Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Terremoto nel Centro-Italia: tre anni dopo l’incertezza è una condanna

Siamo al terzo anno dopo il terremoto nel Centro-Italia che, ad agosto 2016, ha polverizzato l’area appenninica a cavallo tra le Marche, l’Abruzzo, il Lazio e l’Umbria. Niente è immobile, benché tutto sia incerto. La verità è che nessuno sa bene cosa fare.

Niente è immobile perché comunque due-terzi delle macerie sono state portate via, gli edifici ancora in piedi sono stati puntellati, c’è un sacco di gente negli uffici e nei cantieri che si dà molto da fare. È abbastanza? Sicuramente no. Che dopo tre anni dal tremendo sisma che ha colpito il Centro-Italia, ci si rallegri perché buona parte delle macerie non sia più per strada è un controsenso: e va bene che ci sono aree sottoposte a sequestri giudiziari, e va bene che le zone rosse sono questioni delicate da gestire. Va bene tutto, ma bisognava fare di più. Stesso discorso per i puntellamenti: mettere in (parziale) sicurezza i palazzi non crollati è il minimo sindacale, la soglia della decenza per un Paese che dovrebbe essere Europa. E ancora: c’è gente che si dà da fare, ottimo. Ma la prospettiva è cupa: a febbraio 2020 scadranno i contratti a tempo determinato e non si sa come si potrà fare per rinnovarli (di stabilizzazione, per senso della realtà, non parla nessuno), per non parlare dei tanti che vincono concorsi altrove e se ne vanno. Tutto giusto, tutto legittimo, e un grande in bocca al lupo, ma negli uffici tecnici questo vuol dire ricominciare da capo con gente che andrà formata per fare il lavoro che dovrà fare. E servirà altro tempo.
Ecco, appunto: il tempo. Quello stringe sempre e non passa mai. Una parte parecchio consistente dei paesi del cosiddetto cratere è costituito da nuclei di poche centinaia di abitanti. La crisi delle aree interne e montane esiste da prima del terremoto, ed era un fenomeno studiato da alcuni e ignorato da molti altri. Le scosse del 2016 e del 2017 hanno accelerato questo fenomeno in maniera forse decisiva. Nel senso che già «prima» era difficile immaginare un futuro per queste zone, e adesso.
E adesso è quasi impossibile, con tutta la buona volontà. C’è un’indagine di Terre in moto che dà valore scientifico a questa tesi: la gente va via e non ritorna.
«Se vedi i grafici sull’andamento dei redditi dentro al cratere – mi spiega la sociologa Silvia Sorana, di Visso in provincia di Macerata – vedi che l’andamento è sempre costante
E non è una buona notizia? Spiega Sorana: «No, perché è l’effetto della busta paga pesante. Se i terremotati non ricevessero il lordo del loro stipendio ma il netto come tutti gli altri, le linee del grafico scenderebbero in picchiata
Un territorio tenuto in vita artificialmente: quanto durerà ancora questa busta paga pesante? Quando finirà e non sarà ancora ripartita un’economia qualsiasi – e dunque quando i redditi crolleranno – cosa succederà?
Il presente è cupo, il futuro è inquietante.
E allora uno prova a chiedere della ricostruzione? Perché non è partita? Quando partirà? Come? I tecnici non sanno rispondere bene a questa domanda e si limitano a illustrare, volendo anche nel dettaglio, il viaggio che deve fare una pratica dal momento in cui un terremotato si mette in mente di farla a quando viene approvata. Passaggi, sottopassaggi, retropassaggi, documenti che vanno avanti e indietro, complicazioni dovute dal fatto che in molti paesi non ci sono più gli archivi comunali e dunque è impossibile verificare nel dettaglio come fossero le cose prima del sisma.
Rigidità. Tanta rigidità. Forse troppa. Nel paese dei mille abusi e dei mille e uno condoni, adesso si fa caso a tutto, si controlla diecimila volte ogni cosa, si guarda e si riguarda. Non farlo vorrebbe dire scivolare nell’illegalità, farlo significa rallentare ogni cosa. Un bel cortocircuito. Bisognerebbe aggiungere, comunque, che nei paesi terremotati sono pochissimi i grandi abusi, mentre sono molti quelli piccoli. Che si fa? Inutile chiederselo, tanto non decide nessuno.
La colpa della politica è questa: non decidere. O quantomeno fare di tutto per rinviare ogni decisione. Una legge sisma, nove decreti successivi, oltre cento ordinanze tra quelle statali e quelle di protezione civile. Un labirinto di leggi, articoli, commi, «visto che», «considerato che». Impossibile districarsi. Nessun governo, nessun presidente di Regione, nessun commissario ha mai voluto prendere una decisione forte. Per paura, più che altro. Paura di finire nei guai come a L’Aquila, paura di perdere consenso, questa grande malattia nazionale che vede nei sondaggi il suo unico orizzonte, da cui tutto discende, da cui tutto dipende.
E allora uno va a incontrare i sindaci, poveri disgraziati. Gente votata al martirio che per poche centinaia di euro al mese (senza tredicesima, senza quattordicesima, senza assicurazione) si trova a gestire un problema enorme, forse senza nemmeno averne gli strumenti politici e culturali per farlo. Ci sono quelli più coriacei e quelli più felpati, quelli che stanno in mezzo a questa storia solo perché la vedono come una rampa di lancio e quelli che non ci stanno capendo niente. Ma che può fare il sindaco di un paese di mille abitanti davanti al disastro? Vai, li incontri, ci parli e il sindaco del paese da cinquemila abitanti ti pare De Gaulle rispetto agli altri.
Tre anni dopo il sisma resta questo: una grande confusione che non si può scalfire né tantomeno penetrare. E il tempo passa, troppo veloce o troppo lento, mai al ritmo che dovrebbe avere. Passa troppo lento per chi vive in una casetta di plastica e ferro e vive giornate che non finiscono mai. Troppo veloce perché nelle giornate che non finiscono mai non succede niente. E se non succede niente, qui si scompare.

Iscriviti alla nostra newsletter!

Condividi questo articolo