I conflitti che insanguinano Congo e Sudan negli ultimi mesi sono solo gli strascichi di faide interne dal sapore antico. Paesi spaccati a metà, ciascuno con le proprie etnie e le proprie rivendicazioni. Segnati inevitabilmente dallo sfruttamento, operato dalle multinazionali, di risorse strategiche come il coltan, i diamanti, l’oro e il petrolio. Bambini soldato, stupri di massa, lotte fratricide, lavoro minorile. Guerre civili, senza esclusioni di colpi.
Oggi, le uniche speranze di risoluzione sono affidate alle mediazioni della Chiesa cattolica, delle Ong presenti sui territori e delle Nazioni Unite. Che operano nel tentativo di far luce sui genocidi di massa perpetrati a danno delle popolazioni residenti. Per restituire garanzie di rispetto dei diritti umani alle migliaia di profughi che fuggono alla ricerca di libertà e giustizia.
GEOGRAFIA DELL’ORRORE
I sedici funzionari Onu sequestrati in Congo il 18 aprile scorso ora sono liberi. Erano stati catturati dagli ex ribelli del Sud Sudan – provenienti dal campo profughi di Munigi – nell’est del Paese. Destino diverso per i due delegati delle Nazioni Unite ritrovati senza vita, nel Kansai, il 29 marzo. Michael Sharp e Zaida Catalan – questi i loro nomi – sono stati assassinati insieme ad un interprete congolese, Bete Tshintela. Stavano indagando sui presunti abusi commessi dalle milizie antigovernative attive nella zona. Solo qualche ora prima erano stati trovati i corpi mutilati di 40 agenti di polizia.
L’1 aprile la Conferenza episcopale congolese ha espresso preoccupazione per la repressione dei seguaci di Kamuina Nsapu, ucciso lo scorso agosto nel Kasai. Secondo i vescovi l’uso della forza armata per reprimere il dissenso danneggia il dialogo necessario a superare il conflitto. Qualche giorno prima, Radio France International diffonde tre video sulle violenze in Kasai. In uno di questi sette soldati sparano su civili sospettati di essere seguaci di Nsapu. Sono oltre 400, infatti, i cittadini massacrati a partire dall’agosto 2016.
Mentre l’Alto Commissario delle Nazioni Unite, Zeid Ra’ad Al Hussein, annuncia al mondo che sono state scoperte 40 fosse comuni. Le ultime 17 in queste ore. Sono i numeri di un bilancio drammatico, destinato a crescere sotto il segno dell’indifferenza.
TENTATIVI DI MEDIAZIONE GEOPOLITICA
Alle violenze nel Kasai – che finora hanno provocato un’emigrazione interna di oltre 200 mila profughi, ovvero civili che fuggono spostandosi in altre aree dello stesso Paese – si aggiungono le proteste secessioniste nel Katanga, nell’Ituri e nel Kivu. ”Da Kinshasa al Nord-Kivu, passando per il Kasai, chiese, conventi e scuole cattoliche vengono vandalizzate, saccheggiate e attaccate da banditi armati o da ribelli”, denuncia Cepadho, una Ong attiva nel Nord Kivu.
Secondo l’organizzazione non governativa i ripetuti e frequenti attacchi vanno interpretati come una sorta di vendetta trasversale nei confronti dell’impegno ecclesiastico per la fine della guerra civile. Il 27 marzo scorso si era giunti ad un passo dalla firma dell’accordo tra le varie fazioni politiche. Ma nelle ore successive tutto è saltato. Con la rinuncia, da parte della Conferenza Episcopale congolese, al suo ruolo di mediazione.
L’incontro del 28 marzo tra il presidente congolese Joseph Kabila e i vescovi ha riaperto le possibilità di trattativa. L’8 aprile Kabila nomina primo ministro Bruno Tshibala, membro dall’Unione per la democrazia e il progresso sociale. Un incarico largamente contestato nelle stesse fila del partito in cui il neo premier aveva militato e da Rassemblement, la principale coalizione di opposizione del Paese.
