Fuoricampo è un diario pensato per dar voce agli invisibili. Un viaggio a puntate alla scoperta delle storie dei nuovi schiavi, dei nuovi emarginati d’Italia. A parlare sarà la realtà. Nessuna costruzione, nessun archetipo. Come Caronte, Ibrahim – un ragazzo senegalese, uguale a tanti altri, che vive nel ghetto Chitomeni, uno dei tanti del Sud Italia – ci traghetterà nell’Inferno di una quotidianità che non ci appartiene. Perché solo quando l’intangibile si può toccare, diviene reale. E solo raccontando queste storie i loro protagonisti potranno finalmente avere un volto, un nome e una voce. Un grido di speranza che raggiunga le coscienze, fuori dal campo.
C’era una volta un piccolo fiore / Che si chiamava margherita.
I piccoli uccelli le dissero: / “Margherita, dacci la tua bellezza
Per poter cantare sull’albero!” / “Io resto nell’erba
E non dono la mia bellezza.” / Allora i piccoli uccelli dissero alla loro madre:
“Noi mangiamo quella margherita / Che non vuole darci la sua bellezza.”
La madre dei piccoli disse loro: / “Non dovete mangiare quel fiore
Perché è bello, / e la bellezza non si deve distruggere.”
Il piccolo fiore è contento / Perché gli uccelli non l’hanno mangiato.
(“La margherita” di Ndaja, bambina dell’Algeria)
PROLOGO
L’alba dorata scaccia via le ultime nubi. Ieri ha piovuto, ma nulla sembra essere scivolato via. Le mie scarpe inzaccherate di acqua e fango scavano solchi profondi lungo le vie polverose di Chitomeni. Penso a come farà Ibrahim a uscire dalla sua baracca stamattina per venirmi incontro, come sempre. Poi intravedo qualcosa. Due ombre lunghe si stagliano decise lungo un orizzonte incerto. Un gigante tiene per mano una bambina che faticosamente agita le gambe per non sporcarsi i piedini arsi dal sole. Solo qualche altro passo e saremo vicini, ancora una volta. Ma la piccola perde una ciabatta logora nel fango e piange. Ibrahim, il gigante, la solleva con le sue grandi braccia. La tiene stretta, e procede spedito verso di me.
«No, Sarah, no fare così. Dai, no piangere più. Poi trova la scarpa, no ti preoccupa. Forsa, andiamo a parlare con mia amica. Vieni piccolina, no piangere più.»
Ibrahim, padre di due bambine che non vede da quasi sei anni, tiene tra le braccia una figlia che non è sua. Le accarezza la testa, sussurrando parole dolci che a poco a poco calmeranno un pianto antico e disperato. Poco conta se sei in un ghetto o in un parco giochi. Le lacrime dei bambini si somigliano in ogni luogo e hanno la capacità di commuovere anche i cuori più impenetrabili. Gli occhi lucidi della piccola Sarah mi osservano e, per un attimo, il pianto si interrompe. Due lacrime enormi, troppo grandi per quel visino smunto, le solcano le guance. Vorrei dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma riesco solo a sorriderle.
«Sarah vedi? Questa è amica mia. Sono sicuro che lei ti piasce. Lei è brava con bambini, io lo so già. Quando hai cuore pulito con persone grandi, no puoi essere cattivo con bambini piccoli. Dille ciao, Sarah. Forsa, dille ciao.»
Ma Sarah mi osserva e non dice nulla. Devo sembrarle così strana, così diversa.
«Ciao piccola» le dico rompendo un silenzio fatto di sguardi. «Io sono Emma. Ti va se cerchiamo insieme la tua scarpetta? Dai, vediamo dove è finita. Cerchiamola insieme, vuoi?»
Quella sua piccola manina indifesa si tende, improvvisamente, verso la mia. Con un sorriso complice, siamo già amiche. E mi sento accolta.
VIA DEL CAMPO
Sarah ha tre anni. La sua mamma, Jenny, viene dalla Nigeria. Il suo papà, David, è originario del Senegal. Il loro è un amore nato tra le vie del campo Chitomeni. «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior» cantava De Andrè. Mentre li ascolto, non riesco a fare a meno di pensarci. In questa ‘via del campo’ c’è una bambina, Sarah, che ha due fratelli. Il più grande, Joseph, ha sei anni. La più piccola, Mary, ha solo 9 mesi.
«Io no riesco a fare camminare Mary,» mi confida Jenny. «Lei no ha scarpe, no riesco a trovare. Guarda sue gambe, sono sempre piegate. No riesce a fare nemmeno come gatto, capisci? Qua tutto sporco, io no posso provare. Così tengo lei sempre in braccia mie, ma no va bene. Così no cresce bene. Tu può aiutare a trovare scarpe?»
