Il 7 marzo 2017, a Londra, il presidente e ceo di Snam Rete Gas, Marco Alverà, ha presentato il Piano 2017-2020 del gruppo, dichiarando che “Snam è ben posizionata per garantire all’Europa rifornimenti di energia pulita, sicura e a costi competitivi.” Il giorno successivo il consiglio di amministrazione di Snam lo approva, aprendo – di fatto – a nuovi scenari energetici e frontiere da esplorare.
“Il mercato italiano beneficia dell’infrastruttura gas più estesa dell’intero Continente e nei prossimi cinque anni investiremo cinque miliardi di euro per rendere il nostro sistema ancora più forte, più interconnesso e più sostenibile, contribuendo significativamente alla realizzazione dell’Energy Union e offrendo una soluzione efficace al processo di decarbonizzazione. Faremo leva sulla nostra leadership nel settore europeo delle infrastrutture gas, sulle nostre competenze distintive e sui nostri settantacinque anni di esperienza per rendere disponibili nuovi servizi ad operatori terzi. In quest’ottica abbiamo recentemente concluso un contratto per supportare Tap nella sezione offshore e onshore italiana, coerentemente con la strategia di Snam global solutions. Gli investimenti di piano e una politica di dividendi attrattiva saranno sostanzialmente sostenute dalla generazione di cassa. La solida struttura finanziaria ci consentirà inoltre di cogliere ulteriori opportunità di creazione di valore, anche attraverso il piano di buyback già autorizzato, fermo restando il nostro impegno a mantenere metriche di rating coerenti con il nostro merito di credito.”
Le parole pronunciate da Alverà e il suo piano aziendale sembrerebbero sostenere un obiettivo speculativo, legato alla creazione di un corridoio meridionale per il transito e l’immagazzinamento del gas per l’ovest ma, soprattutto per i mercati dell’est Europa, in un nuovo scenario geopolitico dell’energia. Sul piatto un investimento complessivo di 5 miliardi di euro: 4,7 miliardi per sviluppare ulteriormente le infrastrutture gas italiane e la loro interconnessione con quelle europee e circa 270 milioni di euro da investire in Tap, rafforzando la sicurezza, la flessibilità e la liquidità dell’intero sistema gas. Una nuova rete da implementare, principalmente, grazie alla realizzazione di un metanodotto di 55 chilometri funzionale a collegare il gasdotto Tap con la rete esistente, con il potenziamento del campo di stoccaggio gas “Fiume Treste” in Abruzzo (che è già il più grande d’Italia) e con ulteriori investimenti nel completamento del reverse-flow – la bidirezionalità dei flussi di consumo del gas – partendo proprio dal metanodotto Tag che collega il Tarvisio ai paesi dell’est, attraverso Austria e Slovacchia.
E proprio a settembre del 2014 la Snam ha rilevato l’89,22 per cento del pacchetto azionario di Tag, infrastruttura strategica per i flussi di energia provenienti dalla Russia. Finora, è stata la Russia la principale fornitrice di metano in entrata in Italia ma con il reverse-flow, e la creazione dell’hub del gas sud-europeo, il flusso di metano potrebbe invertirsi: non più importazioni di gas dall’est europeo, ma esportazione di gas ai nuovi mercati dell’est.
IL PREZZO DEL METANO, I TAKE-OR-PAY, I GAS NON CONVENZIONALI E LA SOVRAPPRODUZIONE
Questa nuova strategia, ben voluta e sollecitata all’Italia dall’Europa, è studiata in un nuovo quadro geopolitico che vede al centro la questione del prezzo del metano. La realizzazione delle nuove infrastrutture non dovrebbe passare dall’utilità – né italiana, né europea – e dalla sicurezza degli approvvigionamenti energetici, ma esclusivamente dall’abbattimento dei costi della materia prima.
In passato si è cercato di garantire l’importazione di metano con forniture e contratti Take-or-pay, principalmente dalla Russia, che ha sempre fornito più del 50 per cento del gas in Europa. In Italia più del 30 per cento.
