Il ghetto di Tre Titoli, nelle campagne di Cerignola, è un luogo – come tanti altri in Italia – in cui si infrangono le leggi che governano la sanità, la ragione e, persino, l’umanità. Qui restano saldamente in piedi solo i sacri dogmi dell’economia capitalista, quelli che governano il mercato. Quel mercato che trasforma l’uomo in bene di consumo. Carne da macello.
Un agglomerato di favelas sparpagliate tra i campi battuti dal sole. Una strada sterrata, usurata dal tempo e dall’incuria. Qualche cisterna d’acqua dislocata alla meglio per sopperire all’emergenza idrica. Poco più in là, una croce simbolo di un Dio che vede e non giudica. Subito dietro, una costruzione nuova di zecca in cemento e muratura. La chiesa, circoscritta entro un’ampia cancellata bianca, sembra voler celare la vergogna che la circonda. Ma non può, non è abbastanza. Questo è il ghetto di Tre Titoli a Cerignola, in provincia di Foggia. Questo è l’universo in cui si produce buona parte del made in Italy. Pomodori, olive da olio, asparagi, uva da vino. I prodotti della terra si arrendono, docili, alle mani esperte degli schiavi della modernità. Che sia inverno o estate, il sole sorge e tramonta sempre allo stesso modo nella baraccopoli. Non c’è ieri, non c’è oggi e, soprattutto, non c’è domani.

Foto: L’ingresso della costruenda chiesa cattolica del ghetto. Fortemente voluta dalla diocesi per realizzare un punto d’incontro e di evangelizzazione, in una realtà difficile quale quella di Tre Titoli rischia di trasformarsi in una cattedrale nel deserto // Emma Barbaro
UNA CATTEDRALE NEL DESERTO
Duecentocinquanta persone in condizioni di ‘normalità’. Numeri che sfiorano le duemila unità quando le esigenze di manovalanza agricola tra i tratturi pugliesi si fanno più pressanti. Il ghetto di Tre Titoli, a Cerignola, è un agglomerato di abitazioni sparse. Baracche e vecchi ruderi in muratura, in cui vivono stipate anche venticinque o trenta persone alla volta, giacciono affastellate come uno strano mosaico intessuto d’emergenza.
«Qui manca qualsiasi cosa, le criticità sono evidenti», afferma il dottor Domenico Guercia, vicepresidente e volontario del Rotary Club di Cerignola. «Oggi, per fortuna, siamo riusciti a garantirgli l’acqua potabile. Ma non tutti i giorni. La situazione è decisamente migliore rispetto a qualche anno fa quando l’acqua veniva trasportata, una volta ogni dieci giorni, sulle autobotti pericolanti messe a disposizione dalla Regione Puglia. Tuttavia», aggiunge, «permangono altri tipi di problemi. C’è quello sanitario, quello relativo alla gestione dei rifiuti che come vede vengono ammassati alla meglio e, successivamente, dati alle fiamme, quello della prostituzione. Ebbene sì. Vi sono alcune ‘casette problematiche’ in cui giovani donne sono costrette a prostituirsi. Realtà a cui afferiscono tanti italiani provenienti dai paesi limitrofi. Di sera queste strade sono particolarmente trafficate. E lei capisce bene che in totale assenza di controllo e di illuminazione notturna, queste ragazze vengono praticamente abbandonate al proprio triste destino.»
