Nel 2017, in Italia, quasi un terzo dell’intera superficie percorsa dal fuoco ha interessato aree di valore naturalistico e incluse nella Rete Natura 2000 e nei Parchi. Ad affermarlo è la Legambiente. Per la precisione sono 24.677 gli ettari di Zone di protezione speciale (Zps) per tutelare l’avifauna andate in fumo; 22.399 gli ettari di Siti di importanza comunitaria (Sic) e ben 21.204 gli ettari bruciati di parchi e aree protette, per un totale di 35 mila ettari.
L’emergenza incendi non conosce tregua e non risparmia neanche le maggiori aree di valore naturalistico, incluse quelle nella Rete Natura 2000. E i numeri lo dimostrano. Non c’è solo il Vesuvio, ma anche il Cilento e il Vallo di Diano, il Gargano, l’Alta Murgia, la Majella, la Sila, il Pollino, il Gran Sasso, la Riserva dello Zingaro in Sicilia. Sono troppe le aree di pregio del Centro-Sud finite in balìa di eco-criminali, piromani e incendiari.
“Il 2017 verrà ricordato, come lo furono il 2007 e il 1997, come un anno orribile per la devastazione prodotta dalle fiamme.” Ad affermarlo è Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente, lamentando “troppi ritardi ed errori. Ha pesato anche la burocrazia, la mancanza di un’efficace macchina organizzativa, di politiche di gestione forestale sostenibili come dimostra la situazione reale e il ritardo nell’aggiornamento dei piani Aib dei parchi e delle riserve naturali dello Stato. Allo stato attuale risultano 13 piani Aib vigenti, otto con l’iter non ancora concluso e due Parchi (Stelvio e quello del Cilento e Vallo di Diano) con il piano antincendi recentemente scaduto e da aggiornare.”
Dati purtroppo ancora provvisori, destinati a crescere, in coincidenza con il lungo periodo di siccità, ma anche per l’effetto-domino mediatico per un fenomeno che appare differenziato e frammentato per area geografica. Gran parte degli ettari andati in fumo sono ubicati nei parchi nazionali, soprattutto del Sud Italia. Un fenomeno aggravato, quest’anno, dall’assenza quasi completa di azioni di prevenzione, con l’eliminazione ope legis dell’importante ruolo di coordinamento svolto in passato dai Cta (Coordinamento territoriale ambiente) della Forestale, le cui attribuzioni – in base alla cosiddetta Riforma Madia della Pubblica amministrazione, e con il decreto legislativo n.177/2016 (articolo 8 e seguenti) – state trasferite ai Carabinieri.
PIANI ANTINCENDIO BOSCHIVI SOLO SULLA CARTA, ED ADOTTATI IN RITARDO DAL MINISTERO DELL’AMBIENTE
Analizzando i Piani antincendio boschivi (Aib) di Regioni ed Enti parco emerge un quadro del fenomeno degli incendi, e delle azioni previste per prevenirli e quelli di intervento/spegnimento, costituiti prevalentemente da dati statistici meteoclimatici e territoriali. I Piani evidenziano scarse risorse finanziare investite dai Parchi per le azioni concrete da attuare sui territori protetti. Centinaia di pagine – pur se utili ad inquadrare la problematica dal punto di vista teorico – al cui interno è spesso difficoltoso leggere le azioni concrete di prevenzione, avvistamento e spegnimento programmati, con l’indicazione chiara di uomini, mezzi e volontari coinvolti. Allorquando presenti, le azioni concrete – a partire da quest’anno – fanno prevalentemente riferimento, per le azioni di prevenzione, alle associazioni di volontariato chiamate a collaborare con altri organismi e con gli enti Parco, con scarsi o assenti richiami all’importante funzione del coordinamento territoriale con altre strutture presenti, quali la Protezione civile e i Vigili del fuoco, svolto in passato dal Cta della Forestale distaccata nel parco. Solo il 26 luglio 2017, inoltre, il ministero dell’Ambiente ha adottato i piani Aib di alcuni parchi nazionali, come quelli del Pollino e del Gran Paradiso, non aggiornando nemmeno la relativa pagina sul sito ministeriale.