Con la rivoluzione dei gas non convenzionali abbiamo assistito al crollo dei prezzi del metano, portando il listino dei contratti Take-or-pay fuori mercato. Infatti dal 2010 il Vecchio Continente ha cominciato a spingere verso una loro rivisitazione, per far fronte allo squilibrio dei prezzi rispetto al mercato spot. A questo andrebbe aggiunta anche la crisi economica, che ha fatto registrare meno consumi di energia, e gli effetti del cambiamento climatico che ha comportato inverni meno rigidi e meno lunghi. Un contesto sfavorevole tallonato anche dalla rivoluzione dei gas non convenzionali che ha comportato un boom di estrazioni di shale gas negli Stati Uniti, aprendo ad enormi possibilità anche in altri paesi. Senza entrare nel merito dei rischi ambientali legati all’estrazione dei gas non convenzionali per mezzo del fracking, la tecnica della fratturazione idraulica delle rocce. E mentre gli Stati Uniti raggiungevano una posizione di quasi indipendenza energetica, diminuivano drasticamente le loro importazioni dagli Stati Arabi. Potenzialmente gli Usa si prestavano ad essere esportatori con navi metaniere di gas naturale liquefatto verso l’Europa. Al contempo l’Iran cercava di seguire la strada americana.
Uno scenario che, cambiando il sistema di approvvigionamento, ha portato alla crisi di molti paesi produttori di petrolio e gas. Per il Venezuela e la Russia, ad esempio, il pareggio di bilancio è basato su un prezzo del barile vicino ai 100 dollari. Il crollo a 50 dollari ha acuito il rischio default, delineando una graduale instabilità economica e politica di portata mondiale. I principali paesi produttori si sono così trovati di fronte ad una scelta quasi obbligata: diminuire la produzione in modo da bloccare la svalutazione del prezzo o aumentare la produzione in modo da rendere antieconomico anche il gas non convenzionale? Intorno a questa domanda, lo scorso mese di dicembre a Vienna, hanno dibattuto a lungo i Paesi esportatori di petrolio (Opec) e quelli produttori. Un lungo braccio di ferro al termine del quale è prevalsa la posizione di tagliare la produzione in modo da permettere ai prezzi di risalire. Tra i favorevoli la Russia e l’Arabia Saudita. Dall’altra parte Iraq e Iran. Con quest’ultimo che ha una centralità assoluta nella produzione futura di gas non convenzionali, essendo il paese al mondo con le maggiori potenzialità in grado di diventare primo esportatore.
IL CROCEVIA DELLE GRANDI OPERE EUROPEE
Il tentativo dell’Europa di rinegoziare i contratti Take-or-pay ed il muro eretto a tal proposito dalla Russia, in un clima da “guerra fredda”, ha ridefinito i rapporti e le autorizzazioni dei grandi gasdotti in cantiere, alcuni pensati per bypassare l’ostacolo ucraino. Ad esempio, il progetto South Stream – bocciato dall’Unione europea – avrebbe permesso un incremento quasi doppio di gas anche ai paesi dell’Europa meridionale, scavalcando appunto l’Ucraina. Le potenzialità del South Stream, sulla carta, sono di 60 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Un gasdotto che dal mar Nero sarebbe sbarcato alle porte italiane del Tarvisio risalendo per i Balcani. Un destino differente sembrerebbero avere il più “piccolo” Tap, al centro di accese proteste a Melendugno, in provincia di Lecce, dove dovrebbe approdare. Il Tap porterebbe 10 miliardi di gas all’anno, è ritenuto strategico dall’Ue ed è stato finanziato anche dalla Banca europea investimenti (Bei).
Cosa cambia tra South Stream e Tap? Il primo porterebbe gas russo, il secondo gas azero e, in futuro, gas arabo. E a farle da padrone sono strategie geopolitiche che animano i rapporti tra Russia, Stati Unite e paesi alleati.
