Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015

La valle del Sacco, così chiamata dal nome del fiume che l’attraversa, abbraccia alcuni comuni della Provincia di Frosinone e, in minima parte, di Roma. Tra questi comuni c’è Colleferro, oggi compreso nella Città metropolitana della Capitale. Luoghi ricchissimi di storia e ricchezze culturali, architettoniche, naturali e devastazione. Tanto da essere inclusi, nel 2008, nell’elenco dei Siti d’interesse nazionale del ministero dell’Ambiente, per essere poi declassato. A Colleferro le mamme non possono allattare i figli. Ecco perché.

Declassato da un decreto del governo Monti (ministero dell’Ambiente n.152 dell’11 gennaio 2013) – insieme ad altre diciotto aree – il “Bacino del fiume Sacco” è rientrato nell’elenco nazionale dei Siti d’interesse nazionale (Sin) per la gravissima situazione di inquinamento e degrado ambientale, anche a seguito di una sentenza del Tar del Lazio del 20 marzo 2014. Un provvedimento, in alcuni passaggi, a dir poco clamoroso.
Infatti, i giudici amministrativi scrissero che “il ragionamento del ministero, ad avviso di questo Collegio, è erroneo in radice” e che “la norma applicata sembra anzi ampliare (piuttosto che restringere) le fattispecie dei territori potenzialmente rientranti nell’ambito dei siti di interesse nazionale…
La sentenza riporta che i siti non più ricompresi tra i Sin, secondo il decreto, non avevano più i requisiti “di cui all’articolo 252, comma 2, del decreto legislativo n.152/2006, come modificato dal comma 1 dell’articolo 36 bis della legge n.134/2012”, il requisito su cui si è basata la declassificazione è stato “l’insistenza attualmente o in passato di attività di raffinerie, di impianti chimici integrati o di acciaierie. Il mancato riscontro di tale requisito, per un singolo sito (come appunto nella specie per il Sin di cui trattasi), è stato considerato circostanza da sola sufficiente per l’esclusione dal mantenimento della classificazione come Sin.
I giudici hanno considerato “erroneo in radice” il “ragionamento del Ministero” in quanto, oltre all’insistenza degli impianti, non è corretta “una lettura tale da indurre a considerare, per la qualificazione di Sin, la presenza di tutte le circostanze cui l’articolo 252” del Testo Unico Ambientale (decreto legislativo n.152/2006) – modificato dalla legge 134/2012 – fa riferimento.
La sentenza sottolinea quindi che “i principi e i criteri direttivi enunciati all’articolo 252, comma 2, del decreto legislativo n.152 del 2006, concorrono alla individuazione dei Sin ma non vanno considerati quali requisiti che ogni sito deve possedere contemporaneamente. E questo in conformità sia allo spirito della normativa che alla concreta attuazione che negli anni ne è stata data.