IL CONTENUTO DI ALCUNI PIANI
Per il Parco nazionale del Vesuvio il piano vigente ha previsto il coinvolgimento di sole 18 unità di personale della Regione Campania distaccati su Torre del Greco, con pochi mezzi adibiti allo spegnimento. Mentre per l’avvistamento fa riferimento a pochi mezzi e volontari (per lo più Legambiente) con 6 postazioni, di cui 3 fisse-mobili e 3 fisse.
Per il Parco Nazionale del Pollino, agli inizi di luglio, il piano Aib non sembra riportare un quadro aggiornato della situazione dopo il passaggio Cta a Ctac (Coordinamento territoriale ambiente dei Carabinieri), con le azioni di avvistamento e pattugliamento attribuito prevalentemente ai volontari. Il nuovo piano, adottato a fine luglio – ed in pieno periodo di allarme incendi – presenta lacune evidenti, ove si guardi alle azioni programmate ed attivate in ritardo sull’intero territorio dell’area protetta calabro-lucana. Per il Pollino, di oltre 170 mila ettari, il piano Aib è stato presentato solo l’11 luglio 2017 a Castrovillari.
Il presidente del Parco, Domenico Pappaterra, ha annunciato il coinvolgimento delle associazioni di volontariato. Da quest’anno saranno 26 (17 in Calabria e 9 in Basilicata), per un totale di 1104 volontari operativi (601 in Calabria e 503 in Basilicata), con 10 mezzi pick-up dell’ente ai quali dovevano aggiungersi quelli in dotazione alle associazioni: 38 (7 in Calabria e 31 in Basilicata); 19 i fuoristrada (13 in Calabria e 6 in Basilicata). Annunciata anche la stipula di un Protocollo d’intesa con l’Istituto penitenziario di Castrovillari e l’associazione Anas, per l’impiego di alcuni detenuti nella sorveglianza di alcune zone del territorio protetto dalla località Petrosa, di Castrovillari, con un totale di 40 punti di avvistamento ed il coinvolgimento di velivoli ultraleggeri e 2 droni di cui uno donato dal Club Rotary di Castrovillari. Il budget del piano Aib 2017 è di 240 mila euro.
A testimoniare i ritardi con cui sono state attivate le azioni antincendio nel Parco nazionale del Pollino, solo il 18 luglio scorso – con deliberazione del Consiglio direttivo n.30 del 18 luglio 2017 – è stata ratificata la restituzione dal Ctac dei 10 automezzi antincendio, destinandoli, nell’ambito della campagna Aib del Parco, in assegnazione gratuita ai Vigili del fuoco e alle associazioni di volontariato di Protezione civile che hanno stipulato la convenzione con l’ente.
Mentre, solo il 24 luglio – da segnalazioni provenienti dal territorio – venivano resi operativi i Direttori operazioni di spegnimento, con l’azione coordinata di mezzi, enti e volontari – pochi – sui luoghi degli incendi che nel parco, a fine luglio, si sono contati a decine non centinaia di ettari di foresta bruciati, compresa l’assenza della mappatura delle zone percorse dal fuoco, essenziali per l’apposizione dei vincoli di inedificabilità assoluta previsti dalla legge, prima che vengano cancellate dalle piogge autunnali.
Gli incendi estivi – come denunciato da diverse associazioni ambientaliste – si combattono in inverno e primavera con la manutenzione ordinaria, la prevenzione e l’informazione, i sentieri spartifuoco con piani antincendio approvati non in estate e, soprattutto, con un coordinamento professionale di competenze, uomini e mezzi sul territorio.