«Io ci posso provare Jenny,» le rispondo. «Le posso anche comprare. Ma dobbiamo capire qual è la misura giusta del suo piedino, altrimenti non serve a nulla.»
«Tanto piede cresce, si lei cresce. Si lei riesce a crescere, come fratelli, piede cresce. Ma guarda, ha tosse da tanti giorni. Servono medicine, servono vestiti, serve pulisia. Qua serve tutto ma no c’è nienti. Nessuno aiuta noi. Una volta veniva Caritas, oggi no viene nessuno. Sei prima persona che viene qua da tanto tempo. Nessuno ascolta, pensa che noi sta sempre a chiedere. Ma se no ci sta soldi, come faccio a no chiedere? Tu pensa che è bello che io deve chiedere scarpe per mia filia a te?»
«No, non credo ti faccia piacere. Ma se posso, ti aiuto volentieri. La cosa più importante è trovare il modo per farla stare meglio.»
«Stare melio…stare melio. Quando sono venuta da Africa pure io pensavo che stavo melio. Ho affrontato tante cose diffiscili e se no hai spalle grandi e Dio con te, tu no ce la fai. Tanto tempo fa stavo in altro ghetto, a Rignano. Lì era tanto brutto. Persone dire a me: tu apri gambe. E io pensavo che ero stanca di aprire sempre gambe. No ero venuta qua per aprire gambe, ma per aiutare mia familia in Nigeria. Poi un giorno ho trovato David e mia vita è cambiata. Dio ha mandato me David. Sensa lui, io no potevo continuare. Quando è nato Joseph, ho pensato che lui no doveva vivere come noi. Che lui deve avere possibilità di essere bambino, come altri bambini. Di giocare, correre, di andare a scuola. E guarda dove siamo adesso. Che possibilità ha Joseph?»
Scuote il capo Jenny. La sua partenza dalla Nigeria è fatta di ricordi che vagano al vento, come cenere dispersa. Qui c’è solo l’andata. Il suo sogno è intessuto di fede e speranza. Fede nel Dio che lei sente nel cuore, speranza di poter cambiare la propria vita e quella dei propri figli.
«Sono forte perché devo dare futuro a miei bambini,» prosegue. «Sono forte perché loro deve essere felici e io deve dare destino miliore di mio. David lavora sempre e tanto. Lui ha documenti, io no. Vivere è difficile, ma noi deve lottare per nostri fili. Loro deve avere possibilità. Io no mi arrende perché loro deve avere possibilità,» ripete come un mantra.
Cos’è la possibilità? La possibilità è fatta di scarpe, per far correre Mary lungo la strada dei propri sogni. Di nuovi abiti per Sarah, per vestire le ambizioni che verranno. Dell’istruzione per Joseph, per nutrire l’aspettativa di un destino migliore.
IL PICCOLO UOMO
Joseph ha lo sguardo sveglio. È attento a quel che la mamma dice ma, soprattutto, vigila costantemente sulle sorelle minori. Mentre parliamo, tiene stretta la più piccola. Le sue braccia ossute sembrano non farcela a sostenere il peso di Mary. Le sue manine, non hanno la forza di avvolgerla tutta. Eppure, con lo sguardo di un uomo vissuto, culla la piccola Mary mentre la madre è nella baracca a cuocere il riso per il pranzo. È un bambino cresciuto troppo in fretta il nostro Joseph. Avverte il peso di una responsabilità che, in fondo, non è la sua. È il più grande, quando il papà non c’è è lui che si prende cura delle sue donne.
«Quando il papà lavora,» mi spiega, «sono io l’uomo di casa. Allora aiuto la mamma. Tengo Mary e sto attento che Sarah non si caccia nei guai. Sarah è tanto bella, ma è monella. Fa sempre arrabbiare la mamma. Allora io devo stare attento, così nessuno si arrabbia e Sarah non piange. Non mi piace quando la vedo piangere, gli occhi diventano piccoli piccoli. E invece sono così belli quando non piange. Non pensi che Sarah è bella?»
«Penso sia bellissima,» rispondo. «Ma in realtà lo siete tutti. Vuoi che tenga io Mary, così puoi controllare Sarah?» domando per alleggerirlo dal peso di una bimba così fragile.
«Sì, per favore. Grazie, grazie mille. Sarah» alza la voce richiamando a sé la piccola che balla nel fango. «Sarah vieni qua. Mamma non può lavare sempre i vestiti, non ti sporcare. Sarah, vieni qua ho detto! Non mi fare arrabbiare!» grida imperioso. E Sarah, senza molta convinzione, interrompe di malavoglia la propria danza per andare a sedersi accanto al fratello maggiore.