”Questa nomina – ha dichiarato alla radio congolese Okapi Jean-Marc Kabund, il segretario generale dell’Udps – arriva in un momento molto teso. Il popolo congolese attende che venga applicato l’accordo del 31 dicembre 2016, che resta l’unico quadro legale e legittimo per le istituzioni della Repubblica. La nomina è in contrasto con l’intesa. E da quello che ho sentito, nel decreto di Kabila non viene citato affatto l’accordo dello scorso 31 dicembre.”
Kabund ha concluso la sua dichiarazione invitando i cittadini a non scendere in piazza e a mantenere la calma. L’Udps continuerà a battersi per chiedere l’attuazione del concordato.
L’obiettivo resta quello di nuove elezioni presidenziali entro la fine dell’anno.
A onor del vero, il tentativo di andare al voto per eleggere il nuovo capo dello Stato c’era già stato nel novembre scorso. Grazie alla mediazione dei vescovi cattolici. Il rinvio, in quel caso, era stato giustificato dall’assenza delle condizioni politiche necessarie e dal mancato aggiornamento dell’anagrafe elettorale.
Kabila, attualmente, ha all’attivo già due mandati presidenziali. E la Carta costituzionale congolese non consente una sua ulteriore elezione. Già nel maggio 2016 il presidente aveva tentato di modificare questa norma costituzionale per conservare, di diritto, l’esercizio del potere. Pur non essendoci riuscito, il Parlamento ha tuttavia varato una legge che gli consente di mantenere la carica fino all’elezione del suo successore. Elezione attesa, dunque, ma non ancora concretizzatasi.
In un clima politico che a settembre, dopo un ulteriore rinvio, è sfociato in proteste di massa in tutto il Paese. Seguite da altrettante repressioni.
ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO
Il 1994 è l’anno del genocidio ruandese. Due milioni di Hutu fuggono dal Paese per raggiungere lo Zaire, tornato poi Congo per volontà del presidente Kabila, solo tre anni dopo.
Insieme ai rifugiati, i guerriglieri danno inizio a una vera e propria caccia all’uomo nei confronti dei Tutsi congolesi. Che, per tutta risposta, si alleano con gli oppositori del dittatore Mobutu Sese Seko costituendo l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione dello Zaire.
Sostenuti da Uganda, forze ruandesi e Angola, sotto l’egida di Laurent Desirè Kabila, padre dell’attuale presidente. Secondo fonti Onu, durante l’avanzata dell’esercito guidato da Kabila, sarebbero stati massacrati quasi 60 mila civili. E mentre il dittatore spodestato, Mobutu, nel maggio 1997 fugge in Marocco – dove muore solo 4 mesi dopo -, Kabila si autoproclama presidente e avvia una violentissima repressione nel Paese.
Nel luglio 1998 il neopresidente ordina a tutte le forze militari ugandesi e ruandesi di lasciare il Congo. Il gruppo etnico Banyamulenge, temendo di essere oggetto di una nuova persecuzione a cui non avrebbe saputo come reagire senza la protezione dei militari ruandesi, si ribella. Col pronto sostegno del Ruanda. È il 2 agosto 1998.
L’Uganda si unisce ai ribelli e insieme danno vita al gruppo armato denominato Raggruppamento congolese per la democrazia. Che si espande rapidamente nelle province orientali con la conquista delle città di Bukavu e Uvira, nella regione del Kivu.
Nel frattempo il Burundi occupa una parte del Congo. Mentre Kabila arruola militanti Hutu del Congo orientale e fomenta l’opinione pubblica contro i Tutsi. Radio Bunia il 12 agosto dello stesso anno trasmette l’ordine di un maggiore dell’esercito di Kabila di <>
Il Ruanda chiede l’annessione di una parte del Congo orientale, considerato il cosiddetto Ruanda storico. L’Uganda, che continua a sostenere il Raggruppamento congolese per la democrazia, promuove la nascita del Movimento per la liberazione del Congo. Ma l’offensiva anti Kabila si arresta dopo l’intervento di Namibia, Zimbabwe, Angola e, successivamente, Ciad, Libia e Sudan. A gennaio e agosto 1999, alcune delle fazioni in conflitto firmano due accordi per il cessate il fuoco. Il tentativo, tuttavia, si rivela vano.
SOTTO IL SEGNO DEL COLTAN
Il 16 gennaio 2001 muore durante un agguato il presidente Kabila. A cui, in un eccesso di democrazia, succede il figlio Joseph.
