cinema che, in buona sostanza, esca dai cliché smettendo di relegare le artiste afrodiscendenti unicamente a ruoli da schiava o da prostituta. Un cinema che faccia attenzione al linguaggio e che soprattutto rispecchi le diversità di cui la società italiana è portatrice sana.
In parte è proprio quel che io, nel mio piccolo, cerco di fare. Nel mio ultimo cortometraggio – “Le ali velate” – provo a raccontare l’universo femminile attraverso l’incontro di due donne diverse, portatrici di culture e valori differenti, che per affermarsi rischiano di perdere ciascuna qualcosa di prezioso. Il loro è un viaggio on the road alla scoperta degli altri e alla riscoperta di se stesse. Un progetto che mi è servito per mettere in scena quel sottile fil rouge che unisce un po’ tutte le donne, nonostante le reciproche diversità: quel costante sacrificio di una parte di se stesse per riuscire ad elevarsi e a raggiungere gli obbiettivi perseguiti.
IL CINEMA PER CONOSCERE E RICONOSCERSI
È chiaro che per me il cinema e, più in generale, il mondo dello spettacolo siano i mezzi più immediati per contribuire a una narrazione migliore e più oggettiva della realtà che ci circonda. Perché aiutano lo straniero a sentirsi già parte integrante di un presente e di un futuro che, vedendosi rappresentato, sente di poter contribuire a realizzare. Il racconto, specie quello cinematografico, contribuisce a far maturare il senso di appartenenza dello straniero e, al contempo, serve per consentire il progresso di una società che sia sempre più inclusiva e accogliente.
Quella che oggi è venuta meno, in fondo, è proprio la capacità di accogliere l’altro a prescindere dalla provenienza, dal colore della pelle o dal genere. Dal canto mio, sono convinta che non possano prevalere le differenze. E che il mondo sia decisamente più bello a colori.