«Ecco, siedi qua così aspettiamo la mamma. Non devi fare la monella Sarah, devi ascoltare!» la rimprovera. Ma persino il suo rimprovero ha un suono dolce. Quello dell’amore tra fratelli. Sarah lo guarda con i suoi occhi luminosi e gli sfiora la mano. «Faccio brava, promesso!» dice poco convinta. Sa come conquistarlo. Ma con quegli occhi, con quelle treccine colorate che disegnano il contorno del viso minuto, potrebbe conquistare chiunque. Joseph ne è già consapevole.
«Quando diventa grande,» mi confida «so già che devo stare molto attento. Lei è bella, troppo bella, e io devo stare attento» aggiunge dall’alto della sua esperienza.
Gli sorrido. Sembra un uomo nel corpo di un bambino. Uno scricciolo dal cuore grande.
«Parli molto bene in italiano Joseph. Sei andato a scuola quest’anno?»
«Sì sì. Papà mi ha mandato, perché ha il permesso per lavorare e documenti. Invece con la scuola dei piccoli per Sarah è più difficile. Non l’hanno accettata. Così, mentre io ero a scuola dei grandi, lei la mattina restava sempre sola. Ed era triste. Poi il pomeriggio facevamo i compiti insieme. Lo sai che Sarah sa già riconoscere le lettere? È piccola, ma lo sa fare. Mi ha visto imparare e ha provato a imparare pure lei. Non sa scrivere, però alcune lettere le riconosce. Lei è molto intelligente e, come dice mamma, era buono se andava già alla scuola dei piccoli. Ma hanno detto no.»
«E perché? Tu lo sai?» provo a domandargli.
«Mamma dice che la sua classe era già piena di bambini, ma io non penso che quello è un problema. Che differenza fa uno in più? È un bambino come altri. Ma quelli della scuola hanno detto no. Papà prova a settembre, ma secondo me dicono sempre no» preannuncia Joseph con una certa dose di fatalismo.
«Magari a settembre il posto si può trovare,» insisto.
«Per un bambino come noi il posto è sempre difficile. Tutto è sempre difficile. Mamma dice: ‘devi avere pasiensa, Joseph’» afferma emulando il tono di voce e la pronuncia della madre. «Ma io so che la pazienza certe volte finisce. È difficile la pazienza, lo sai tu? Se ti racconto una cosa, tu hai la pazienza?» mi chiede.
«Ho la pazienza di ascoltare tutto quello che vorrai raccontarmi, Joseph.» Rispondo carezzandogli il volto. Joseph socchiude gli occhi al tocco della mia mano sul suo viso. Poi, finalmente, mi sorride.
«SIAMO DIVERSI E UGUALI INSIEME»
«Quando sono andato a scuola il primo giorno, ero diverso. Io lo so che ero diverso, ma non ci sono bambini uguali. Tranne quelli che si chiamano gemelli, li hai mai visti? Quelli sono uguali fuori, ma dentro cambiano. Pure loro sono diversi. Tutti sono diversi. Ma io sono il più diverso degli altri.»
«E in che cosa saresti diverso, Joseph?» provo a chiedergli.
«Non vedi che sono colorato? Tu non vedi?» risponde ridendo.
«Ma i colori sono belli. Il mondo è pieno di colori, Joseph» rido anch’io.
«Sì ma alcuni colori sono più belli di altri. La differenza ci sta sempre.»
«E chi lo dice?»
«Lo dicono altri bambini, pure i papà di altri bambini. Pure la signora che fa le pulizie a scuola lo dice. Una volta,» mi racconta, «siamo andati nel bagno per la pausa. Come sia chiama quando fai pausa e mangi una merenda a scuola?» mi domanda tentando di ricordare la parola esatta.
«Si dice ricreazione,» rispondo immediatamente.
«Ricriasione, brava» ripete lui. «Allora qualcuno aveva fatto pipì fuori dal bagno. Io non penso che voleva fare pipì fuori, sai. Delle volte succede a noi maschi perché devi prendere bene la mira. Mira non sempre è facile. Allora la signora di pulizie si arrabbia tanto. Ha detto che non va bene così, che lei pulisce sempre e noi dobbiamo stare attenti. Ha ragione, dobbiamo fare bene pipì. Ma non era colpa mia. Te lo giuro, non sono stato io.»
«E lei invece ha pensato che fossi stato tu?»
«Sì, mi ha dato colpa. Ha detto che dove vivo io in Africa non ci sono bagni e non abbiamo educasion. Ma non è vero, papà mi ha insegnato a prendere mira. E poi, io l’Africa non l’ho mai vista. Sono nato in Italia, come tutti altri bambini di scuola. Ma invece no, la signora diceva che sono stato io. Lo ha detto pure alla maestra.»
«E la maestra che ha fatto?» chiedo seria.
«Ha chiesto a me se avevo fatto io. Io ho detto no. E lei mi ha detto che mi crede e non mi ha messo in punizione. Ma altri bambini invece hanno preso in giro perché dicono che sono io. Adesso tutti mi prende sempre in giro. E io non vado più a fare pipì nel bagno.»