Per il Parco nazionale della Sila, l’Ente ha impegnato per il piano vigente 2016-2020, e aggiornato di recente, 200 mila euro per azioni di avvistamento, prevenzione ed intervento, affidato a 6 associazioni di volontari e unità lavorative facenti riferimento all’ex Cta di Cosenza. Situazione analoga per gran parte dei 20 Parchi nazionali, specialmente quelli del Sud.
Pochi euro stanziati dai piani Aib per salvare un ettaro di bosco. Ma per gli speculatori e cementificatori valgono di più come terra bruciata, resa disponile per i più svariati utilizzi speculativi per fini edilizi ed energetici. Ed i roghi lo testimoniano.
LA CONTESA TRA ARMA DEI CARABINIERI E VIGILI DEL FUOCO PER L’ACCAPARRAMENTO DEI MEZZI ANTINCENDIO
Una buona parte dei cosiddetti Dos (Direttori delle operazioni di spegnimento) avrebbero ampliato l’organico dei Carabinieri, mentre le indicazioni del Ministero dell’Interno sarebbero state quelle che i Vigili del fuoco avrebbero dovuto svolgere questo tipo di interventi. L’Arma – secondo quanto riferito dal Fatto Quotidiano a febbraio di quest’anno – si sarebbe lanciata “in una strana campagna di accaparramento di mezzi per l’antincendio, contendendo ai Vigili del fuoco autopompe e altre attrezzature in dotazione della Forestale, e che i pompieri immaginavano di vedersi assegnare senza alcun bisogno di contrattazione. Spiega Gabriele Pettorelli, ex dirigente del sindacato autonomo dei Forestali e attuale coordinatore nazionale Forestali del Conapo (sindacato autonomo dei pompieri): all’inizio non capivamo il perché di queste bizzarre procedure, che di fatto creavano ambigue sovrapposizioni tra Vigili del fuoco e Carabinieri.”
Oltre ad aver generato disorganizzazione, quello che si presenterebbe come una contesa, rischia di far lievitare i costi per un servizio che invece la cosiddetta Riforma Madia mirava a ridurre.
In molte Regioni la formazione dei Dos è partita in ritardo, come avvenuto in Basilicata, già in piena stagione incendiaria.
TERRA NUOVA E BUOI ROSSI: LA NUOVA FRONTIERA DELLA PRATICA DEL “DEBBIO” NEL SUD ITALIA
In ricerca pubblicata postuma sulle origini e le pratiche dell’agricoltura europea – “Terra nuova e buoi rossi” (1981) – Emilio Sereni, storico dell’agricoltura morto nel 1977, raccontava le trasformazioni del paesaggio attraverso la pratica del “debbio”, ovvero la bruciatura delle foreste per far posto a nuove terre da dissodare. Un fenomeno presente soprattutto nel Sud dell’Italia, dove tale pratica viene ancora consentita dalle leggi regionali con il termine “abbruciatura delle stoppie”, stabilendo periodi in cui essa è consentita, senza poi esercitarne i controlli di rito (condizioni climatiche avverse o fasce protettive), perpetuando un retaggio della mentalità del passato, nonostante la meccanizzazione. Tale inutile e devastante pratica per la biodiversità sacrifica, oltre alle foreste, milioni di animali, insetti e piante utili all’agricoltura che vengono fatti sparire per far posto a deserti aridi. Ma oggi la nuova frontiera del “debbio” per lo sfruttamento dei suoli coperti da foreste, apre inquietanti interrogativi sul ruolo della malavita specialmente al Sud Italia, ma anche quello delle multinazionali energetiche collegate agli interessi locali per il possesso o il diritto di concessione o bonifica dei territori bruciati, con l’agricoltura costretta a recitare un ruolo subalterno ai grandi interessi delle lobby energetiche private.