IL PROCESSO PER LA GESTIONE DEGLI IMPIANTI DI INCENERIMENTO
Il 12 ottobre si è svolta a Roma la prima udienza del processo per la gestione degli impianti di incenerimento cittadini. Dopo che nel marzo dello scorso anno il Tribunale di Velletri si è dichiarato incompetente in materia, trasferendo tutti gli incartamenti nelle sedi romane. La Rete per la tutela della valle del Sacco (Retuvasa) e il Comitato “Residenti Colleferro”, ricostruendo l’intera vicenda, hanno riportato che “nel 2009 diversi dirigenti e funzionari del gruppo Gaia spa furono rinviati a giudizio per aver permesso l’incenerimento di rifiuti di ogni tipo, dalle gomme di camion ai materassi; quando proveniva da determinate aziende, il Combustibile derivato da rifiuto (Cdr) non subiva i controlli dovuti e, per nascondere i problemi, si provvedeva a manomettere i sistemi di controllo informatici e ad alterare i dati sulle emissioni ai camini. A completare il quadro criminoso le intimidazioni e le rappresaglie verso quei dipendenti che non si mostravano collaborativi con la dirigenza.
La Direzione distrettuale antimafia contestò il comportamento di “dirigenti e legali rappresentanti del 2008 delle due società di gestione degli inceneritori, Mobilservice ed EP Sistemi società dell’ex Consorzio Gaia”, di “legali rappresentanti di alcune società di certificazione analisi dei rifiuti, di controllo delle emissioni da remoto, di intermediazione”, dell’allora “procuratore di Ama” e del “responsabile della raccolta multimateriale presso l’impianto Ama di Rocca Cencia.
Nonostante questo, l’incenerimento dei rifiuti e la presenza di mega impianti non sono stati ancora consegnati al triste passato della città. Il 9 aprile 2016 nel corso di una manifestazione pubblica i cittadini hanno contestato la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per i due inceneritori presenti a Colleferro. L’accento è stato posto su 8 studi epidemiologici “che imputano agli inceneritori l’aumento in numero dei ricoveri ospedalieri per malattie polmonari e bronco polmonari cronico ostruttive” chiedendo “una moratoria delle emissioni e la chiusura immediata di questi impianti antieconomici ed obsoleti”. Tra questi studi c’è il Rapporto Eras (Epidemiologia, rifiuti, ambiente e salute) – commissionato dalla Regione Lazio e datato 2012 – che ha riscontrato il nesso tra la presenza di inceneritori e discariche e lo stato di salute dei cittadini: a meno di cinque chilometri dagli impianti soprattutto i bambini si ammalano con maggiore frequenza, “31 per cento di ospedalizzazioni per malattie dell’apparato respiratorio” e “79 per cento per malattie polmonari cronico ostruttive”, tra i bambini +78 per cento di “aumento di ricoveri per infezioni acute delle vie respiratorie.” Sulla valle del Sacco, lo studio Sentieri del ministero della Salute è stato praticamente lapidario, riportando testualmente “eccesso di mortalità per tutte le cause”, “eccesso di mortalità per i tumori, per il tumore dello stomaco e le malattie dell’apparato digerente, e tra le donne per malattie dell’apparato circolatorio.
A dicembre del 2015, i Comitati locali avevano messo nel mirino l’attuale gestione dei due inceneritori, accusata di non rispondere “alle normative vigenti e alle Autorizzazioni integrate ambientali” del 2009. Dopo alcune segnalazioni dell’Arpa Lazio del 2012 sulle prescrizioni dell’Aia è stato avviato un procedimento di riesame il 24 giugno 2012 che, alla data dell’accesso agli atti, risultava non essere “mai stato concluso”. Sotto la lente d’ingrandimento soprattutto due punti: le sale di controllo delle linee di incenerimento e le stazioni di rilevamento degli inquinanti. “Nelle autorizzazioni”, sottolineano gli attivisti “è previsto che in ognuna delle due linee di incenerimento sia presente una sala di controllo per monitorare tutto ciò che avviene all’interno degli impianti: ebbene le due sale di controllo sono state unificate e di tale modifica risulta il verbale, sia essa sostanziale o non sostanziale, né vi è ha traccia tra le autorizzazioni regionali. La sala di controllo è il cuore della sicurezza degli impianti e la sua modifica potrebbe rendere meno efficiente le prestazioni, aumentando i rischi ambientali e lavorativi in caso di incidente. Ne dà conferma l’Arpa Lazio in risposta alla richiesta di chiarimenti di un dipendente, evidenziando che la Legge sugli impianti con generatori di vapore impone la presenza di un conduttore patentato per singolo impianto e per ogni turno di lavoro, libero di potersi muovere e non vincolato alla presenza fisica davanti alla postazione di controllo.
Inoltre, “sempre tra le prescrizioni inattuate si legge che il gestore degli impianti avrebbe dovuto installare a Colleferro delle stazioni di rilevamento degli inquinanti per consentire almeno l’analisi in continuo dei NOx e della frazione di polveri fini PM10 e delle polveri totali PTS per le quali l’Arpa Lazio – sezione di Roma – avrebbe avuto il compito di determinare sia le quantità giornaliere che le concentrazioni dei metalli: As, Cd, CO, Hg, Sb, Sn, Tl, V, Zn, Cr, Cu, Mn, Ni, Pb. Anche di queste stazioni di rilevamento, ad oggi, non si è vista traccia e si tratta di inquinanti liberi in atmosfera in quantità sui cui valori è indispensabile averne conoscenza per la salute dei cittadini.” All’incenerimento, la Regione vorrebbe affiancare anche un impianto di trattamento mobile dei rifiuti (Tmb), contro la cui autorizzazione pende un ricorso al Tar di Retuvasa e “Residenti Colleferro”.