L’HUB DEL GAS
In questo clima l’Italia gioca un ruolo chiave. Se da un lato l’Europa per l’approvvigionamento da nord spinge per la rigassificazione con terminali nel mare del Nord, per l’approvvigionamento da sud spinge per la rigassificazione con terminali in Spagna e nel nostro Paese, che avrebbe un ruolo determinante anche a livello di infrastrutture da realizzare e potenziare. Per immagazzinare e poi – per l’integrazione del mercato europeo dell’energia – esportare grandi quantità di metano servono gli stoccaggi sotterranei. Progetti che si portano dietro diversi problemi di natura ambientale, come sismicità indotta e deformazione del suolo. Per reggere le esportazioni di gas e consentire che l’hub funzioni servono pertanto rigassificatori, stoccaggi, metanodotti, nuove trivellazioni, impianti di biometano: opere non strategiche, ma solamente di mercato. Un sistema complesso che si reggerebbe sull’interconnessione di grandi metanodotti che tagliano la Penisola e la Pianura padana. In questo momento le opere principali sono i metanodotti Cervignano-Zimella e Cervignano-Mortara, di portata internazionale, che permettono al gas di arrivare alle porte italiane del Tarvisio (ad est) e di Passo Gries (ad ovest).
Il metanodotto Cervignano-Mortara, ancora in costruzione, vede come punto centrale la costruenda
centrale di compressione gas di Sergnano, in provincia di Cremona, che gestirebbe in bi-direzione il gas verso l’Europa. Proprio a Sergnano si concentrerebbe il punto finale del sistema stoccaggi-metanodotti. Infatti è la Lombardia che detiene il maggior numero di gas stoccato.
A completare l’hub c’è il nuovo corridoio energetico che percorre la dorsale appenninica e arriva in Emilia Romagna – nei pressi dello stoccaggio di Minerbio, in provincia di Bologna – per poi ricollegarsi a Sergnano. Questo corridoio energetico è un metanodotto che dovrebbe percorrere tutto l’Appennino adriatico, anche nelle zone terremotate, arrivando dal gasdotto Tap che porterebbe il gas dai Paesi del Caucaso. A questa opera si connetterebbero altre opere come campi di stoccaggio utili ad immagazzinare gas, e rigassificatori.
QUALI SONO I CONSUMI ITALIANI?
L’Italia basa il proprio consumo energetico sull’utilizzo del metano. Una scelta dettata principalmente da un fattore di natura politica, dalla mancanza del nucleare e dalle scoperte metanifere dell’Eni e gli investimenti di Enrico Mattei e dall’importazione del gas – via tubo – dalla Russia e dai Paesi nord-africani.
A livello nazionale, nel 2015, la composizione percentuale delle fonti energetiche impiegate per la copertura della domanda è stata caratterizzata dal petrolio per il 34,5 per cento, dal metano per il 32,2 per cento, dai combustibili solidi per il 7,8 per cento, dall’energia elettrica per il 5,9 per cento e dalle rinnovabili per il 19,3 per cento.
Il 2015 dimostra ancora che siamo un Paese principalmente importatore di energia, anche per la scarsità concreta di fonti rinnovabili. Quello che deve far riflettere è che, comunque, in un quadro generale di diminuzione di produzione nazionale di energia, diminuisce anche la produzione nazionale di rinnovabili con un calo del 3,7 per cento rispetto al 2014. Aumentano, invece, le importazioni nette: del 6,4 per cento rispetto l’anno precedente, con un aumento delle importazioni di gas del 10 per cento e petrolio del 6,6 per cento, mentre le fonti rinnovabili importate subiscono un forte calo del 16 per cento rispetto al 2014. Questo dipende principalmente dalla scelta politica di puntare sulle fonti fossili e meno sulle fonti rinnovabili.
Nel 2015 la domanda di gas naturale è stata coperta per il 10 per cento dalla produzione nazionale e per il 90 per cento attraverso il ricorso all’importazione. L’importazione è stata pari a 61,2 miliardi di metri cubi con un incremento del 9,8 per cento rispetto al 2014 (circa 5,4 miliardi di metri cubi) ed è stata registrata inoltre un’iniezione netta di gas nei giacimenti di stoccaggio per circa 0,2 miliardi di metri cubi.