Però c’è la chiesa. Un edificio bianco in cemento e muratura, tuttora in corso di realizzazione, che occupa in estensione una superficie di circa 600 metri quadrati. Circondata da un’ampia cancellata bianca, la struttura è composta da piano terra, un piano sopraelevato e un terrazzo. La croce, alta più di 8 metri, è stata collocata sul ciglio della strada come un appello mistico a una religiosità perduta. «Noi del Rotary operiamo in questo territorio ormai da qualche anno», prosegue il dottor Guercia. «Qualche mese fa la Curia ha deciso di realizzare questa struttura, una chiesa, per creare una sorta di punto d’aggregazione. Della costruzione si sta occupando un’azienda di Cerignola, ma non mi chieda il nome perché non lo conosco. Noi, chiaramente, non facciamo parte di questo processo di evangelizzazione. Tutto ciò esula dai nostri compiti. Noi facciamo volontariato, le nostre iniziative sono precise, limitate nel tempo e hanno un chiaro obiettivo sanitario. Per la chiesa il discorso chiaramente cambia. Sarò sincero con lei», prosegue, «ritengo che un insediamento del genere, in questo luogo, sia solo un modo per sprecare soldi. E invece ci sarebbe tanto altro da fare. Prima di realizzare una struttura come questa si sarebbe dovuto tenere in debita considerazione il problema della temporaneità dei flussi. I ragazzi si spostano a seconda della domanda di lavoro: oggi ci sono, domani non si sa. In più, come è spesso accaduto in altre realtà afferenti alla provincia di Foggia, questi ghetti vengono costantemente smantellati per poi rinascere all’evenienza. Ma sempre se c’è domanda di lavoro. Se questa iniziativa della Curia fosse stata affiancata da un’azione di reale urbanizzazione, coordinata con le istituzioni, fatta di raccolta dei rifiuti, approvvigionamento idrico costante, illuminazione notturna, forse questi ragazzi avrebbero potuto pensare di stabilirsi e avere un punto di riferimento reale. La mission della Chiesa, in generale, è quella dell’evangelizzazione. Noi, invece, come società civile ci poniamo il problema della socializzazione, dell’urbanizzazione, della pulizia, della salute. Insomma, siamo lontani nelle priorità. Personalmente ho partecipato a tante missioni umanitarie: in Kosovo, in Albania, in altri Paesi dilaniati da fame e guerra. Ma le missioni si portano avanti in maniera diversa, ecco. Prima si crea o si rinvigorisce un tessuto sociale, poi si pensa a insediare realtà del genere. Si intercetta una domanda reale, che esiste già, anziché illudersi di creare una domanda, peraltro religiosa, dal nulla. Poi, poco più in là c’è una chiesa rurale che giace in uno stato di completo abbandono. Perché non ripristinare quella anziché realizzarne una ex novo? Non capisco. Questa qui», conclude, «rischia di restare quel che è: una cattedrale nel deserto.»
Intervista al dottor Domenico Guercia
CARITAS VS MIGRANTES: LONGA MANUS ECCLESIAE
Al principio fu il caos. Da cui, in una realtà critica come quella del ghetto di Tre Titoli, non si è generata alcuna spinta propulsiva verso il raggiungimento dell’obiettivo primario: il miglioramento delle condizioni di vita di questi uomini e donne giunti in Italia con il sogno di un futuro diverso. «Al vertice», spiega ancora il dottor Guercia, che ha il polso della situazione «c’è una gran confusione tra Caritas e Migrantes. Queste due associazioni, che prima andavano di pari passo, adesso non procedono più allo stesso modo. Diciamo che la gestione delle criticità relative ai migranti ora appare confusa. Quelli di Migrantes fanno attività di proselitismo. Quelli della Caritas, in teoria, svolgono invece attività di socializzazione: fornire i pasti, assistenza sanitaria, etc. Il risultato, però, è che al momento entrambe fanno poco o nulla. Ora, io non so se ci sia più bisogno dell’una o dell’altra. Ma le esigenze di queste persone sono reali, esistono. In Puglia non si parla di queste cose, non puoi parlare di queste cose. Io, invece, non me ne vergogno. Del resto, sono cose che ho sempre detto e che non mi stancherò mai di continuare a ribadire.»
Dunque, le diatribe interne a due associazioni cattoliche vengono risolte alla radice dalla Curia per mezzo di una struttura, definita chiesa, che sulla carta mette d’accordo tutti. O quasi.
«Il vescovo l’ha definita ‘la piazza dell’incontro’», dice orgoglioso don Claudio Barboni della diocesi di Cerignola. «I ragazzi ci tengono molto a questo punto di riferimento. Perché, per loro, la chiesa significa centrare l’attenzione e gli interventi del comune su una realtà che altrimenti resterebbe nascosta.»
«Avete previsto delle azioni specifiche per arginare i fenomeni di disagio sociale? E, in particolare, per la questione della prostituzione, specie quella minorile?», chiedo interrompendo il flusso di pensieri di don Barboni.
