Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

A Gela i lavoratori esposti all’amianto non hanno diritto alla pensione

«Gela si trova in Italia?» È la domanda, solo in apparenza paradossale, che da tempo pongono gli operai dell’ex raffineria siciliana di proprietà dell’Eni. All’interno dei 700 ettari dello stabilimento petrolchimico voluto da Enrico Mattei in persona, per anni hanno lavorato a stretto contatto con coibentazioni in amianto, serbatoi e superfici in eternit, la miscela di amianto e cemento che ancora esiste in parecchie abitazioni. Spesso hanno contratto asbestosi, carcinomi e mesoteliomi della pleura.

Eppure lo Stato riconosce loro l’esposizione all’amianto e ai suoi derivati solo fino al 1992, anno della sua messa al bando. Nel resto d’Italia l’ordinamento riconosce particolari benefici previdenziali, che consentono di raggiungere prima la pensione e con un importo maggiorato, fino al 2003. Come è possibile?
La versione dell’Inps è sempre la stessa: l’ex petrolchimico di Gela non rientra nella nota n.60002 del 13 maggio 2008 dell’Inail, che dà seguito a un regolamento attuativo (di poco precedente, ndr) dell’allora ministero del Lavoro, con la quale venivano individuati 15 stabilimenti per i quali estendere il riconoscimento dell’esposizione all’amianto fino al 31 dicembre 2003. Tra questi non è compreso l’impianto di Gela.
Una disparità nota da 12 anni e che non mai è stata sanata. Sarebbe un gesto importante di risarcimento per le famiglie dei lavoratori e per il territorio che dal 2014 affronta una riconversione soltanto narrata, tra bonifiche al palo e crisi occupazionale, con tanti lavoratori che sono stati espulsi dal ciclo produttivo.
«Ho 60 anni, ho cominciato a lavorare allo stabilimento nel 1988 – racconta uno di loro, che svolge la mansione di metalmeccanico – e dal 2015 ho dovuto riprendere a lavorare in giro per l’Europa per poter mantenere la mia famiglia. In tanti sono nella mia stessa situazione. Mi mancano ancora sette anni per la pensione, con il riconoscimento per l’esposizione all’amianto potrei smettere di fare questo lavoro usurante domani mattina.»

A CHE PUNTO SIAMO?
L’ultimo segnale è arrivato da Nuccio Di Paola, deputato all’Assemblea Regionale Siciliana per il M5S. Lo scorso 18 ottobre Di Paola ha incontrato alcuni di questi operai, promettendo loro che si sarebbe occupato del caso. Lo aveva già fatto a marzo del 2018, quando aveva appurato che la legge regionale del 2014 – che prevedeva la mappatura delle zone a rischio, la creazione di centri di stoccaggio nei Comuni e di una centrale regionale per la bonifica e il riutilizzo, l’istituzione di una struttura ospedaliera per la cura dei soggetti contaminati – «non è mai entrata davvero in funzione, perché non c’erano fondi né personale».
Il deputato pentastellato promette di riportare l’ingiustizia subita dagli operai gelesi presso le istituzioni e si mostra propositivo. «La vicenda non è facile, ma il momento è paradossalmente propizio. La pandemia ci sta facendo capire che la salute è una priorità. Col Recovery Fund in Sicilia arriveranno molti fondi che potremmo sfruttare in questo senso, visto che il Piano Regionale Amianto indica la necessità della rimozione e dello smaltimento. Se ne esiste ancora all’interno dell’ex stabilimento petrolchimico, la legge vale anche per lì dentro ovviamente.»
Già, il Piano Regionale Amianto. All’indomani dell’incontro tra Di Paola e i lavoratori dell’ex raffineria, Legambiente ha criticato aspramente l’ultimo provvedimento siciliano.
«Il Piano Regionale Amianto, partorito a quasi 30 anni dalla messa al bando dell’amianto e dopo oltre 6 anni dalla legge regionale n.10 del 2014, continua a mancare di concretezza e praticità del come e dei tempi per realizzare e raggiungere gli obiettivi prefissati così come abbiamo per tempo chiarito con le nostre osservazioni alla procedura VAS. A peggiorare le cose la scelta del tutto incomprensibile dei quattro siti proposti per la creazione dei luoghi di stoccaggio definitivo dei manufatti contenenti cemento amianto. Dei quattro siti tre sono in Sicilia centrale, in un raggio di poco più di una ventina di chilometri, e tutti e tre sono miniere dismesse di sali. Due, in provincia di Caltanissetta, sono quelle di Milena e di Bosco Palo, una, in provincia di Enna, quella di Pasquasia, il quarto sito, invece, è in una cava di Biancavilla ai piedi dell’Etna.» Questo è quanto si legge in un comunicato dell’associazione.
A preoccupare è la concentrazione eccessiva, in un’area sì centrale dell’Isola ma dalla pessima viabilità, che richiederebbe numerosi spostamenti a lungo raggio. Inoltre, i vuoti minerari, afferma ancora Legambiente Sicilia, sono «tutti abbandonati da lungo tempo, non garantiscono alcuna accessibilità e, per almeno due dei tre siti, rimane altissimo il sospetto che i vuoti siano stati utilizzati illecitamente per far scomparire rifiuti ad alta tossicità e probabilmente radioattivi.»
Un rischio ulteriore che si somma alle carenze verso chi, suo malgrado, ha dovuto maneggiare l’amianto. Come è avvenuto alla raffineria di Gela.