IL LATTE INQUINATO E IL BETA-ESACLOROCICLOESANO
Una delle radici dell’inquinamento della valle del Sacco viene fatto risalire alla produzione di DDT da parte della Caffaro: fusti contenenti i residui della lavorazione sono stati interrati fino agli anni Ottanta. Il beta-esaclorocicloesano (in sigla beta-HCH) ha così avvelenato la catena alimentare. Alla fine del 2004 fu accertata la contaminazione del latte prodotto.
Sulla vendita di latte inquinato a caseifici, anche di Roma, è partito nel 2010 un processo che vede imputati ex dirigenti dello stabilimento Caffaro, della Centrale del Latte di Roma e del Consorzio che gestiva lo scarico delle acque della Zona industriale di Colleferro. Oggi, consultando molte fonti documentali, alla voce “beta-esaclorocicloesano” compare subito l’inquinamento della valle del Sacco. È questa una piccola dimostrazione delle dimensioni e della gravità di quanto è accaduto. L’esposizione al beta-esaclorocicloesano può coinvolgere, in un tempo relativamente breve, sangue, fegato e reni, provocando tumori. Test su animali indicano la possibilità che questa sostanza influisca sulla riproduzione o lo sviluppo umano. A Colleferro le mamme non possono allattare i figli.
Nel 2011, la Rete per la tutela della valle del Sacco (Retuvasa) ha denunciato che “un colleferrino di mezz’età preso a caso, non professionalmente esposto all’inquinante in questione, residente da sempre in città a 2 chilometri dal fiume, presenta una concentrazione di beta-HCH nel siero di 223 nanogrammi/grammo di grasso, e dunque ha nel proprio corpo una quantità del pesticida 12 volte superiore alla media nazionale ed europea considerata oggi più attendibile. Il dato isolato ovviamente non prova nulla, ma suggerisce l’opportunità di acquisirne altri omogenei. Per quanto riguarda il 55 per cento dei contaminati residenti entro 1 chilometro dal fiume, in certi casi il valore riscontrato è anche 50 volte superiore alla media nazionale ed europea.

LE VACCHE MORTE DI ANAGNI
Il 19 luglio 2005, ad Anagni, furono ritrovate 25 vacche morte dopo essersi abbeverate, con “il ventre gonfio e la schiuma che gli usciva dal naso”, come racconta la proprietaria del bestiame. È questo, forse, l’episodio emblematico che dimostra inequivocabilmente il livello di inquinamento della zona. Poco tempo prima, tracce di beta-HCH erano state rintracciate nel latte prodotto in una fattoria di Gavignano. Dopo la scoperta della morte degli animali il Corpo forestale dello Stato risalì la corrente, verificando i livelli della contaminazione, arrivando fino a Fosso Cupo, un affluente del fiume Sacco, che scorre non lontano dall’ex Snia-Bdp-Caffaro. Incredibilmente, successive analisi accertarono che il veleno fatale per gli animali non era il beta-HCH ma il cianuro. Colpevole, molto probabilmente, fu una delle aziende della zona che sversò residui di lavorazione nel Rio Mola Santa Maria, il ruscello al quale si abbeverarono le mucche. Dopo l’esplosione del caso mediatico – che portò a mobilitarsi anche istituzioni regionali e nazionali – lo sversamento probabilmente non fu più ripetuto. Infatti, successive analisi riscontrarono un ritorno al di sotto della soglia di legge del cianuro nel ruscello.
Ma resta la gravità di un episodio che documenta, una volta di più, l’impropria gestione di molti rifiuti pericolosi industriali nell’Italia dei veleni. Nel 2001 in Provincia di Frosinone furono ben 122 le discariche dismesse individuate – a cui vanno aggiunte altre centinaia abusive – e che, almeno dal 1980, contaminano i terreni e le falde. Inoltrandosi nei campi può capitare di individuare pozzanghere di nauseabondo percolato di colore viola. Nel 1998 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e delle attività illecite ad esso connesso scrisse espressamente di “fenomeni di illecito sversamento” in un “modus operandi tipico delle organizzazioni criminali.