«Ma no, qua non pensiamo a mettere delle etichette. Ci sarà un punto di alfabetizzazione, un punto di raccolta per lo screening sanitario, nei container in cui opera il Rotary, un luogo in cui fare la doccia. Sa, a volte al pronto soccorso non accettano i migranti perché sono così sporchi. Abbiamo acquistato anche un pozzo per distribuire l’acqua. Poi ci sarà un punto di svago, con campi di calcio o di pallavolo. Non sarà un centro d’accoglienza, ce ne sono già tanti. Sarà la piazza dell’incontro, una novella agorà.»
Ma davvero i migranti ‘ospiti’ del ghetto mostrano questa significativa tensione emotiva verso la nuova chiesa e tutto ciò che rappresenta? «Io vengo di Ghana, ho due fili piccoli», racconta Fatima, una voce fuori dal coro. «Qua munnizia, tutto sporco, manca acqua, ci sono povere ragazze che fanno prostitute per pochi soldi. Io sto qua da 2002, proprio qua, in campania. Prima lavoro bene, ora no lavora tanto. Qua manca tutto, per pacco di pilloli per me paga 20 euro quanto paga padrone in campania. No volio giocare con pallone, volio acqua per lavari. Sono una donna, fa caldo, volio lavari. Qua bisogno di tutto. Aiuta me, giornalista, help me. Qua malattia. Aiuta me, per favori.»
Intervista al dottor Domenico Guercia e la testimonianza di Fatima
WATER-GATE
«Ma il comune porta l’acqua tutti i giorni ormai», la interrompe Vincenzo Limosano, portavoce dei Medici col Camper, un gruppo di volontari che presta assistenza sanitaria in molteplici ghetti che costellano la provincia di Foggia. «Prima non era affatto così, ora la situazione è molto diversa. È molto migliore rispetto al passato. Non dovete dire bugie.»
«Allora», si arrabbia Fatima, «tu diri a me perché ieri venuti a portare metà acqua e oggi non venire proprio. Qua ci stanno quelle cose grandi dove comune mette acqua (le cisterne, ndr). Ma ieri riempito solo metà, no tutto. Oggi nienti. Troppo poco. Qua gente viene di case in campania, quelle che no si vedono. Viene tanti ragazzi, tanti persone perché non c’è acqua. Acqua poca e viene a prendere qua. Così acqua sempre poca per tutti quanti e nessuno può lavari. In 2006 mio fratello di Ghana morire dentro acqua. Hai capito, giornalista? Do you understand?», grida con rabbia.
«In pratica», mi spiega il dottor Guercia, «alcuni ragazzi erano andati a recuperare l’acqua nei vasconi per l’irrigazione. Purtroppo due di loro annegarono perché non sapevano nuotare. Non si è potuto far nulla per salvarli. Pensi che all’inizio le autobotti regionali non riuscivano a transitare perché la strada, come vede, è eccessivamente dissestata. L’anno scorso siamo stati costretti a chiamare il direttore generale dell’Acquedotto Pugliese, tramite alcuni amici del Rotary, per consentire il trasporto di acqua in condizioni di sicurezza. Ora, almeno, siamo riusciti a fargli avere dei serbatoi nuovi. In quelli di prima l’acqua entrava da sopra e usciva da sotto. E gli unici serbatoi disponibili sono quelli che vede, qui sulla strada. In totale sproporzione rispetto agli insediamenti abitativi e ai numeri che, ricordo, in estate toccano le duemila unità. Molto spesso i ragazzi si azzuffano tra loro per l’acqua. La situazione è drammatica. Di certo, è migliore rispetto a quella di altre realtà. Ma questa non può essere una scusa per chiudere gli occhi e fingere che sia tutto normale», conclude.