DAL BOSCO CONTENITORE DI BIODIVERSITÀ AL BOSCO PRODUTTIVO
La definizione di incendio boschivo, di cui all’articolo 2 della legge n.353/2000 in materia di incendi boschivi, si riferisce ad aree (boscate, cespugliate o arborate) più ampie di quelle richiamate nel comma 1 dell’articolo 10 della stessa legge che, invece, limita, l’applicazione di divieti, prescrizioni e sanzioni soltanto a “zone boscate e pascoli i cui soprassuoli”, percorsi dal fuoco: cioè un insieme di aree naturali e vegetali più delimitato. Ne deriva, di conseguenza, che il reato di incendio doloso e colposo è limitato solo se viene dimostrata la colpevolezza con una condanna da parte della magistratura. Nel 2016 sono state solo 16 condanne riferite a tale reato. Ecco allora emergere la terra bruciata.
Si evidenzia non solo una contraddizione delle norme in materia di incendio boschivo, ma diventa condizione per rendere trasformabili ed infrastrutturali i territori in base al loro grado di degrado, ovvero declassificazione dei valori naturali.
Nel clima arroventato di quest’estate, tra crisi climatica, crisi economica e roghi, c’è chi impone il modello di parco produttivo, forgiato dalla cosiddetta riforma della legge quadro sui parchi – in votazione finale al Senato – che prevede royalty pagate agli enti Parco dai privati interessati allo sfruttamento di suolo, sottosuolo e acqua. Un malcelato intento di voler asservire i gestori dei parchi dalla dipendenza economica di quanti sono interessati allo sfruttamento delle risorse naturali. Così come avviene nel Parco Nazionale del Pollino dove l’interesse per le biomasse della centrale del Mercure è stata sancita da una deliberazione della Giunta regionale della Basilicata, che ne stabilisce il prelievo nel raggio di 70 chilometri. Delibera che non chiarisce se i 70 chilometri, in base allo studio Enea, si calcolano partendo dal perimetro del parco nazionale o dall’area dove è localizzata la centrale. Nel contempo un’altra delibera (la n.882 del 31 luglio 2017) richiedeva al governo lo stato di emergenza a causa degli incendi.
Oppure nel Parco della Sila dove, durante gli incendi, Carlo Tansi, responsabile della Protezione civile regionale, ha paventato dietro i roghi un interesse connesso alle biomasse per centrali elettriche. Sempre la nuova legge stabilisce un costo per ogni ettaro di bosco che assume valore economico solo se possiede la capacità di essere utilizzato come “legna da ardere e pellet” destinati a centrali a biomassa e caminetti. Tesi, queste, sostenute anche dalla Confederazione italiana agricoltura (Cia), che ha condannato gli interessi dietro i roghi. “Occorre un piano nazionale di sviluppo dell’impresa boschiva – ha sottolineato Luca Brunelli, presidente Cia Toscana – con una strategia di valorizzazione della selvicoltura e dell’impresa, fondata su incentivi, agevolazioni fiscali (a partire dall’IVA sui combustibili legnosi), incentivi all’occupazione come mezzo di contrasto al lavoro nero. E poi semplificazione e sburocratizzazione.”
Chissà se si riferisse alla nuova legge sui parchi.
TERRA BRUCIATA: MUTAZIONI GENETICHE E CONTROLLO DEL TERRITORIO
Sulla nuova divisa dell’ex Corpo Forestale dello Stato spariscono i simboli delle foreste e delle aquile reali e, persino, il mimetico grigio viene sostituito dal marcato blu scuro. Il sito internet del Corpo forestale dello Stato – ancora per poco online – comunica il trasferimento dei contenuti, dal primo gennaio 2017, sul sito dei Carabinieri, in base al decreto legislativo n.177 del 19 agosto 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 settembre 2016.