LE DISCARICHE RILEVATE NEI LAVORI DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA
Ad Isoletta d’Arce sono stati rinvenuti materiali stoccati in silos e cisterne che presentano già segni d’usura, suscitando quindi ulteriori preoccupazioni per quanto riguarda i danni ambientali; a Pontecorvo, i rifiuti tossico-nocivi (solventi), contenuti in fusti interrati in discarica, sono risultati provenire anche da un vicino stabilimento Fiat; a Castelliri, coinvolti nella vicenda giudiziaria sono taluni personaggi che sono risultati organizzati stabilmente in una serie di società dedite ad attività illecite nel ciclo dei rifiuti.
Nelle campagne di Pontecorvo e nella zona di Cassino sono state scoperte ben otto tonnellate di scorie (ossido di zinco misto ad ammoniaca) provenienti da impianti produttivi del nord, secondo un sistema già riscontrato nella zona del casertano e per il quale si rimanda alla relazione che questa Commissione ha dedicato alla situazione campana.
Ma l’episodio più grave è quello verificatosi nel territorio di Arpino, dove si ritiene assai probabile la presenza di rifiuti pericolosi interrati e ricoperti da una gettata di cemento, sulla quale è stato successivamente costruito un parcheggio: esiste il sospetto che sia stato così occultato l’interramento di un enorme quantitativo di rifiuti pericolosi, e le modalità d’occultamento rendono assai difficile il loro recupero e l’eventuale bonifica del sito.
Nello stesso verbale leggiamo che “la provincia di Frosinone sembra essere divenuta nel corso degli anni uno dei centri nodali degli smaltimenti illeciti di rifiuti.
Il 28 ottobre 1997 una delegazione effettuò alcuni sopralluoghi anche in provincia di Roma. Il primo “presso una cava dismessa di Piana Penna nel comune di Riano Flaminio sarebbero stati sepolti grandi quantitativi di fusti contenenti rifiuti tossici.
Nel verbale viene sottolineato che “l’indagine disposta in merito da questa Commissione ha portato al recupero di circa 150 fusti, nonché di altri rifiuti illecitamente smaltiti” e, a conclusione della visita ispettiva, “presso lo stabilimento della BPD Difesa e Spazio di Colleferro, per conoscere i progetti dell’azienda in merito alla messa in sicurezza dei rifiuti da essa smaltiti irregolarmente all’interno del proprio perimetro.
Dopo tale visita la Commissione evidenziò la presenza, all’interno del perimetro dello stabilimento, tra gli altri di una “discarica di rifiuti speciali” che “provenivano essenzialmente dalla lavorazione di carri ferroviari e dalle lavorazioni chimiche e dei propellenti” e, in due aree, di terreni con “elevate concentrazioni di arsenico, al punto da farlo classificare come tossico e nocivo”, “eluati per il cadmio pari a dieci volte il limite” previsto dalla legge o “valori di eluato per il piombo superiori a dieci volte il limite.
L’acqua di falda, invece, risultò contaminata “da metalli e da prodotti organo clorurati.
Secondo la Commissione “da una visione complessiva del quadro analitico risultano concentrazioni anomale di pesticidi nelle acque e nei terreni sottostanti” a due aree.