Foto: Fatima dà sfoggio dell’orticello creato, insieme ad altri abitanti del ghetto, a ridosso della propria abitazione // Emma Barbaro
BUSINESS ALL’ITALIANA
I migranti sono un business. Non già persone, ma montagne di soldi che camminano su un paio di gambe stanche. Alcuni di loro mi raccontano che i ‘padroni’, come tristemente continuano a chiamarli, arrivano di mattina presto per portarli sui luoghi di lavoro. Le campagne del vino, dell’olio, della passata di pomodoro. Li assumono per 20 o 25 euro al giorno, quando tutto va bene. A volte, anche per molto meno. Il prezzo viene stabilito in base al genere e all’età. Se sei una donna, non puoi sperare in più di 3 euro a cassone. Se sei un uomo adulto, il prezzo si aggira attorno ai 4/4,50 euro. Se sei un ragazzino, beh, hai un valore economico che è persino inferiore a quello di un chilo di pomodori al mercato rionale. Le spese per il trasporto sui luoghi di lavoro oscillano tra i 3 e i 5 euro procapite. Questo vuol dire che se il padrone riesce a trasportare in campagna anche dieci persone alla volta avrà ottenuto, a inizio giornata, un guadagno che va dai 30 ai 50 euro.
Poi c’è la questione abitativa. Si paga per ottenere i materiali di risulta con cui costruire le baracche di fortuna. Si paga per i teloni blu che fungono da rivestimento. Si paga per i mattoni. Si paga per occupare i vecchi casolari abbandonati, a un prezzo mensile che sfiora i 200 euro esentasse. E quando non si può pagare, si ruba. Una lotta per la sopravvivenza che non fa sconti. A nessuno.
«Oggi siamo tanti, troppi», commenta Christian, un lavoratore polacco che vive a Cerignola da quasi 20 anni. «Pomodoro, per esempio, dipende dalla stagione. Se la stagione non è buona, poco lavoro per tutti. Prima si stava un poco meglio perché non eravamo assai. Oggi diverso. Oggi per togliere salamenti da uva pagano 100 euro per ettaro. Ma se in un ettaro lavorano pure 8 persone, mi dici tu quanto guadagno a fine giornata? Si deve dire verità, non è che padrone non paga. Paga pure, ma paga troppo poco rispetto a lavoro. Noi ha fame.»
Fame di giustizia, prima ancora che di cibo. «Io faccio ristorante in ghetto», mi racconta invece Ibrahim. «Oni giorno compra pecora da padrone italiano. Lui porta qua. Io paga 100 o 200 euro oni giorno, dipende quanto vecchia pecora. Ma no importante. Io ammazza, poi tutti quelli che può pagare mangia. Quelli che no può pagare, no mangia. Qua tutto pagare. Io comprare legna 30 euro da padrone italiano, ma oni tanto prende in campagna. Rubo un po’ perché soldi pochi, ma ho paura. Qua sparano per nienti. Se italiano vede succede problemi. Qua tutto pagare hai capito? Vuoi mangiare? Uno kg pecora 5 o 10 euro. Con brace, un pezzo (uno spiedino, ndr) 2 euro. Così è. Io mette pure sale, comprato sale, comprato tutto. No regalo, pagare», aggiunge.
La testimonianza di Christian, lavoratore polacco, a Cerignola da 20 anni
La testimonianza di un immigrato ghanese, in Italia da 8 anni
THE WALKING DEAD
Poi, d’un tratto, arriva lui. Un derelitto tra i derelitti. Cammina a tentoni, con gli occhi spalancati per riuscire a captare la luce in un mondo che per lui è solo ombra. Non riesco a comprendere il suo nome. Ma riesce a dirmi, parlando esclusivamente in inglese, che viene dal Ghana. La sua storia è piuttosto semplice, quasi banale nel contesto in cui vive. Ha problemi di pressione oculare. Ora non vede più. «Quando sono venuto dall’Africa, otto anni fa, non avevo problemi agli occhi», mi spiega. «Un anno fa ho iniziato ad avere problemi. Sono andato in ospedale e il dottore mi ha detto che avevo bisogno di un’operazione. Ma non ho fatto l’operazione, non potevo. Allora il dottore mi ha dato delle gocce per gli occhi, ma poi le ho finite. Ora non le posso più comprare, non ho soldi. Io non vedo e sono disperato. Soffro, ma non perché non vedo. Soffro perché non posso più lavorare.»
«Ma perché non parli con noi?», gli chiede il dottor Guercia. «Vede, lui ha un glaucoma, ha un occhio esterno», mi chiarisce. «Dovrebbe utilizzare delle gocce ogni giorno, altrimenti non può vedere. Rischia un distacco di retina, a meno che non ci sia già stato. Perché non ti fai aiutare da noi?», gli domanda ancora il medico.