Le importazioni via gasdotto hanno rappresentato il 90 per cento del totale delle importazioni di gas naturale, con un incremento di 4 miliardi di metri cubi. In particolare dall’Algeria (7,2 miliardi di metri cubi), dalla Russia (29,9 miliardi di metri cubi), dalla Libia (7,1 miliardi di metri cubi), dal Nord Europa (10,6 miliardi di metri cubi). Il GNL nel 2015 è stato pari a 6 miliardi di metri cubi con un incremento del 32 per cento rispetto al 2014. Complessivamente nel 2015 si registra un consumo di gas pari a 67,5 miliardi totali di metri cubi con un incremento di 5,6 miliardi di metri cubi (+ 9,1 per cento) rispetto ai 61,9 miliardi di metri cubi del 2014.
Questo incremento è stato reso possibile da un aumento del settore civile e termoelettrico che aumentano di 6 miliardi di metri cubi rispetto al 2014. Per soddisfare le esigenze domestiche, nel 2015, secondo le stime preliminari effettuate nell’ambito dei conti ambientali dell’Istat, si utilizza per il 51 per cento il gas naturale, per il 21 per cento le biomasse, per il 20 per cento l’energia elettrica, per il 4 per cento il gasolio, quasi per il 4 per cento il GPL e in quantità trascurabile gli altri prodotti energetici.
Altro dato importante riguarda l’energia elettrica in quanto più del 60 per cento è prodotta con fonti fossili attraverso impianti termoelettrici tradizionali. Sul totale dell’energia elettrica il 40 per cento è prodotta grazie al gas naturale. Ma è proprio nei consumi finali di energia che si nota come il maggior consumo viene dal settore civile (37,6 per cento) e dai trasporti (32 per cento). Due settori che, insieme, rappresentano il 67,6 per cento dei consumi finali. In questo contesto il gas è a quota 30 per cento e il petrolio è a quota 43 per cento, dimostrando che i nostri consumi sono ancora fortemente legati al fossile.
UTILITÀ O SCELTA POLITICA?
Dai dati che abbiamo osservato possiamo trarre importanti conclusioni. L’Italia, da paese importatore, ha bisogno di grandi svolte per poter ridurre la propria dipendenza energetica. Essendo il settore civile e quello dei trasporti i principali energivori, con dipendenza da fonti fossili (gas e petrolio), solo una scelta consapevole può scardinare una politica energetica antiquata. Cosa si potrebbe fare? L’efficientamento energetico delle abitazioni potrebbe abbattere drasticamente l’utilizzo di gas.
Stesso discorso vale per i trasporti. Il continuo investimento su gomma rappresenta una scelta sbagliata. Incentivare il trasposto pubblico e riorganizzare quello delle merci potrebbe abbattere drasticamente il consumo di petrolio.
L’hub del gas, gli stoccaggi, la rigassificazione, il biometano, le trivellazioni sono finalizzate a conservare lo stato delle cose. Ad essere messo in discussione è l’attuale modello di sviluppo retto esclusivamente sul fossile e sulla speculazione nel settore delle rinnovabili. Dobbiamo ragionare in modo differente. Dobbiamo cominciare a ragionare su un modello di sviluppo fondato sul minor impatto energetico, sulla minimizzazione del consumo, sull’efficienza. Per farlo l’energia andrebbe riconosciuta come bene comune e non come merce. Una riflessione applicabile anche all’utilizzo del sottosuolo. È tendenza comune considerarlo “proprietà privata“. Il sottosuolo è, per legge, un bene comune. L’energia è alla base del progresso e del modello di sviluppo economico. Un modello economico irrazionale e illogico come quello attuale continuerà a trainare massimo consumo e massimo spreco.
Pensiamo allo spostamento delle merci di prima necessità. Importiamo alimenti dall’estero per poter coltivare i nostri campi e produrre energia. Nel bilancio finale energetico, quanta energia serve per importare questi alimenti? Mancano i dati.
La risposta non è il protezionismo in chiave nazionale, ma un modello di sviluppo razionale, dove l’energia è un bene da preservare nel rispetto dell’ambiente e dell’intera umanità. Attorno alla questione del sottosuolo e dell’energia deve ripartire la battaglia per la difesa dei beni comuni.