La nuova organizzazione sembra assumere i caratteri di una vera e propria mutazione genetica per gli ex-agenti del Corpo forestale dello Stato, così come qualcuno l’ha definita, trasformandolo in un’Arma militarizzata. “Ovvero – ha dichiarato a Greenreport Carlo Alberto Graziani, giurista e primo presidente del Parco Nazionale dei Monti Sibillini – il Corpo viene di fatto soppresso e i forestali (da non confondere con gli operai forestali regionali) vengono trasferiti nell’Arma dei Carabinieri, vengono cioè militarizzati. La militarizzazione riguarda pure il personale tecnico non in divisa e non armato, compresi i disabili e gli eventuali obiettori di coscienza (infatti solo ai forestali in divisa è richiesto di non essere obiettori di coscienza): questo personale costituisce circa l’11 per cento degli oltre 7.500 forestali. Vengono trasferite nell’Arma anche le strutture (tra cui le circa 1.000 le stazioni forestali) sparse in tutta Italia tranne che nelle cinque regioni a statuto speciale che dispongono di propri corpi forestali.”
Sempre Graziani aggiunge: “Cessa infine, ed è gravissimo, quel regime di dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente e dagli enti parco nazionali del personale del Corpo ivi dislocato che, seppure con alcuni limiti dimostrati dalla prassi soprattutto nei parchi, aveva permesso sia all’uno che agli altri di poter disporre con sufficiente autonomia di tale personale. D’ora in poi il personale dipenderà sia gerarchicamente sia funzionalmente dal Comando unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare dell’Arma istituito dall’articolo 8 del decreto. Secondo quanto stabilisce questo articolo, infatti, mentre per le materie afferenti alla sicurezza e alla tutela agroalimentare e forestale il Comando dipenderà funzionalmente dal ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, il ministro dell’Ambiente – che ha salutato con particolare enfasi l’approvazione dell’assorbimento – potrà solo avvalersi di tale struttura limitatamente allo svolgimento delle specifiche funzioni espressamente riconducibili alle attribuzioni del suo ministero. Limiti più angusti non si sarebbero potuti nemmeno immaginare: a conferma del disimpegno del governo per l’ambiente, la natura, le aree protette e per questo suo ministero, il quale, per una parte importante e strategica delle sue funzioni, finirà esso per dipendere di fatto dalle scelte dell’Arma dei Carabinieri.”
LE ECOMAFIE NEI PARCHI
A fronte della loro esiguità rispetto ad altri rami militarizzati dello Stato – con poco più di 8.500 tra uomini e donne, ed oltre 1.000 presidi territoriali tra Cta e Comandi Stazione – l’assorbimento nei Carabinieri del Corpo forestale dello Stato rischia di cancellare esperienze maturate e valori riconosciuti della storia centenaria, che in altri Paesi avrebbe, non solo costituito l’identità dello Stato, ma anche valori riconosciuti irrinunciabili da parte di tutti. Una “mutazione genetica” imposta con decreto che rischia di cancellare anche la “tutela del patrimonio naturale e paesaggistico, la prevenzione e repressione dei reati in materia ambientale e agroalimentare assieme alla molteplicità dei compiti affidati alla Forestale che affonda le radici in una storia professionale dedicata alla difesa dei boschi, che si è evoluta nel tempo fino a comprendere ogni attività di salvaguardia delle risorse agroambientali, del patrimonio faunistico e naturalistico nazionale.”
Ma in Italia con l’etichetta di riforma è possibile, con decretazione, non solo cancellare i diritti costituzionali, ma mettere a rischio la sicurezza del territorio e delle comunità che lo abitano.
Lo dimostrano decine di migliaia di controlli dei soli forestali impegnati in passato nei parchi nazionali che oggi non lo sono più, costituendo un deterrente nei confronti degli incendiari soprattutto nei Parchi nazionali del Sud Italia. Gli ex agenti del Corpo forestale sono oggi relegati al ruolo di segnalatori di incendio agli uffici dei Vigili del fuoco. I Cta dei parchi dovrebbero ritornare ad essere funzionalmente legati agli enti parco, costretti invece a non disporre più di una propria vigilanza, dovendosela pagare, anche in base alla nuova legge sui parchi, forse dalle royalty pagate dai privati o ricorrendo (a pagamento) a volontari o altre organizzazioni commerciali, i cui interessi spesso coincidono con quelli degli speculatori e dei cementificatori, ai quali fa comodo che si faccia terra bruciata. Non importa se poi la mano e gli interessi degli incendiari non sono gli stessi.