«Non ho soldi per farmi visitare ancora, ma ho bisogno di aiuto», risponde.
«I soldi non c’entrano nulla, devi parlare con noi perché un po’ possiamo aiutarti. Possiamo far venire qui uno specialista, trovare delle gocce per i tuoi occhi. Capisci?»
«Ma perché non può andare da uno specialista in ospedale?», domando ingenuamente al dottor Guercia.
«Il problema è che spesso loro si abbandonano. E fra loro non c’è nemmeno molta solidarietà. Se uno ha un problema spesso non viene aiutato, ma abbandonato. C’è stato un morto qui qualche tempo fa. Lo abbiamo fatto ricoverare due volte in ospedale. Ma lì non c’è voluto rimanere. È tornato per morire qui, sotto a una tenda.»
«Di cosa è morto?»
«Di tutto. Era stato ricoverato per il diabete molto alto ma poi è praticamente morto di stenti. Loro muoiono così. Muoiono anche di glaucoma e di abbandono. Non hanno la solidarietà di nessuno, neanche dei loro amici. Qui vige la legge della giungla. Il debole resta indietro, gli altri vanno avanti e non si fermano certo per aiutarlo. Quel che mi fa rabbia è che loro avrebbero diritto a un codice sanitario nazionale per gli immigrati. Ma non glielo danno. Quindi i medici volontari non possono prescrivere nulla, né medicine né visite specialistiche. Qui viene anche un’agenzia per l’immigrazione, ma nulla cambia e tutto resta sempre uguale. Ad oggi non riusciamo ancora a ottenere che l’Asl conceda questi benedetti codici sanitari. Loro vanno all’Asl e, dopo aver stazionato lì per mezza giornata o più, tornano indietro a mani vuote. Questo è un grosso problema, enorme. Perché se io potessi prescrivergli una visita oculistica e lui potesse andare in ospedale a farsi controllare da un oculista una volta ogni 15 giorni, o anche una volta al mese, oggi non starebbe in queste condizioni. Se io potessi prescrivergli farmaci, la situazione non sarebbe questa.»
E, d’un tratto, tutti restiamo in silenzio. Perché a farla da padrone, in quest’antro infernale, è il senso d’impotenza.
- Foto: Un uomo, di ritorno dal lavoro nei campi, si dirige verso “casa”. Nel ghetto di Tre Titoli // Emma Barbaro
- Foto: Un uomo esce dall’ingresso principale de “la baracca dei 10” // Emma Barbaro
- Foto: Perimetro di un’abitazione del ghetto condivisa da 10 persone tra donne e uomini // Emma Barbaro
- Foto: Una finestra sul bar del ghetto di Tre Titoli. Alcuni migranti ascoltano attenti le parole del dottor Limosano // Emma Barbaro
- Foto: I giornalisti del Frankfurter Allgemeine Zeitung intervistano il dottor Vincenzo Limosano, esponente dei “medici col camper”, i volontari che prestano assistenza medica in alcuni ghetti che costellano la provincia di Foggia // Emma Barbaro
- Foto: Particolare del forno esterno della cucina di Ibrahim // Emma Barbaro
- Foto: La pecora è stata appena sgozzata. Soddisfatto, Ibrahim si prepara alla fase successiva: dovrà scuoiarla per poi eliminarne le parti che non potranno essere cucinate // Emma Barbaro
- Foto: L’ingresso della costruenda chiesa cattolica del ghetto. Fortemente voluta dalla diocesi per realizzare un punto d’incontro e di evangelizzazione, in una realtà difficile quale quella di Tre Titoli rischia di trasformarsi in una cattedrale nel deserto // Emma Barbaro
- Foto: Fatima dà sfoggio dell’orticello creato, insieme ad altri abitanti del ghetto, a ridosso della propria abitazione // Emma Barbaro
- Foto: Il fotografo del “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, Riccardo, fissa alcuni particolari del bagno comune esterno. Tra i cumuli di rifiuti si aggira, piuttosto impacciata, la nostra Fatima // Emma Barbaro
- Foto: Particolare di una favela nel ghetto di Tre Titoli. Sullo sfondo i servizi igienici esterni // Emma Barbaro