L’attuale e contestato presidente. Il primo trattato di pace viene siglato da Ruanda e Congo, a Pretoria – in Sudafrica – il 30 luglio 2002. A settembre è la volta di Congo e Uganda. Infine, il 17 dicembre, le fazioni congolesi coinvolte nel conflitto firmano un accordo con l’obiettivo, entro due anni, di riportare la pace nello Stato. Una pace che si sedimenta come un gigante dai piedi d’argilla.
Poco più di un anno e mezzo dopo, nel maggio 2004, le ostilità riesplodono nel Kivu. Laurent Nkunda, ex generale dell’esercito, occupa la città di Bukavu insieme alle milizie Tutsi.
L’obiettivo dichiarato è la difesa dei Tutsi da nuovi massacri perpetrati dagli Hutu. In realtà vengono occupate le più importanti miniere di coltan – materiale strategico per la realizzazione di cellulari e apparecchi hi-tech – e il Parco nazionale dei Virunga.
Gli interessi che animano le milizie armate che insanguinano il Congo – tra i primi produttori mondiali di coltan – sono in larga parte riconnessi allo sfruttamento di questo prezioso minerale.
“Nel 2000 il 60-70 per cento del coltan esportato dal Congo viene estratto sotto il diretto controllo dell’esercito ruandese – denuncia nel 2011 il rapporto Coltan insanguinato, curato dai Missionari Saveriani e dalla Rete pace per il Congo – per essere trasportato a Kigali, la capitale del Ruanda. I destinatari finali sono Stati Uniti, Germania, Belgio e Kazakistan.”
Moltissime multinazionali (Nokia, Ericsson, Siemens, Sony, Bayer, Intel, Hitachi e IBM) hanno acquistato il coltan da società legate a gruppi militari ribelli.
Secondo fonti Onu nelle miniere vengono sfruttati anche bambini di 5 anni. Mentre le bambine della stessa età sono schiave del sesso nei bordelli circostanti. Stupri di massa e abusi di ogni genere sono la regola. Oltre l’80 per cento dei minatori ha meno di 16 anni. Ma esistono miniere illegali in cui si sfiora il 100 per cento. La metà, ne ha meno di 12. I bambini sono costretti a lavorare per pochi centesimi di dollaro. Anche per 15 ore al giorno. Molti di loro perdono la vita (sono migliaia ogni anno) o restano gravemente mutilati. In questo contesto, il primo accordo di pace tra Nkunda e il governo viene siglato il 23 gennaio 2008. Ma soli nove mesi dopo l’ex generale lancia violentissimi attacchi contro diversi villaggi del Nord Kivu. Nel 2009 i capi militari del Congresso nazionale per la difesa del popolo – la formazione militare fondata da Nkunda – annunciano di essersi uniti alle forze governative. E, come conseguenza, dovrebbero finire gli scontri. Ma Nkunda non ci sta. Supportato dall’ugandese Joseph Kony, e dal suo fanatico e criminale Lra, va avanti. Fino all’arresto, il 23 gennaio 2009. Durante il conflitto nel Kivu violenze e massacri sono tali da spingere l’Onu a denunciare l’esistenza di una crisi umanitaria di dimensioni catastrofiche.
Secondo Amnesty International, Nkunda ha impiegato nel conflitto i bambini soldato. Sono almeno 60 mila – ma alcune stime si spingono fino ad oltre 100 mila – i bambini soldato sfruttati, di cui il 35 per cento bambine, impegnati nei circa 400 gruppi armati presenti nel Kivu. Una catena di violenze e conflitti sterminata. Col coinvolgimento di Stati, gruppi armati e multinazionali attirati dalle risorse minerarie. Oltre il Coltan, infatti, il territorio è ricco di giacimenti di diamanti.
MORIRE DI FAME
Il sottosegretario generale Onu per gli aiuti umanitari, Stephen O’Brien, in un rapporto al Consiglio di sicurezza, ha sostenuto nel marzo scorso che in Sud Sudan, Yemen, Somalia e Nigeria ci troviamo davanti alla più grande crisi umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Oltre 20 milioni di persone stanno morendo di fame. Nel rapporto si legge che 3,4 milioni di sud-sudanesi sono sfollati, e 200mila sono fuggiti dall’inizio del 2017.