L’AMIANTO C’È E SI VEDE
Gli effetti dell’amianto su centinaia di lavoratori locali sono stati spesso al centro di diversi processi, condotti dal tribunale di Gela. La stessa Eni, nel report locale di sostenibilità, afferma che nel 2018 sono stati «smaltiti 154.025 kg di amianto della raffineria. Da un ultimo censimento risulta un residuo pari a 53.755 kg, che si prevede di smaltire entro il 2020».
Appena qualche anno prima, nel 2015, l’allora procuratrice della Repubblica Lucia Lotti era stata ascoltata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Tra foto e slide aveva mostrato voluminosi residui di amianto («mi chiedo se debba arrivare la procura per fare il conteggio dei sacchi d’amianto da smaltire») e discariche a cielo aperto («una l’abbiamo trovata completamente scoperta, con i cani morti dentro»).
Come a dire: di amianto all’interno dell’ex stabilimento petrolchimico ce n’è ancora parecchio. Chi è restato a lavorare in raffineria, anche se non a tempo pieno, è Ciccio Cacici, segretario provinciale dell’Ugl metalmeccanici. Fautore dell’incontro con Di Paola, ha promosso una serie di richieste al governo tra le quali il sopralluogo di una commissione regionale (o Sanità o Ambiente) che accerti la rimozione dell’amianto presso la raffineria di Gela e alla quale dovrà essere indicato il luogo dove questo è stato stoccato; il riconoscimento dell’esposizione anche a chi ha presentato domanda in ritardo e indipendentemente dalla continuità del periodo di esposizione (che la legge indica in 10 anni).

LE CARTE A FAVORE
La beffa forse maggiore è che ci sono ex dipendenti della raffineria di Gela ai quali, singolarmente, il riconoscimento dell’esposizione all’amianto è stato esteso fino al 2003, come nel resto d’Italia. È il caso ad esempio di Rocco Farruggia. Nella sentenza n.188 del 2018 la Corte d’Appello del tribunale di Caltanissetta condanna l’Inps a «rivalutare l’anzianità contributiva del ricorrente mediante l’applicazione del coefficiente 1,5 nei limiti del massimo di contribuzione» dal 1988 al 2013. Soprattutto, viene ribadito che se la presenza dell’amianto viene accertata – nel caso di Farruggia è stato fondamentale l’accertamento di un consulente della procura – il riconoscimento va esteso anche ai siti non indicati dal governo nazionale. Insomma: come al solito la giustizia prova a tappare le falle della politica.
Salvatore Granvillano, presidente della sezione locale dell’Osservatorio Nazionale Amianto, sottolinea che «la legge del 2014 prevedeva già lo stanziamento di 21 milioni di euro per la mappatura, il censimento e le bonifiche dell’amianto. All’articolo 8 era stabilito che 5 milioni di euro sarebbero stati destinati all’ospedale Muscatello, di Augusta, per effettuare lo screening dei lavoratori sottoposti all’amianto e per amplificare il nosocomio che rischiava di chiudere. L’ideatore della legge, il deputato Pippo Gianni, ci aveva assicurato che parte di quei soldi sarebbero stati destinati a Gela, per poter effettuare in loco lo screening. Ho provato personalmente a coinvolgere la politica locale.»
Ma c’è di più. La documentazione per lo scivolo previdenziale dei lavoratori sottoposti all’amianto esiste già, assicura Granvillano. Ed è stata depositata alla Commissione Ambiente e Territorio nel 2015.
«Un altro parlamentare dei Cinquestelle, Giampiero Trizzino, ci aveva promesso un atto di indirizzo. I soldi c’erano, erano stati stanziati, ma l’Agenzia regionale per la protezione ambientale ha comunicato in quell’occasione che quelle somme sono state destinate all’acquisto delle centraline per il rilevamento delle polveri sottili. Ma quanto costano queste centraline? E perché i soldi destinati ai lavoratori sono stati dirottati altrove?»
D’altra parte esiste persino un registro ufficiale dei lavoratori sottoposti all’amianto, elaborato dall’Ona e consegnato all’Ispettorato del Lavoro di Caltanissetta, insieme a una certificazione dell’Asp inoltrata all’Inail.
«Purtroppo tanti continuano ad ammalarsi – aggiunge Granvillano – e la situazione non è semplice. Anche se l’emergenza Covid è la priorità è importante comunque che possano ripartire gli screening sui lavoratori esposti e che possa venire finalmente colmato il buco previdenziale. Quello che chiediamo alla politica è di attuare soltanto ciò che le norme già prevedono».

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Autore:

Giornalista freelance. Collabora da anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco. La Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 il libro “La città a sei zampe”, un ibrido narrativo che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. È coautore dell’e-book “Follow the green. La narrazione di Eni alla prova dei fatti”. Ha fondato la sezione siciliana dell’associazione A Sud.