L’import massiccio di carbone dall’estero, i riflessi ambientali del suo sfruttamento, le centrali italiane tra criticità e potenzialità, il declino delle fonti fossili nel panorama della Cop21. Per fare chiarezza su queste e altre questioni abbiamo intervistato il presidente di Assocarboni, Andrea Clavarino.
Presidente Clavarino, partiamo da uno screening delle centrali a carbone attive sul territorio nazionale. Tenendo conto che la potenza installata è pari a circa 121.762 MW, come contribuiscono a soddisfare la domanda energetica italiana? È vero che molte centrali funzionano a scartamento ridotto?
Partiamo da un principio. In Italia tutte le centrali a carbone sono certificate EMAS, che è una certificazione ambientale di standard europeo più severa rispetto a quelle ISO 14001. I maggiori operatori del settore, inoltre, continuano a dimostrare una straordinaria capacità di innovazione. Rispetto alle più obsolete e meno efficienti tecnologie impiegate nel passato, i moderni impianti ad alta efficienza e a basse emissioni disponibili oggi in Italia per la produzione di energia elettrica, emettono tra il 25 e il 33 percento di C02 in meno e vantano un rendimento medio del 40 percento, con un picco del 46 percento registrato nell’impianto di Torrevaldaliga Nord: livelli che nel mondo vengono raggiunti solo da un impianto in Giappone e da uno in Danimarca. L’unica risorsa carbonifera italiana nota è concentrata nel bacino di Sulcis Iglesiente, nella Sardegna sud-occidentale. Le attività estrattive di questo bacino sono state sospese nel 1972, ma dal 1997 il bacino del Sulcis è stato oggetto di nuove attenzioni da parte degli studiosi che valutano nuove soluzioni per l’utilizzo energetico ed eco-compatibile di questo carbone. In particolare dal 2005 la Regione Sardegna, in collaborazione con il Mise, ha rilanciato questa attività con la predisposizione del “Progetto Integrato Sulcis”. Il progetto prevede lo sviluppo di tecnologie innovative di combustione e l’integrazione di queste con le tecnologie CCS-ECBM – cattura e sequestro della C02 – nelle vene non estraibili e declinanti sotto il mare, a una profondità di oltre 800-1000 metri, con il recupero del metano contenuto nelle micro-porosità del carbone.
L’unico giacimento certificato è quello di Sulcis, in Sardegna. Infatti secondo le ultime stime l’Italia importa circa il 90 percento del proprio fabbisogno di carbone. Quali sono i Paesi da cui importiamo tale risorsa? Che tipologia di carbone viene utilizzato nelle nostre centrali?
È vero. l’Italia importa via mare circa il 90 percento del proprio fabbisogno di carbone, su una flotta italiana di circa 60 imbarcazioni che garantiscono una capacità di carico complessiva di oltre 4,6 milioni di tonnellate. Le provenienze sono molto diversificate. I principale Paesi di importazione sono: gli Usa, il Sud Africa, l’Australia, l’Indonesia e la Colombia, ma anche il Canada, la Russia e il Venezuela. Per quanto riguarda le tipologie importante si parla principalmente di steam coal, coking coal+PCI e petcoke.
Tuttavia il prezzo del carbone a livello internazionale viene inesorabilmente condizionato da quello di un’altra materia prima, indispensabile per trasportarlo: il petrolio. Costi che in teoria proprio “l’oro nero” e il gas naturale ammortizzano grazie agli appositi oleodotti e metanodotti. Alla luce di questa considerazione, qual è il prezzo medio reale del carbone sul mercato? Cosa lo rende effettivamente competitivo rispetto alle altre fonti fossili?
L’elevata competitività del carbone è data sia dalla più equilibrata distribuzione della risorsa nel mondo – rispetto alla concentrazione delle risorse petrolio e gas nell’area mediorientale e nelle ex Repubbliche sovietiche – sia dai minori costi di produzione. La convenienza è data anche dal fatto che i costi fissi di generazione da carbone sono molto bassi, circa il 22 percento. Poi facciamo una serie di considerazioni. Quasi il 20 percento della tariffa elettrica italiana è attribuito ai costi degli incentivi alle fonti rinnovabili. Tanto che, secondo l’Autorità per l’energia, se le centrali elettriche italiane usassero carbone quanto il resto d’Europa, il costo dei combustibili sul valore complessivo del chilowattora scenderebbe del 10 percento. Se tutte le centrali italiane usassero il carbone, il chilowattora scenderebbe del 20 percento.
