La Repubblica del Congo – da non confondere con la più estesa e famosa Repubblica Democratica del Congo – è uno di quegli stati africani ricchi di idrocarburi ma al contempo flagellati dalla piaga della povertà.
In questi casi il cliché vuole che il potente di turno, il presidente Denis Sassou Nguesso, in carica dal 1979 con una “pausa” fra il 1992 e il 1997, tragga per sé, per la sua famiglia e la cerchia ristretta di sodali evidenti “vantaggi” dall’estrazione di gas e petrolio. È dunque preoccupante che per l’Eni negli ultimi anni si sia aperto un “fronte congolese”, su cui per l’ennesima volta stanno cercando di fare luce i magistrati della Procura di Milano.
Un primo capitolo di questa vicenda è stato scritto già nel 2015, quando sotto i riflettori era finita la licenza per il blocco petrolifero Marine XII, controllato dal Cane a Sei Zampe con il 65 per cento delle quote (al 10 per cento figura poi l’azienda pubblica congolese Snpc). Eni, in particolare, nel luglio del 2015 – come spiega il bilancio del 2016 del gruppo petrolifero – aveva ricevuto «una richiesta di produzione documentale emessa dal Department of Justice (“Doj”) degli Usa in relazione agli asset Marine XII in Congo e ai rapporti intrattenuti con alcune persone fisiche e società» sospettate di corruzione.
Ma potenzialmente ancora più dirompente è l’indagine milanese su un altro blocco, Marine XI. Ci sono sospetti che l’aggiudicazione del mega giacimento nella Repubblica del Congo sia avvenuta tramite l’uso di pratiche corruttive che ricondurrebbero a una società denominata World Natural Resources, dietro la quale si nasconderebbero persone vicine all’Eni e al suo management, come ampiamente raccontato da Espresso e Fatto Quotidiano la scorsa primavera. La World Natural Resources ha acquistato per 15 milioni di dollari una quota di Marine XI valutata in 430 milioni.
Le stesse relazioni annuali dell’Eni rivelano che nell’aprile 2018 la compagnia ha ricevuto notifica dai pubblici ministeri secondo la quale il proprio «Chief Development, Operation and Technology Officer» e un altro non meglio precisato «impiegato Eni» sono sospettati nell’indagine per corruzione in Congo. Il Chief Development, Operation and Technology Officer al momento del decreto di perquisizione eseguita lo scorso 5 aprile nelle sedi dell’Eni di Roma e Milano era Roberto Casula, il cui ruolo nell’operazione OPL 245 in Nigeria è stato messo ripetute volte in discussione da Re:Common e Global Witness durante le recenti assemblee degli azionisti. Casula, di fatto il numero 2 dell’Eni, è al momento «in aspettativa», in attesa di chiarimenti sulla sua posizione. Per quanto riguarda il secondo dipendente sospettato, inizialmente l’azienda non ha fornito dettagli, per poi dover ammettere all’assemblea degli azionisti dello scorso 10 maggio che risponde al nome di Maria Paduano. Ovvero una delle quattro persone tutte segnalate da l’Espresso in base a quanto emergeva dai Paradise Papers come direttori o ex beneficiari della World Natural Resources. Gli altri sono Andrea Pulcini (ex dirigente del Cane a Sei Zampe), Ernst Olufemi Akinmade e Alexander Haly.
Quest’ultimo è anche dirigente della Petro-Services, una società di servizi petroliferi attiva in Repubblica del Congo. Durante l’assemblea del 2017, l’Eni aveva informato gli azionisti che non esistevano legami contrattuali con Petro-Services in Congo, ma durante l’ultimo incontro ha di fatto smentito quanto detto in precedenza, addebitando il tutto a una svista – c’era stato un errore di trascrizione della risposta.
L’Eni infatti ha avuto rapporti commerciali con Petro-Services dal 2012 all’inizio del 2017. Ci sarebbero riscontri sul fatto che l’Eni avrebbe pagato Petro-Services per quasi 105 milioni di dollari durante il suddetto periodo.
Altra “coincidenza” a dir poco singolare è che il signor Ernst Olufemi Akinmade, anche lui oggi indagato in quanto amministratore unico dal 2012 al 2014 della sezione inglese della World Natural Resources coinvolta nello scandalo in Congo, abbia lavorato per anni nella controllata nigeriana del gruppo Eni, per poi diventare il braccio destro dell’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete e rappresentarlo, schermato da una offshore, nelle trattative finali per l’assegnazione del giacimento OPL 245.
Va ribadito che le indagini sono ancora in corso e che l’Eni nega risolutamente qualsiasi addebito ed è in attesa di una valutazione indipendente commissionata alla KPMG sui dati che riguardano questa intricata vicenda. Rimane però un alone quanto meno di opacità nella gestione dei “rapporti di affari” con un governo come quello congolese.