Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

L’Eni in Algeria, la Saipem e le tangenti veicolate

Non solo Nigeria e Congo. L’Eni si trova a dover affrontare da alcuni anni un procedimento giudiziario, con esiti altalenanti, per il pagamento di presunte tangenti in Algeria. Tra gli imputati, oltre al Cane a Sei Zampe, ci sono la sua controllata Saipem, l’ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e l’ex presidente di Saipem Pietro Tali. Dopo una prima condanna e una susseguente assoluzione, la Corte di Cassazione ha stabilito che si doveva ripartire dal punto di partenza. L’esito dell’ennesimo processo è atteso entro la fine del 2018.

Tutto ruota attorno all’ipotizzata maxi tangente da 198 milioni di euro che sarebbe stata pagata in più tranche dalla multinazionale italiana, dal 2007 al 2010, al ministro dell’Energia algerino Chekib Khelil e al suo entourage in cambio di appalti per otto miliardi di euro. Inoltre sarebbero stati versati 41 milioni di euro per avere il via libera da Khelil per l’acquisito di First Calgary Petroleum che in joint-venture con la società statale Sonatrach deteneva un giacimento di gas a Menzel, nel centro del Paese nord-africano. La Saipem avrebbe “veicolato” la tangente tramite contratti con la Pearl Partners – società registrata a Hong Kong e controllata da Bedjaoui – che, però per la procura «non ha effettuato alcun lavoro o consulenza tale da giustificare un pagamento da 197 milioni.»
Val la pena ricordare che nella rubrica sequestrata dalla polizia militare algerina al ministro dell’Energia sarebbero stati rinvenuti i numeri di fiduciari di società svizzere coinvolte nei presunti passaggi corruttivi.
Come segnalato dalla dirigenza dell’Eni durante le ultime assemblee degli azionisti, la compagnia (e i suoi vertici) non ha mai subito una condanna per corruzione. Vero, però come non citare il caso Bonny Island in Nigeria. Dopo tre gradi di giudizio non l’Eni, ma la controllata Saipem, è stata condannata a pagare 600 mila euro di sanzione pecuniaria e ha subito la confisca di 24 milioni di euro per la propria porzione di tangenti per il caso Bonny Island. Ben 182 milioni di euro sono finiti nelle tasche di pubblici ufficiali nigeriani fra il 1995 e il 2004 dal consorzio internazionale Tskj del quale Snamprogetti Netherlands Bv (“entrata” in Saipem nel 2008) faceva parte con l’americana Kbr Halliburton, la giapponese Jgc e la francese Technip per la costruzione di impianti di liquefazione del gas a Bonny Island (isola al largo delle coste del Delta del Niger) del valore di 6 miliardi di dollari. In Nigeria la società aveva transato 30 milioni di dollari, erogandone, invece, 270 al Dipartimento di Stato a stelle e strisce, che poi dal resto del consorzio ottenne altri 400 milioni sulla scorta delle ammissioni di Albert Jackson Stanley, il top manager dell’americana Kbr controllata dalla Halliburton (la società dell’ex vice-presidente Dick Cheney).
Poi c’è un fronte italiano, con un altro processo in corso. Per una volta non si parla di corruzione, ma le accuse sono altrettanto gravi.
Il 6 novembre del 2017, infatti, ha avuto inizio il processo di primo grado che vede alla sbarra 10 società e 47 persone, tra cui due responsabili del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato, altri dipendenti della compagnia petrolifera, due esponenti di spicco dell’Arpab, alcuni ex dirigenti della Regione Basilicata, l’ex sindaco di Corleto Perticara e molti imprenditori locali, questi ultimi tuttavia per corruzione relativa all’aggiudicazione di appalti legati al centro olio di Tempa Rossa, che fa capo alla Total.
Per quanto riguarda il traffico di rifiuti, l’Eni è accusata di aver smaltito illecitamente i rifiuti prodotti dall’estrazione del petrolio, con procedure che hanno fatto conseguire all’azienda un ingiusto profitto per milioni di euro. Attraverso la manomissione dei dati sugli sforamenti emissivi del Centro olio di Viggiano e la falsificazione dei codici Cer (Catalogo europeo dei rifiuti) dei rifiuti speciali, gli scarti pericolosi non venivano catalogati come tali, ma come quasi innocui. Il risparmio ottenuto dall’Eni cambiando i codici, e quindi mettendo a repentaglio la salute degli abitanti, sarebbe equivalso alla realizzazione di un ingiusto profitto che oscillerebbe tra i 44 e 114 milioni di euro. Le parti civili ammesse sono circa 400, ma per il momento il processo procede a rilento, anche perché la sostituzione dell’avvocato di Gheller, Piero Amara, ha ulteriormente allungato i tempi. Piero Amara è coinvolto nel presunto depistaggio del caso OPL245, sul quale avrebbe già fatto alcune importanti ammissioni agli organi inquirenti.

Iscriviti alla nostra newsletter!

Condividi questo articolo
Autore:

Giornalista. Dal 2000 al 2012 ha lavorato per la Campagna per la Riforma della Banca mondiale. Dal 2012 è il responsabile della comunicazione dell'associazione anti-corruzione <a href="https://www.recommon.org/">Re:Common</a>. Per entrambe le organizzazioni ha redatto numerose pubblicazioni e seguito numerosi vertici internazionali (G20, G8 e Ministeriali del WTO). Ha collaborato con varie testate, tra le quali l'Espresso, il Manifesto, Pagina99, Liberazione, Altreconomia, Left, Solidarietà Internazionale, Nigrizia, Valori, la Stampa.it, Unimondo.org, Comune.info e GreenReport.it. È co-autore del libro “La Banca dei Ricchi” (Altreconomia, 2008) e ha scritto la sceneggiatura delle graphic novel “Soldi Sporchi” (Round Robin, 2015) e “L'Alleato Azero” (Round Robin 2016). Ha collaborato alla realizzazione del video “The Nuclear Party” (2014). Ha ricevuto la menzione speciale nel Premio Addetto Stampa dell'Anno del 2004 per il lavoro svolto durante la ministeriale del WTO di Cancun del 2003.