Questo autunno il processo per la presunta maxi-tangente legata all’aggiudicazione, da parte di Eni e Shell, della licenza petrolifera nigeriana OPL245, è finalmente entrato nel vivo. In realtà, che ci sia stata corruzione lo ha già stabilito una prima sentenza, quella emessa dopo il rito abbreviato richiesto da due dei tredici imputati, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. Gli intermediari sono stati infatti condannati a quattro anni di reclusione nel procedimento a porte chiuse andato avanti parallelamente alle udienze presso la settima sezione del Tribunale Penale di Milano.
Nel frattempo, al ritmo di un’udienza a settimana, sono stati ascoltati numerosi testi dell’accusa, rappresentata dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. La lunga teoria di testimonianze sembra destinata a durare ancora per qualche mese, tanto che la sentenza di primo grado non dovrebbe arrivare prima della fine del 2019.
Per l’inizio dell’anno sono in programma le audizioni di funzionari pubblici nigeriani, mentre successivamente sarà il turno degli imputati, tra i quali spiccano l’attuale ed ex amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, alti dirigenti dell’azienda come Roberto Casula e Vincenzo Armanna, vari manager della Shell e “intermediari” del calibro di Luigi Bisignani. Difficile, invece, che si presenti in aula Dan Etete, il ministro del Petrolio nigeriano ai tempi del dittatore Sani Abacha. Fu lui, di fatto, ad auto-intestarsi nel 1998 la licenza per il gigantesco blocco petrolifero e trattare a più riprese con Shell fino al 2010, quando alla compagnia anglo-olandese si affiancò l’Eni.
Nella primavera del 2011 le due oil majors siglarono un accordo per l’acquisto della licenza, pagata 1,3 miliardi di dollari. Di questi, 1,1 miliardi sono considerati a tutti gli effetti una tangente frammentatasi in svariati pagamenti a faccendieri e, soprattutto, a politici nigeriani, compreso l’ex presidente Goodluck Jonathan.
Proprio dei particolari di questi infiniti rivoli di denaro hanno raccontato al Tribunale di Milano il tenente-colonnello della Guardia di finanza, Alessandro Ferri, l’ex agente della Fbi, Debra Laprevott e l’ex capo dell’unità anti-corruzione della Metropolitan Police di Londra, Jonathan Benton. E non sono mancati dettagli a dir poco singolari, come i 56 milioni di dollari destinati all’acquisto di un aereo privato a Oklahoma City. Un jet che Dan Etete usava per i suoi viaggi d’affari in giro per il mondo.
Ma forse la testimonianza più dirompente registratasi fin qui è stata quella dell’ex membro del consiglio d’amministrazione dell’Eni, Luigi Zingales.
Il disagio espresso dal professore della Chicago University sul caso OPL245, manifestato ai vertici societari durante vari incontri, andava a cozzare con la scarsa disponibilità al dialogo dei suoi colleghi. Anzi, l’ex responsabile dell’area legale Massimo Mantovani era arrivato a definire i toni usati da Zingales come diffamatori, mentre per l’amministratore delegato Claudio Descalzi «le continue domande (poste da Zingales, ndr) rischiavano di paralizzare la società.»
A un certo punto la richiesta di chiarimento riguardò un ennesimo caso sul quale è in corso un’indagine, quello su altre licenze petrolifere in Congo. Oltre ai rischi legali, che pure c’erano, Zingales si preoccupava dei pericoli per la reputazione dell’azienda e le correlate ricadute economiche. Nell’esposizione dell’economista lo spaccato della vita societaria ha palesato fin troppi difetti, compreso il mancato rispetto delle regole interne da parte di dipendenti che finivano per non subire alcuna conseguenza: «due dipendenti coinvolti nel caso di corruzione in Algeria sono stati addirittura promossi.»
Il redde rationem per l’esponente “scomodo” del consiglio di amministrazione si materializzò con una peer to peer review nell’estate del 2015. In pratica, dal momento che il consiglio non funzionava al meglio, fu chiesto a ogni suo componente di giudicare i propri pari. Il risultato fu che tutti gettarono la croce su Zingales. «La cosa più gentile che mi fu detta è che ero un poliziotto.» Capita l’antifona, l’economista diede le dimissioni, finendo pure indagato per diffamazione nell’ambito dell’inchiesta di Siracusa. Quella del complotto contro l’Eni, rivelatasi un maldestro tentativo di depistaggio del lavoro sul caso OPL245 svolto dai pm milanesi.
Zingales è uscito “immacolato” dal pasticciaccio siracusano. L’indagine, iniziata a Trani, fu poi avocata dalla Procura di Milano, che archiviò tutto, aprendo invece un’indagine su Mantovani e i suoi sodali, responsabili – secondo la Procura – di aver orchestrato un vero complotto, ma contro il suo lavoro.
Insomma, di aspetti oscuri in tutta questa intricata vicenda ce ne sono, eccome. Tanto per aggiungere altra carne al fuoco, Re:Common (Italia), Heda (Nigeria), Global Witness e The Corner House (Regno Unito) hanno deciso di vederci chiaro anche sull’accordo di estrazione del petrolio del blocco OPL. Ed è uscito fuori che i termini contrattuali sarebbero nettamente a svantaggio del governo nigeriano, tanto da potergli causare una perdita di almeno 6 miliardi di dollari. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione a cui sono giunti gli esperti della società canadese Resources for Development Consulting (RDC), forti di un’esperienza ultra-decennale nel settore estrattivo. Il rapporto della RDC è stato reso pubblico il 26 novembre a Lagos.
«Il governo italiano sta scoraggiando i migranti nigeriani che cercano di raggiungere l’Italia sostenendo che li aiuterà in patria, ma la più grande multinazionale italiana, in parte di proprietà dello Stato, è accusata di privare il popolo nigeriano di miliardi di dollari. Lo scandalo OPL245 sembra dimostrare che i funzionari italiani non aiutano i più poveri, ma ne traggono profitto», è stato l’amaro commento di Antonio Tricarico di Re:Common, presente all’incontro.