Continua il nostro viaggio nell’Abruzzo dei rifiuti, tra emergenza, non autosufficienza ed il rischio – innescato dal decreto-legge Sblocca Italia – di un nuovo inceneritore.
Quando si parla di rifiuti, l’associazione con mafie, camorre, Terre dei fuochi è pressoché automatica. Almeno nell’ultimo trentennio il business dei rifiuti è terreno di caccia delle organizzazioni criminali. Anche in terra abruzzese. Documenti, prove, inchieste sulle immense praterie coltivate dalle mafie, affari, intrecci criminali, riportano alla luce e scattano una fotografia dell’Abruzzo non proprio felix.
Già nel 1997, l’allora procuratore generale della Corte d’Appello dell’Aquila, Bruno Tarquini, sosteneva che “la cosiddetta fase di rischio è ormai superata e si può parlare di una vera e propria emergenza criminalità, determinata dall’ingresso di clan campani e pugliesi anche nel tessuto economico.” E il business delle ecocamorre è una delle punte di diamante di questa “emergenza criminalità”.
Negli stessi anni, la Commissione di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati – in un rapporto approvato il 4 marzo 1999 – evidenziava, su inchieste e intrecci mafiosi, che “l’Abruzzo presenta, all’attualità, una particolare appetibilità economica ed è oggetto di attenzione da parte dell’imprenditoria deviata e della criminalità organizzata, che in questo territorio ricercano nuove frontiere per investire il denaro proveniente dalle attività illecite.”
Secondo la stessa Commissione, negli anni Novanta, hanno trovato sbocco in Abruzzo rifiuti che “non si potevano più scaricare in Campania in seguito a vivaci e sanguinosi contrasti fra famiglie camorriste.”
I TENTACOLI SULLA TERRA DI SILONE E FLAIANO. STORIE DI BOMBE ECOLOGICHE
L’1 aprile 1994 il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri sequestrarono a Scurcola Marsicana, in provincia dell’Aquila, una megadiscarica da 90 mila tonnellate di rifiuti definita “il primo caso di smaltimento illegale di rifiuti tossici e pericolosi fatti passare come attività lecita e produttiva.”
Il terreno era di proprietà della Biolite che aveva avuto dalla Regione Abruzzo tutte le autorizzazioni necessarie per la produzione di compost dai liquami derivanti dallo svuotamento delle fosse civili. Dopo oltre un anno di indagini il Corpo forestale dello Stato – diretto da Guido Conti (lo stesso della discarica di Bussi, ndr) – accertò che nell’area avveniva tutt’altro. I rifiuti rinvenuti provenivano da aziende chimiche, farmaceutiche, tessili e conciarie del Trentino e della Campania, dalla provincia di Trento alla provincia di Salerno.
In quel periodo, addirittura, i casellanti autostradali scioperarono per protestare contro il cattivo odore nella zona dei rifiuti tossici, e per il continuo passaggio dei camion diretti alla discarica. Quasi duecento aziende produttrici di rifiuti coinvolte ed un centinaio di persone. Una ricerca scientifica condotta dalla studiosa Mariagrazia La Monica concluse che il terreno ha “ricevuto forti mutamenti dai materiali tossici che sono stati stoccati. Ma anche la vegetazione è stata influenzata dalla composizione chimico-fisiche del materiale presente nei cumuli di rifiuti.”
Escluso il patteggiamento di 6 mesi e 3 milioni di vecchie lire di ammenda, per l’allora amministratore e legale rappresentante della Biolite, Livio Berardocco, tutto è finito nel porto delle nebbie della prescrizione.
L’ULTIMO CAPITOLO DELLA VICENDA È CRONACA RECENTE
Il Comune di Scurcola Marsicana chiede alla Biolite, e ad altre società, un risarcimento danni dei beni patrimoniali, non patrimoniali ed ambientali, contestando la compromissione dell’integrità ambientale dei terreni e del fiume Imele.
In conseguenza di questo, la stessa amministrazione comunale aveva intimato di eseguire la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale delle aree inquinate. Nel luglio 2015 una sentenza del Tribunale di Avezzano ha respinto le richieste del Comune. Secondo il giudice non ci sarebbe alcuna prova di lesioni concrete dei beni ambientali, sottolineando che le perizie documentarono “solo l’avvenuta violazione delle disposizioni relative al trattamento alla conservazione e allo smaltimento delle sostanze nonché la presenza nelle stesse di agenti e concentrazione di sostanze potenzialmente dannose per la salute e l’ambiente” e in una perizia testualmente venne scritto che l’assenza di “sistemi di drenaggio di raccolta del percolato o di ruscellamento rendono le aree circostanti all’insediamento della Biolite solo a rischio inquinamento.”
In più, aggiunge il giudice, non c’è pericolo per la salute umana, perché i terreni non sarebbero adibiti ad alcuna attività di coltivazione, pastorizia, pascolo o altro uso correlato alla produzione alimentare. Il giudice ha accolto anche la contestazione delle parti citate sulla reale appartenenza delle aree al Comune, di cui nella sentenza si afferma che “non è stata fornita alcuna prova.”
In conclusione, quindi, il Tribunale di Avezzano ha condannato l’amministrazione di Scurcola Marsicana a risarcire la Biolite e le altre società per un totale di 1,1 milione. Questa volta in euro.