IL BUSINESS DELLO SPEGNIMENTO DEI ROGHI
È bastata una sola stagione per evidenziare come dalla prevenzione e dai controlli degli incendi boschivi – effettuati prevalentemente dall’ex Corpo forestale dello Stato, affiancati da volontari e squadre antincendio locali – si sia passati, grazie alle nuove leggi in vigore, alla logica dello spegnimento dei roghi con compiti affidati a Vigili del fuoco e alla Protezione civile, con altri organismi di supporto che, di fatto, hanno privatizzato mezzi e uomini adibiti allo spegnimento dei roghi. Un business milionario, almeno a leggere alcune inchieste giornalistiche. Tra il primo gennaio e il 12 luglio 2017 sono state inoltrate ben 764 richieste al Centro operativo aereo unificato (Coau), di cui all’articolo 7 della legge n.353/200. A riportare questo numero è il dossier Incendi 2017 di Legambiente. Un record decennale quello fatto registrare al Coau, per l’intervento di 14 canadair, 3 elicotteri dei Vigili del fuoco e 3 elicotteri della Difesa, in uno scenario complessivo che vedrebbe anche un’indagine dell’Antitrust e della Guardia di finanza sui servizi di elisoccorso e anti-incendio boschivo aggiuntivi, in particolare sui ribassi a base d’asta imposti da un presunto cartello di imprese nel settore degli aeromobili ed elicotteri privati, interessati ad aggiudicarsi le gare per lo spegnimento dei roghi (Agcom, marzo 2017).
LA TERRA BRUCIA
La terra brucia anche quando ci si sente dire dal 1515 che per segnalare un incendio dal primo gennaio 2017 ci si deve rivolgere al 115 dei Vigili del fuoco, che non possono essere presidio permanente nei territori in “tempi di pace” dei comuni colpiti dai successivi ma evitabili roghi. Ci sono poi primi cittadini che, alla richiesta di inviare una ruspa per contenere l’avanzare del fuoco nei campi (le stoppie oltre ad essere innesco sono propagatori), fanno orecchie da mercante. Ma i sindaci sono anche “attori” principali nella lotta agli incendi boschivi: le ordinanze in materia di prevenzione incendi, in particolare l’obbligo per gli agricoltori di realizzare le “precese” (che sono comunque un deterrente all’avanzare delle fiamme) vengono rispettate? Chi controlla che gli agricoltori rispettino le leggi? La Polizia locale, in mancanza della Polizia provinciale, ed oggi degli agenti del Corpo forestale dello Stato, svolge questo compito? La terra brucia anche per questo, ma anche per altro. Le aree percorse dal fuoco in assenza di controlli restano solo terra bruciata.
Le Regioni più colpite sono la Sicilia, la Campania, la Calabria e la Basilicata. Gli incendi, nel 2017, hanno coinvolto in Italia 87 Siti di importanza comunitaria (31 Sicilia, 24 Campania, 8 Calabria, 7 Puglia, 5 Lazio, 4 Liguria), 35 Zone di protezione speciale (10 Sicilia, 6 Campania, 5 Calabria, 5 Lazio, 3 Puglia, 1 Liguria) e 45 parchi e aree protette (12 Sicilia, 13 Campania, 5 Lazio, 4 Calabria, 4 Puglia, 1 Liguria), tra cui 9 parchi nazionali, 15 parchi regionali e 16 riserve naturali. Le regioni che hanno perso il patrimonio maggiore sono la Sicilia (11.817 ettari bruciati nei Sic, 8.610 nelle Zps e 5.851 nelle aree protette), la Campania (8.265 ettari nei Sic, 4.681 nelle Zps e 8.312 nelle aree protette), la Calabria (666 ettari nei Sic, 3.427 nelle Zps e 3.419 nelle aree protette), la Puglia (1.687 ettari nei SIC, 1.535 nelle Zps e 1.283 nelle aree protette), il Lazio (173 ettari nei Sic, 2.797 nelle Zps e 847 nelle aree protette) e la Liguria (1.083 ettari nei Sic, 325 nelle Zps e 300 nelle aree protette).