Le Ong attive sul territorio hanno ricordato che dall’inizio del conflitto i magazzini riservati alla distribuzione delle derrate alimentari e umanitarie sono stati saccheggiati. Nel luglio scorso, a Juba, i soldati governativi hanno saccheggiato i magazzini del Programma alimentare mondiale e della Fao. In questi ultimi mesi la popolazione è ridotta allo stremo, specie nelle regioni settentrionali – Stato di Unity, Bahar el Gazal Settentrionale e Occidentale – e nella regione meridionale dell’Equatoria. L’Unicef sostiene che solo nel 2016 sono stati reclutati almeno 1300 bambini soldato dalle forze armate regolari e dai gruppi ribelli. Portando il totale in questi ultimi tre anni ad oltre 17 mila. La medesima organizzazione ha inoltre sottolineato che dal 2013, circa 2.342 bambini sono stati uccisi o mutilati, 3.090 rapiti e 1.130 hanno subito violenze sessuali.
IL DOPPIO FILO CONGO-SUDAN
Un altro Stato legato a doppio filo al destino del Congo è il Sudan. Il sud del Paese vive una drammatica stagione di guerre da oltre 40 anni. La prima, scoppiata nel 1955 e conclusasi nel 1973 dopo la scoperta dei primi giacimenti di petrolio.
La seconda, iniziata l’anno successivo e conclusasi nel 2005. Dopo un accordo di pace, il 9 gennaio 2011 si è celebrato il referendum che ha portato alla secessione dal nord del Paese. Qualche anno prima, il presidente sudanese, Omar El-Bashir, aveva sciolto il Parlamento dichiarando lo stato d’emergenza. È l’anno in cui iniziano le esportazioni di greggio. Dopo un incontro in Eritrea tra El-Bashir e il gruppo di opposizione dell’Alleanza nazionale democratica, i principali partiti antagonisti sudanesi decidono di boicottare le elezioni presidenziali. Nel 2001, Hassan Al-Turabi, leader del Congresso nazionale popolare – già presidente del Parlamento fino al suo scioglimento – firma un memorandum d’intesa con il braccio armato dello Spla. Ma viene arrestato il giorno successivo. Sorte analoga per altri esponenti del Cnp. Contemporaneamente gli Usa estendono di un altro anno l’embargo verso il Sudan, accusato di essere uno degli Stati canaglia, sostenitori del terrorismo islamico. La stessa insinuazione è alla base del bombardamento di una fabbrica farmaceutica produttrice prevalentemente di vaccini antimalarici. Sospettata, senza prove, di produrre armi chimiche di distruzione di massa. L’ambasciatore tedesco in Sudan tra il 1996 e il 2000, Werner Daum, ha sostenuto che la mancanza di medicinali, conseguenza diretta della distruzione della fabbrica in questione, ha causato parecchie decine di migliaia di morti tra i civili.
Nel 2002 viene firmata la tregua tra il governo e lo Spla del Sud Sudan. Contemplando la possibilità di un referendum per l’indipendenza del sud dal resto del Paese. L’anno dopo, il conflitto si riaccende nel Darfur – regione occidentale del Sudan – coinvolgendo principalmente il Justice and equality movement (Jem) e il Sudanese liberation army (Sla). In Darfur sono divenuti tristemente noti i Janjawid – una tribù nomade di lingua araba appartenente all’etnia Baggara – sostenuti dal governo di El-Bashir. I Janjawid sono stati accusati di sistematici attacchi nei confronti della popolazione civile di etnia Fur, Masalit e Zaghawa, supportati dai bombardamenti dell’esercito.
IL PRIMO ACCORDO DI PACE
Il primo accordo di pace tra il governo di El-Bashar e i ribelli del Jem viene firmato solo 7 anni dopo. Ma dopo due mesi, i responsabili del Jem si ritirano dai negoziati. Nel giugno 2011 le istituzioni internazionali che operano sul territorio sostengono che almeno 300 mila persone sono bersaglio di bombe lanciate da elicotteri, prive di aiuti umanitari e impossibilitate a fuggire nel Kordofan.