«E dove la fai?»
«La faccio quando torno qua. Non bevo acqua, non bevo niente. E pure se mi viene da fare pipì stringo forte forte le gambe così non esce fuori. Una volta non trattengo bene e ho fatto pipì in pantaloni quando stavo già qua. Mamma si arrabbia tanto, e mi ha dato le botte perché non si fa.»
«Ma tu non le hai spiegato come mai non avevi fatto la pipì a scuola?» gli domando guardandogli gli occhi lucidi.
«No no. Sa solo papà. E papà poi rimprovera mamma. E io piango, perché non voglio che loro litigano per colpa mia. Ora sto sempre attento e non bevo mai di mattina, così non faccio pipì da nessuna parte,» mi spiega. «Adesso alcuni bambini prende un poco in giro,» prosegue. «Perché non faccio pipì e perché mie merende puzzano. Mamma mi mette riso in piatto piccolo, certe volte pollo, certe volte pesce o pane con fagioli. Quello che mangiamo la sera prima, mamma mi mette in piccolo piatto per la scuola. Ma quando prendo merende, altri ridono perché puzzano. Loro mangiano quelle merende nelle buste di plastica, o i biscotti, o patatine. Ma mamma non sempre mi dà questo. E quelli ridono quando mangio il pollo a merenda. Ma è buono! Mamma è brava a cucinare!»
«E tu hai provato a far assaggiare la tua merenda agli altri bambini? Magari piace anche a loro e non ridono più» provo a rincuorarlo.
«Solo una bambina. Michela, ha voluto saggiare» mi risponde deciso. «E abbiamo fatto metà. Io un poco di suo panino, lei un poco di mio pollo. E siamo contenti. Michela amica mia. Lei non è come altri. Sai, ha altri colori ancora, ha occhi come il cielo. È bella, pure se è diversa. Ora lei side vicino a me e quando facciamo merenda, facciamo sempre metà. Michela è bella,» afferma deciso. «Michela è amica mia. Per lei sono diverso, ma sono uguale. Pure per me lei diversa, però uguale. E allora, siamo diversi e uguali insieme. Capito?»
Sì, capisco. Capisco che è vero che i bambini, talvolta, possono essere feroci. Ma comprendo anche che in loro dimora ancora la speranza. Diversi e uguali insieme. Michela e Joseph sono la parte sana di una porzione d’umanità che sta crescendo.
EPILOGO
La storia di Joseph mi ha commossa. Lui se ne accorge, e anche Ibrahim. La sua mano da gigante si posa, leggera, sulla mia spalla. Mentre, con l’altra mano, stuzzica il piedino sporco di Sarah. Ha un debole per lei, glielo leggo negli occhi.
«Sai,» mi confida, «Sarah mi ricorda tanto mie bambine» aggiunge in un sospiro. E io gli sorrido e gli accarezzo il volto. Non servono parole.
«Bambini andiamo a magiare. Emma,» mi chiede Jenny, la mamma. «Mangi insieme a noi?»
«Stavolta non posso Jenny, devo andare via,» le rispondo. «Per me è già tardi. Ma la prossima volta, lo prometto, mangio insieme a voi.»
«Va bene, va bene. Tu dici e io cucina per te. Promesso?»
«Promesso!» le rispondo col sorriso.
Salgo in macchina e penso a quel che ho lasciato, ancora una volta, dietro di me. Chitomeni non è solo puttane, bordelli e magnaccia. Chitomeni sono storie di vita vissuta ai margini. Ma i confini, li abbiamo tracciati noi. Quelli che stanno fuori. Penso agli occhi color del cielo di Michela che incontrano, quasi per caso, quelli del piccolo Joseph. Magari fosse sempre così semplice spiegarsi senza parole. La nostra integrazione, slegata dall’accoglienza, è come un cancro al fegato. Ci imponiamo di estirpare la parte malata innestando, su quella sana, un’altra porzione che deve presentare con la nostra le caratteristiche della ‘compatibilità’. Ma cosa vuol dire essere compatibili? Significa, forse, imporre implicitamente a un bimbo di sei anni di non fare la pipì nel bagno della scuola? No, non credo sia questo. Accoglienza vuol dire aprire le porte del proprio cuore alla diversità del mondo accettandola per quella che è, senza tentare di piegarla a ogni costo. Accoglienza è un brivido lungo la schiena. Un rischio forse, o un vantaggio. Questa volta, mentre lascio Chitomeni, accoglienza è la voce di Jenny che canta una ninna nanna straniera. Una musica dolce che suona lontana nel tempo. Eppure è lì. Un’ode alla vita che giace inascoltata. Come una poesia che si genera, a poco a poco, dall’assenza.