IL SITO D’INTERESSE NAZIONALE “BACINO DEL FIUME SACCO”
Il Sito d’interesse nazionale “Bacino del fiume Sacco” è stato istituito dal ministero dell’Ambiente con decreto del 31 gennaio 2008 e comprende tutti i 1530 chilometri quadrati del bacino idrografico del fiume, ad eccezione dei comuni rientranti del Sin “Frosinone”, precedentemente istituito dal ministero dell’Ambiente con decreti del 2 dicembre 2002 e del 23 ottobre 2003. Il 19 maggio 2005, a seguito del rilevamento in un campione di latte di un’azienda di Gavignano di concentrazioni di betaesaclorocicloesano superiori ai limiti di legge, un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri aveva già dichiarato lo “stato di emergenza socio-economico-ambientale nella Valle del Sacco.
L’area coinvolta dall’emergenza comprendeva i comuni di Colleferro, Segni, Gavignano, Paliano, Anagni, Ferentino, Sgurgola, Morolo e Supino. Il Sin è attualmente in fase di riperimetrazione. La perimetrazione ripartì con una Conferenza dei servizi dell’8 settembre 2014 nella quale si considerò “procedere con urgenza” alla “riperimetrazione del Sin nel rispetto dei criteri oggettivi stabiliti dalla normativa vigente”. Oggi, i comuni coinvolti sono diciannove: Anagni, Arce, Artena, Castro dei Volsci, Ceccano, Ceprano, Colleferro, Falvaterra, Ferentino, Frosinone, Gavignano, Morolo, Paliano, Patrica, Pofi, Segni, Sgurgola, Supino e San Giovanni Incarico. Secondo la Rete per la tutela della Valle del Sacco l’area definitiva dovrebbe estendersi tra i 6 mila e i 7 mila ettari. A seguito della Conferenza dei servizi sulla riperimetrazione del 19 gennaio 2015 – nella quale l’Arpa Lazio individuò i confini del Sin a nord con “lo spartiacque del bacino idrografico del fiume Sacco che passa per le creste del Colle Cese, del Monte Castellone, di Colle Vignola e prosegue per il Comune di Bellegra” e sul limite sud-orientale “con la zona di confluenza del Fiume Sacco nel lago di San Giovanni Incarico”, la stessa Rete per la tutela della Valle del Sacco criticò quelli che definì errori e confusioni del ministero e della Regione, denunciando una “frettolosa operazione mirante ad allargare al massimo l’area di intervento, senza il fondamento di una analisi rigorosa dei processi di inquinamento” con il ministero che “perpetua l’errore” di non valutare il Sin “Bacino del fiume Sacco” e l’ex Sin (oggi Sir, declassato dal decreto dell’11 gennaio 2013) “Frosinone” come un unico sito.

ANAGNI, NUOVO SEQUESTRO PER TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI
Il Nucleo investigativo di Polizia ambientale e forestale del Comando provinciale di Frosinone, con un comunicato del 10 ottobre 2016, ha dato notizia di un nuovo sequestro ad Anagni, di una società farmaceutica, a seguito di indagini su un traffico illecito di rifiuti costituiti da fanghi.
Il Nucleo investigativo di Polizia ambientale e forestale del Comando provinciale di Frosinone del Corpo forestale dello Stato ha eseguito un decreto di sequestro emesso dal gip del Tribunale di Roma – e richiesto dalla Dda della Procura di Roma – nei confronti di una società farmaceutica del frusinate. Le indagini […] hanno consentito di accertare l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti costituiti da fanghi prodotti dalla società. In particolare gli investigatori hanno accertato come tali rifiuti non venivano smaltiti attraverso il conferimento a ditte terze a ciò deputate, ma venivano immessi come ammendanti nei terreni circostanti l’azienda, e di proprietà della stessa, sui quali poi sono state effettuate nel tempo delle colture agrarie. Ciò avveniva in virtù di un provvedimento autorizzativo emanato dagli enti competenti e solo formalmente regolare, in realtà affetto da vizi di illegittimità, quali, ad esempio, l’assenza della necessaria Via. In tal modo la società […] ha non solo smaltito illecitamente ingenti quantità di rifiuti ma ha altresì conseguito enormi guadagni derivanti proprio dal risparmio di spesa relativa allo smaltimento tramite ditte terze dei rifiuti costituiti dai fanghi. I terreni oggetto dello spandimento dei fanghi sono stati così sottoposti a sequestro, mentre i responsabili dell’azienda e i funzionari pubblici sono stati denunciati […]

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Autore:

Attivista di vari movimenti pacifisti e ambientalisti abruzzesi, referente locale dell’associazione Antimafie Rita Atria e PeaceLink.