I nuovi fenomeni migratori hanno riportato nel cuore della contemporaneità alcune forme di sfruttamento della persona che si pensava derubricate agli annali della storia. Il caporalato è tra queste. E genera “uomini-fantasmi”, sgraditi eppure necessari all’economia.
C’è un patto non scritto tra le istituzioni e il mercato: vita umana e dignità del lavoro sono state offerte come merce di scambio per la garanzia dell’equilibrio economico.
«Ma ciò̀ che accade oggi non viene dal nulla, viene da lontano. Dalle ferite non sanate del Sud contadino.[…] È un’onda lunga che riaffiora. E poiché́, in un modo o nell’altro, dalle campagne veniamo tutti, poiché́ non c’è famiglia italiana, gruppo, classe, partito che possa dichiararsi estraneo a quella che è stata l’evoluzione del lavoro agricolo, in quella rivoluzione lenta siamo tutti coinvolti. Ci sono fili invisibili che portano alle matasse aggrovigliate del passato. Nessuno può̀ tirarsi fuori, conviene dipanarle.»
Con queste parole Alessandro Leogrande nel suo reportage – “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” – descrive una memoria, sociale e personale, collettiva e individuale, che abbiamo provato a dimenticare. Preferendo derubricare quel tempo negativo, fatto di fatica e sofferenza, per relegarlo negli ambiti folkloristici ed elegiaci dei revival popolari e della riscoperta della antica civiltà perduta contadina e rurale.
L’EVOLUZIONE DI UN MONDO ARCAICO
La struttura sociale delle campagne è man mano cambiata. I modelli di riferimento si sono trasformati e le aree agricole si sono svuotate a favore dei grandi centri urbani. Il sapere formale, scolastico, è aumentato lasciando scomparire quello informale, esperienziale, costituito dalla trasmissione da una generazione all’altra. E quindi anche l’educazione al lavoro nei campi, fatto di fatica e spesso non corrisposto da adeguate ricompense economiche, è divenuta evanescente.
La mancata crescita dell’economia rurale ha contribuito a un’emigrazione nuova che crea valore nei territori di arrivo ma inesorabilmente depaupera quelli di origine e di formazione. A questo mutamento su larga scala e non localizzato si è aggiunta l’evoluzione dei consumi e l’abbattimento dei costi di distribuzione avvenuto con lo sviluppo delle cosiddette GDO, grandi distribuzioni organizzate, che determinano le politiche cui deve far riferimento il mercato del sistema produttivo agroalimentare.
GLI EFFETTI DEL MERCATO GLOBALE
Nelle zone agricole del Sud Italia – già vittime di una potente migrazione interna – e, più in generale, del sud Europa, a partire dagli anni Settanta si è imposto il cosiddetto “modello californiano”: produzione di beni a basso costo da immettere sul mercato globale restringendo diritti e retribuzioni dei lavoratori. Ma, contestualmente, hanno iniziato a far capolino in Europa i primi lavoratori provenienti dal Nord Africa (Tunisia e Marocco) e, successivamente, dall’Africa sub-sahariana e dall’Africa Occidentale. A poco a poco hanno ingrossato le fila dell’esercito degli invisibili. Sconosciuti alle istituzioni e, per le condizioni lavorative, sconosciuti ai diritti.
Questi uomini iniziano ad esistere alle prime luci dell’alba, quando i furgoncini li trasportano nei campi, per scomparire con il far della sera. Vivono in una zona franca, senza dignità e senza diritti, sospesi sul filo della legalità.
I primi ghetti sono nati così. Come soluzioni abitative di fortuna lontane dai centri abitati. Una lontananza che ha amplificato l’invisibilità di chi ci vive, emarginato ai confini del mondo civile. Una separazione non solo fisica ma culturale, dalla valenza simbolica chiara: attraverso il ghetto la negazione della dignità umana si traduce in negazione alla vita pubblica. “Loro” non esistono. E per questo, non hanno diritti.
CAPORALATO VECCHIO E NUOVO
L’economia del ghetto è funzionale a quella territoriale ed agroalimentare. Perché c’è un patto non scritto tra le istituzioni e il mercato. Un accordo che prevede braccia a basso costo per alimentare il business e non generare tensioni sociali. Vita umana e dignità del lavoro sono svilite al punto d’essere merce di scambio volta a garantire l’equilibrio economico e sociale.
In questo contesto, la valenza negativa del messaggio “dell’uomo che attenta ai valori del popolo o della Nazione” determina i pensieri e influisce sui sentimenti della società che considera la condizione dei lavoratori nei ghetti alla stregua di una giusta punizione. Un contesto sociale di rifiuto e di disprezzo nel quale le organizzazioni illegali trovano terreno fertile.
Così, i nuovi fenomeni migratori hanno riportato nel cuore della contemporaneità alcune forme di sfruttamento della persona che si pensava derubricate agli annali della storia. Tra queste spicca il caporalato. Un fenomeno che si sviluppa nei luoghi ai margini della società civile e occupa i territori non conquistati dal diritto e dalla dignità derivanti dal lavoro. La legge qui è come sospesa e non può penetrare le mutanti condizioni di miseria.
Le nuove miserie dei migranti ripetono le vecchie miserie dei contadini del Sud. Con l’unica differenza che ai tempi di Giuseppe Di Vittorio e Placido Rizzotto il caporalato era intriso della lotta per la terra. Oggi, il caporalato moderno, si è adeguato al passaggio da un’economia agricola latifondista al mercato globale dell’agroalimentare. Per cui i caporali moderni non si limitano all’intermediazione lavorativa informale ma controllano ogni ambito della vita del lavoratore: dallo spostamento nei campi fino al vitto, l’alloggio, la paga. E il bracciante si ritrova inevitabilmente in una condizione di sottomissione esistenziale fisica e psicologica.
AGROMAFIE E SFRUTTAMENTO
Il fenomeno del caporalato è stato spesso affrontato come un problema emergenziale slegato dal contesto sociale ed economico. Mentre è, in realtà, l’anello più visibile dell’intera filiera agroalimentare. Il rapporto su Agromafie e Caporalato curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto evidenzia che il caporalato governa gran parte della filiera italiana, sottendendo un volume d’affari di alcune decine di miliardi di euro. Da storicizzato strumento di reclutamento di braccianti e cafoni provenienti dalle realtà contigue si è trasformato in un moderno fenomeno criminale che recluta nuovi schiavi e arruola disperati provenienti da mondi lontani.
Le nuove leggi di contrasto al fenomeno – nate dal risalto che i media hanno dato alle condizioni inumane dei braccianti nelle campagne – di fatto agiscono sull’aspetto punitivo. Ma la legislazione penale, da sola, non può combattere una piaga che necessita di interventi strutturali che incidano sulle politiche migratorie ed economiche. Perché la criminalizzazione del caporale – slegata dal contesto – finisce per colpire anche il bracciante, associato allo stesso ambito e definito causa di conflitti tra lavoratori italiani e stranieri.
Gli anni delle lotte e delle conquiste sociali paiono echi di mondi lontani, fuori dal tempo. Hanno lasciato campo aperto a nuove forme di diseguaglianze e schiavitù che hanno, tuttavia, radici antiche. Per cui, come sosteneva Leogrande, occorre ricominciare a dipanare quelle matasse aggrovigliate del passato. Per rendere ancora una volta la dignità umana e lavorativa l’architrave su cui si fonda il progresso della società.