Secondo le Nazioni Unite altre 40 mila sarebbero fuggite da Kadugli, la capitale della regione. I bombardamenti hanno colpito Kauda e i villaggi circostanti, tra cui Heiban e Um Dorain. Nelle stesse settimane, sono giunte varie testimonianze di rastrellamenti e uccisioni di massa a Kadugli. Due mesi dopo Amnesty International e Human Rights Watch hanno dichiarato che i raid aerei sudanesi hanno bombardato i monti Nuba, nello stato del Sud Kordofan. Attivisti delle due organizzazioni sono stati testimoni di attacchi aerei quotidiani. Il Sud Kordofan, dopo la secessione del Sud Sudan, è di fatto l’unica regione petrolifera rimasta sotto la giurisdizione del governo di El-Bashar.
YIDA, IL BOMBARDAMENTO DEI PROFUGHI
Il 10 novembre dello stesso anno, l’esercito di Khartoum è entrato nello spazio aereo del Sud Sudan e ha bombardato il campo profughi di Yida. Lì dove oltre 20 mila civili Nuba si erano rifugiati, dopo essere fuggiti dai loro villaggi, perché vittime di una feroce repressione.
Nei mesi successivi altre notizie di bombardamenti sono state diffuse da organismi internazionali e testimoni diretti. Il governo sudanese, già nei precedenti anni di guerra, si era macchiato del massacro del popolo Nuba. Agli inizi degli anni Novanta, l’esercito e le milizie paramilitari delle Forze di difesa popolare (Pdf) avevano ucciso tra i 60 e i 70 mila Nuba in appena sette mesi.
STUPRI E VIOLENZE SESSUALI
Sempre nel 2011 la Sudan democracy first group, un’organizzazione a difesa dei diritti civili e democratici, denuncia il ricorso a stupri e violenze sessuali come strumento di repressione politica da parte delle forze di sicurezza governative. Abusi, molestie e aggressioni sessuali per sopprimere le discordie. Negli anni Novanta sono stati documentati molti casi di uomini violentati e fatti oggetto di vessazioni. Duecento tra donne e bambine sono stuprate dai militari dell’esercito governativo a Tabit, nel nord Darfur. In quel periodo Medici senza frontiere Belgio è stata costretta a lasciare il Sudan perché il governo aveva reso impossibile la prosecuzione delle attività umanitarie.
IL PREZZO DELL’ORO NERO IN SUDAN
Nel gennaio 2012 il Sud Sudan interrompe la produzione di greggio per la mancanza di un accordo sulle tariffe con il governo di Khartoum.
Un accordo che arriva nei mesi successivi, seguito da vari patti di non aggressione. Ma durante i colloqui di pace ad Addis Abeba, i conflitti ai confini dei due Stati non si sono arrestati. Ad agosto dello stesso anno, 655 mila persone vengono costrette ad abbandonare i propri villaggi a causa degli scontri armati tra l’esercito e i ribelli. Nello stesso mese, i due governi raggiungono un accordo per esportare il petrolio attraverso gli oleodotti del Sudan. Successivamente l’intesa viene raggiunta: si parla di smilitarizzazione delle zone di confine per consentire la ripresa dell’estrazione e pompaggio del greggio. Nel marzo 2013, i due governi concordano anche il ritiro delle rispettive truppe dalle zone di confine e la creazione di una zona smilitarizzata. Ma solo tre mesi dopo gli scontri tra i due gruppi per il controllo di una miniera d’oro in Darfur, portano alla morte di decine di persone. Un precedente scontro, a gennaio, aveva causato oltre 500 morti. A dicembre dello stesso anno esplode una nuova guerra civile tra le due principali etnie che popolano il Sud Sudan: l’etnia Dinka, alla quale appartiene il presidente Salva Kiir – e l’etnia Nuer. Sono almeno 300 mila le vittime di questo conflitto.
Più di 3 milioni gli sfollati e i rifugiati. Nella settimana prima di Natale, Pax Christi riferisce di orribili violenze perpetrate anche nei confronti di donne e bambini. Fonti Onu segnalano nella sola Juba oltre 500 morti, 800 feriti e circa 20 mila sfollati rifugiati nelle loro basi.
Dietro il conflitto, ancora una volta, ci sarebbero interessi energetici cinesi, indiani, europei e statunitensi, come ha denunciato ripetutamente in questi anni il missionario comboniano padre Daniele Moschetti, che vive in Sud Sudan da sette anni.