COLDIRETTI CHIEDE LO SFRUTTAMENTO PRODUTTIVO DELLE FORESTE
Per la Coldiretti gli incendiari sono piromani ed i boschi vanno sfruttati dagli agricoltori. Siamo forse di fronte ad una nuova richiesta di disboscamento delle foreste del Sud Italia, al fine di ricavare biomassa per alimentare i forni energetici di centrali a cippato e caminetti a pellet? Dopo il disboscamento selvaggio post unità d’Italia – che ha visto sacrificati milioni di ettari di bosco per farne traversine ferroviarie, arricchendo i “padroni del vapore” – è questa la nuova grande riforma della politica agricolo-alimentare del Belpaese?
“Nelle foreste andate a fuoco – sostiene la Coldiretti – saranno impedite anche tutte le attività umane tradizionali del bosco come la raccolta della legna, dei tartufi e dei piccoli frutti, ma anche quelle di natura hobbistica come i funghi che coinvolgono a settembre decine di migliaia di appassionati. Insieme alle disdette provocate in molti agriturismi, sono gravi anche i danni diretti registrati alle coltivazioni agricole, le perdite di animali con la distruzione di numerosi fabbricati rurali. Anche specialità alimentari tradizionali sono andate perse come vigneti, oliveti e pascoli. Un costo drammatico che l’Italia è costretta ad affrontare perché è mancata l’opera di prevenzione con 12 miliardi di alberi dei boschi italiani che, a causa dell’incuria e dell’abbandono, sono diventati infatti vere giungle ingovernabili in preda ai piromani. Siamo di fronte all’inarrestabile avanzata della foresta che senza alcun controllo si è impossessata dei terreni incolti e domina ormai più di un terzo della superficie nazionale con una densità che la rende del tutto impenetrabile ai necessari interventi di manutenzione, difesa e sorveglianza. È praticamente raddoppiata rispetto all’unità d’Italia la superficie coperta da boschi che oggi interessa 10,9 milioni di ettari, ma sono alla mercé dei piromani la maggioranza dei boschi italiani che, per effetto della chiusura delle aziende agricole, si trovano ora senza la presenza di un agricoltore che possa gestirle.”
“Per difendere il bosco italiano occorre creare le condizioni affinché si contrasti l’allontanamento dalle campagne e si valorizzino quelle funzioni di sorveglianza, manutenzione e gestione del territorio svolte dagli imprenditori agricoli – ha affermato il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo – nel sottolineare che occorre cogliere le opportunità offerte dalla legge di orientamento che invita le pubbliche amministrazioni a stipulare convenzioni con gli agricoltori per lo svolgimento di attività funzionali alla salvaguardia del paesaggio agrario e forestale.”
NOSCORIE TRISAIA: TRA IL POLLINO CHE BRUCIA E L’ EMERGENZA SICCITÀ, LA GIUNTA REGIONALE DELLA BASILICATA DELIBERA IL TAGLIO DELLE BIOMASSE NEL PARCO
In piena estate, mentre il Parco nazionale del Pollino perde circa 300 ettari, dopo altri numerosi incendi, in emergenza siccità e nel mezzo della discussione sui cambiamenti climatici che accapiglia i governanti di mezzo mondo, la Regione Basilicata delibera per la produzione di biomasse proprio nel Pollino, al fine di alimentare la centrale del Mercure in un raggio di 70 chilometri dall’impianto. La delibera – la n.750 del 19 luglio 2017 – parte da uno studio Enea, del 2016, sulla reperibilità di biomassa in Basilicata. Nello studio, però, non sembra essere stata contemplata la devastazione in atto, a seguito degli ultimi incendi del patrimonio forestale, la siccità permanente e il contributo della vegetazione alla riduzione di CO2. Temi a nostro giudizio in antitesi, e non meno importanti, della produzione di energia elettrica che può essere prodotta in mille modi senza tagliare gli alberi e la vegetazione per bruciarli come biomasse. Sarebbe stato opportuno, prima di deliberare, prendere in esame anche uno studio sulla desertificazione, sul rischio incendi, sul rischio idrogeologico ma, soprattutto, sull’impatto che il taglio degli alberi e della vegetazione avrà sugli ecosistemi del Pollino. Non dimentichiamoci, inoltre, che a novembre del 2015 l’Unesco ha inserito il Parco, che con i suoi 192 mila ettari è il più esteso d’Italia.