- Foto: Fatima ci mostra un’area interna della casa. “Non posso dormire qua, non riesco a vivere così. Aiuto, aiuto!” grida // Emma Barbaro
- Foto: Lato B della baracca di Fatima. I punti di accesso esterni sono due. Dall’interno, invece, la cucina in pietra comunica con l’area notte. In primo piano gli strumenti da lavoro logori e arrugginiti // Emma Barbaro
- Foto: Una pila di piatti sporchi. “Non posso sempre lavarli,” spiega Fatima. “Acqua poca e serve per lavare me. Mangio in piatti sempre sporchi,” aggiunge // Emma Barbaro
- Foto: Particolare interno del cucinino. Il telone blu, adagiato sugli assi di legno che si intersecano per formare il tetto, rende l’aria irrespirabile in estate // Emma Barbaro
- Foto: L’ingresso nella cucina in pietra di Fatima // Emma Barbaro
- Foto: “Segnali di vita nei cortili”. Panoramica dell’abitazione di Fatima, una donna gambiana arrivata in Italia nel 2002 // Emma Barbaro
- Foto: Particolare di una baracca in legno. Il tetto è stato impermeabilizzato con teloni blu raccattati tra i bidoni dell’immondizia // Emma Barbaro
- Foto: Sulla sinistra, una delle migliori baracche in cemento del ghetto. Più a destra, una favela realizzata con lamiere e copertoni. La “guerra tra poveri” si concreta anche attraverso le criticità abitative // Emma Barbaro
- Foto: Un giovane gambiano preleva l’acqua da una cisterna sita nella parte esterna del ghetto di Tre Titoli. Il Comune di Cerignola si preoccupa dell’approvvigionamento idrico in loco ogni 2-3 giorni // Emma Barbaro
TRA I TRATTURI DELLA POVERTÀ MORALE
Il ghetto di Tre Titoli è una sintesi perfetta. Un luogo, come tanti altri in Italia, in cui si infrangono le leggi che governano la sanità, la ragione e, persino, l’umanità. Qui restano saldamente in piedi solo i sacri dogmi dell’economia capitalista, quelli che governano il mercato. Quel mercato che trasforma l’uomo in bene di consumo. Carne da macello. In questo ghetto ho trovato una chiesa costruita dagli uomini, per gli uomini. Non già casa di Dio o, almeno, non di quello in cui io credo. A Tre Titoli, infatti, Dio guarda attraverso gli occhi spenti di un uomo che ha fame di lavoro. Vaga tra i tratturi, tra schiavi e padroni. È in una donna costretta a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Si fa forza nelle giunture spezzate di chi lotta, quotidianamente, per un tozzo di pane. È nella sete di giustizia di Fatima. In quelle morti che hanno come mandanti l’indifferenza. In quelle vite spezzate da un futuro che non sarà.
Credo di aver visto Dio, tra quelle baracche, tra quelle anime fragili. E di averlo perduto in quella chiesa, in quel punto di aggregazione forzato che non intercetta una domanda ma pretende di generarla da sé, costi quel che costi. Mi sono chiesta quale sia il prezzo della diatriba tra associazioni concorrenti e se, per portare Dio in mezzo ai tanti che lo invocano, in una babilonia di lingue diverse, sia davvero necessario sperperare fondi per realizzare una poderosa struttura in cemento e mattoni. Mi sono domandata, ancora, come si possa pretendere di aiutare, a partire dalle istituzioni, chi si sceglie di non vedere. Poi, insieme ad altri, ho iniziato a vagare in mezzo a loro, tra i morti che camminano. La povertà, male antico della nostra bella terra, è ben peggio di una guerra. Perché uccide a poco a poco, giorno dopo giorno, spegnendo la dignità d’essere uomo. Ho compreso che, in fondo, si possiede davvero solo ciò che si dona. Che la vera felicità sta nella semplicità del dare tutto quel che si può. Che siano cure mediche, acqua, cibo, vestiti o un po’ di pazienza e d’ascolto. E per farlo, forse, non serve una chiesa e una croce. Ma, talvolta, bastano due braccia e un sorriso.