Per l’Ilva di Taranto è ancora credibile proporre il cambiamento green da sempre promesso? Il rischio è lo spreco di soldi europei senza una logica ed una prospettiva di sostenibilità economica.
L’attuale situazione dell’Ilva di Taranto è talmente confusa che non si sa neppure come chiamare questo complesso siderurgico: Ilva, ex-Ilva o ArcelorMittal? Oggi lo stabilimento di Taranto, a differenza di quello di Genova, produce con l’area a caldo e l’area a freddo. L’impianto ligure produce solo con ’area a freddo, perché Genova non vuole più l’inquinamento dell’area a caldo.
ArcelorMittal è in affitto e utilizza gli impianti Ilva, che non sono di sua proprietà. Ragion per cui, scrivere «ex-Ilva» è una cosa assurda: gli impianti sono attualmente di proprietà di Ilva spa, anche se in amministrazione straordinaria. Se c’è una tale confusione sul presente, figuriamoci sul futuro.
LE PERDITE
La fabbrica produce sotto il punto di pareggio, il cosiddetto break even point – e non pareggia i costi con i ricavi. Per raggiungere il pareggio dovrebbe produrre il doppio di quanto produce oggi e arrivare a 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio. Il Governo dichiara di voler arrivare a tale traguardo riattivando “AFO5”, ossia il più grande altoforno, oggi fermo. Ma produrre 8 milioni di tonnellate all’anno non è solo un fatto tecnico: significa anche trovare clienti che acquistino quell’acciaio. E qui arrivano i problemi, perché il mercato mondiale vive una grave crisi di sovracapacità produttiva. Questo surplus ha messo ormai ai margini l’Ilva di Taranto.
IL NOBEL
Se qualcuno riuscirà a riportare l’Ilva a 8 milioni di tonnellate all’anno di acciaio, e trovare i clienti, si candida al premio Nobel per l’economia. Se poi riesce a non far morire le persone con quel livello produttivo si candida al paradiso. In caso contrario si candida al prossimo processo. E qui emerge tutta la problematica dello scudo penale che è necessario per blindare ArcelorMittal. Uno scudo penale che la Corte Costituzionale potrebbe togliere di mezzo. E così hanno “segato” e rimpicciolito lo “scudo”, senza eliminarlo del tutto.
Sempre sul futuro, non è chiaro che ruolo svolgerà ArcelorMittal, che perdeva fino a 100 milioni di euro al mese e se ne voleva andare via. Probabilmente non andrà via se lo Stato si accolla le perdite e se non farà pagare l’affitto degli impianti alla multinazionale. Tutto questo ha il netto retrogusto di “aiuto di Stato”. È facile prevedere che gli ambientalisti lo faranno presente alla Commissione europea.
È quindi tutta aperta la partita, e gli scenari sono talmente nebulosi che – al momento in cui questo articolo viene scritto (5 dicembre 2020, ndr) – persino la firma dell’accordo fra governo e ArcelorMittal è stata rinviata per “approfondimenti”.
IL NODO
Comune di Taranto e la Regione Puglia sono inquieti, si parla di chiusura dell’area a caldo. Le associazioni ambientaliste condannano l’ingresso dello Stato e supportano una linea intransigente.
Il nodo dell’area a caldo è importante perché a Genova è stata chiusa e a Taranto no, sancendo una differenza nella valutazione dell’impatto sulla salute. Tutti i dati su Taranto e tutti gli studi epidemiologici condotti indicano l’incompatibilità della produzione siderurgica accanto alla città.
L’INQUINAMENTO
In questa storia, anche in quella recente, non mancano i paradossi. La produzione infatti, dal 2019 al 2020 è scesa ma l’inquinamento del quartiere Tamburi è aumentato. Come mai? Forse questa volta i sindacati hanno ragione: mancanza di manutenzione agli impianti.
I MAGISTRATI
Sullo sfondo rimane il problema dei problemi: il processo “Ambiente svenduto”. Con impianti sotto sequestro come si possono vendere gli impianti? È infatti in corso il processo alla vecchia Ilva, per disastro ambientale e avvelenamento delle sostanze alimentari (la diossina nelle pecore, ndr). Inoltre, sta per partire un processo sulla discarica Mater Gratiae. Il problema delle discariche è una questione quanto mai importante. Il ciclo integrale produce tantissime scorie, del tipo loppa, polverino d’altoforno, fanghi, scaglie, sottoprodotti di cokeria. Non sanno più dove metterle le scorie a Taranto e chiedono autorizzazioni a nuove discariche o ad ampliamenti, anche perché la Cementir non usa più la loppa. Inoltre, i processi estrattivi sono altamente impattanti: si vedano i disastri ambientali di cui è accusata la multinazionale Vale nella Foresta Amazzonica.
LA PRODUZIONE
Complessivamente si può dire che è finita un’epoca e Taranto. Il più grande polo siderurgico d’Europa non è più in grado di avere il ruolo di un tempo; mai e poi mai potrà tornare a produrre 8 o 9 milioni di tonnellate all’anno di acciaio. Ilva fa parte di quell’eccesso di capacità produttiva di cui si sta sgravando persino la Cina, che ha chiuso vecchi altoforni. La produzione mondiale tende a crescere, è vero, ma non a beneficio dell’Europa.
LE INCOGNITE
ArcelorMittal ha tentato di chiudere alcuni altoforni nel mondo per far convergere su Taranto una massa produttiva tale da raggiungere il punto di pareggio (7 milioni di tonnellate/anno). Ma ha mollato quando ha visto che gli impianti avevano troppe incognite. Infatti, erano ancora sotto sequestro penale (il patteggiamento è fallito). Non era stato mantenuto uno scudo penale sufficientemente ampio. Gli impianti si guastavano, crollavano le gru, morivano operai. Quindi l’idea di puntare tutto su Taranto per ritornare ai profitti di Riva è fallita e ArcelorMittal ha dovuto rivedere i suoi piani di investimento in Italia.
LE ILLUSIONI
È ancora credibile proporre un cambiamento sempre promesso, che non arriva mai? Il momento della ristrutturazione green era dieci anni fa, quando c’erano profitti, non ora che si accumulano solo perdite. Questo devono accettarlo tutti come lezione della realtà. Ma Legambiente, FIOM e Sbilanciamoci ripetono su Taranto la proposta di un futuro green, di un investimento in nuove tecnologie per rendere compatibile la fabbrica con la salute. Ma è una prospettiva credibile? Il rischio è quello, alimentando illusioni, di sprecare i soldi europei senza una logica e una prospettiva di sostenibilità economica. Perché l’Ilva è morta, fuori mercato. Irrecuperabile.