Ovviamente i Comuni, l’Ente parco e le comunità ricadenti nei 70 chilometri dalla centrale del Mercure possono sempre ricorrere al Tar contro la delibera della Regione Basilicata, per tutelare i propri interessi, il proprio verde e il proprio territorio.
LA GEOGRAFIA DELLA PAURA E GLI EFFETTI DELLO “SPRAWL” INCENDIARIO
Sarebbe la pratica del “fare”, causata dall’emergenza-disastri (naturali e non), vissuta in modo “deviato” come “opportunità”, che innescherebbe i roghi. Quest’anno gli incendi sono stati più devastanti, ingigantiti dalla siccità e dai cambiamenti climatici. Il “fare” si collega in modo diretto agli appetiti dei corruttori e dei corrotti, di quanti si fregano le mani per la contentezza di fronte alle sciagure, alle frane, ai terremoti e agli incendi di foreste secolari. L’innesco affaristico sarebbe dietro alle stesse calamità, facilitate dall’eliminazione con legge delle azioni di prevenzione e di controllo sul territorio, in un apparente efficientismo post moderno. Tale accanimento sarebbe favorito dallo “sprawl”, ovvero dal fenomeno della diffusione della città e del suo suburbio su una quantità sempre maggiore di terreni agricoli e forestali (Consumo di suoli e sprawl di identità, F. Vallerani, Università di Venezia Cà Foscari).
La trasformazione forzata dei suoli causata dai disastri, in questa visione favorirebbe lo sfruttamento dello spazio (legname, acqua, terra, edilizia, mezzi antincendio). La Protezione civile deve intervenire per salvare prima gli abitanti, poi le case ed infine gli alberi, incrementando una protezione civile fai-da-te). Gli incendi inoltre funzionerebbero come un incentivo alla svendita del patrimonio pubblico o per i ripristini ambientali (rischio idrogeologico conseguente, frane) per la cui tutela lo Stato dichiara di non avere fondi.
Questo fenomeno è stato studiato dal sociologo Mike Davis che ha, da tempo, definito il ruolo della paura come motore per lo sfruttamento spaziale, che però poi innesca un business indotto. Essa ha inghiottito intere regioni di patrimonio pubblico negli Stati Uniti. Davis ha contestualizzato anche i nuovi fenomeni criminali nei diversi scenari del mondo con-urbano, capace di sottrarre in modo pianificato e distruttivo, nuovi spazi alla natura e al vissuto collettivo, per privatizzarli, ponendo attenzione ai rimedi attuati, spesso più inefficaci (ma costosi) delle stesse cause che scatenano le distruzioni. Gli scenari delle megalopoli, quello degli “Slum” (le nuove periferie povere del mondo) e delle prassi istituzionali finiscono per condizionare – secondo Davis – un “cyber-fascismo che sta in agguato dietro l’orizzonte futuro fondato sulla paura.”
Le periferie non urbanizzate devastate dal fuoco finiscono per diventare un nuovo confine in cui ridefinire le nuove rendite ed i profitti da privatizzare, mentre la ricchezza si concentra nei paradisi fiscali della cripto-valuta.