L’accordo di Parigi sul clima ridimensiona pesantemente il ruolo delle fonti fossili nel prossimo futuro energetico. Come si può commentare, da questo punto di vista, la Cop2l? Perché l’Italia dovrebbe scegliere di affidarsi ancora al carbone?
Nel mondo il 40 percento dell’energia elettrica è prodotta dal carbone, mentre in Europa tale quota è pari al 28 percento seguita dal nucleare con un peso del 24 percento. Fatti questi distinguo, l’Italia è l’unico Paese in Europa che, pur non facendo ricorso al nucleare, ha una quota di utilizzo di carbone estremamente bassa, il 13 percento. La torta della produzione di energia elettrica italiana è unica in Europa e rispetto ai Paesi del G8: se la media vede generalmente una quota pari al 60 percento circa generata da un mix variabile di carbone e nucleare, in Italia nel 2015 la produzione di energia elettrica proviene per il 38 percento dalle rinnovabili, per un ulteriore 38 percento dal gas naturale, per il 13 percento dal carbone, per il 2 percento da derivati del petrolio e per il 9 percento da altre fonti. Questa quota di mercato, se pur modesta quando comparata allo share della produzione elettrica di altri Paesi, ha un ruolo fondamentale nel garantire stabilità all’Italia, poiché il carbone è un combustibile caratterizzato da sicurezza dell’approvvigionamento, ampia disponibilità, competitività dei costi, sicurezza nella movimentazione, trasporto e uso, e infine compatibilità con l’ambiente grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie disponibili. Inoltre, uno dei centri di ricerca medico-scientifica indipendenti più autorevoli al mondo, iPRI-lnternational Prevention Research Institute, ha dimostrato nello studio “The Environmental and Health Impacts of Coal Thermo-electric Plants” come la gran parte delle analisi mirate a cercare una correlazione tra emissioni delle centrali termoelettriche ed effetti sulla salute delle popolazioni abbiano portato in realtà a risultati inutilizzabili, in quanto carenti di un’appropriata metodologia. Secondo iPRI finora non c’è stata alcuna evidenza di aumento o diminuzione del rischio di mortalità né di altri effetti sulla salute delle persone che lavorano in centrali a carbone o dei residenti nelle vicinanze, associabili diretta-mente con le emissioni inquinanti degli impianti. In particolare nel periodo dal 2000 al 2010 le emissioni europee di polveri sottili PM2,5 sono diminuite complessivamente del 15 percento, mentre nel settore termoelettrico la riduzione è stata del 41,5 percento. Anche in Italia nel 2010 la sorgente maggiore di PM2,5 risulta essere in realtà l’uso domestico di energia – gli impianti di riscaldamento – le attività di commercio e servizi e Pubblica Amministrazione (50 percento), seguita dai trasporti (29 percento), dalle industrie e dalla gestione dei rifiuti (5 percento). Appena il 2,6 percento del totale deriva dalla produzione e distribuzione di energia. La produzione elettrica da carbone ha quindi un ruolo marginale in termini di contributo all’inquinamento atmosferico globale, anche in considerazione degli efficienti sistemi di abbattimento delle emissioni applicati con l’implementazione delle tecnologie sviluppate negli ultimi anni. La proposta di Assocarboni è mantenere stabile la quota di carbone – impiegato attraverso le migliori tecnologie di combustione, più rinnovabili – e invece meno gas, costoso e con significative implicazioni in termini di sicurezza degli approvvigionamenti. Sulla stessa scia di Paesi sviluppati e non come Corea del Sud, Germania, Giappone, Taiwan, Turchia, USA e Vietnam.
Proprio sulle emissioni di C02 Assocarboni ha commissionato uno studio alla Stazione sperimentale per i combustibili. Quali sono le risultanze scientifiche di tale studio?
È possibile stimare in media quanto inquina ogni anno una centrale a carbone italiana?
Sì, abbiamo commissionato alla Stazione sperimentale per i combustibili uno studio sulle emissioni di C02 al fine di analizzare le effettive emissioni nel corso dell’intero ciclo di vita. Più in particolare, lo studio mette a confronto le emissioni di C02 di carbone e gas non solo nel momento della combustione, ma anche nelle fasi pre-combustione. Il confronto sull’intero ciclo di vita riduce le distanze: le emissioni complessive di gas serra risulterebbero comprese tra i 510 e 670 grammi di C02 equiv./kWh – 420 se il gas fosse prodotto in Italia – per il gas, tra i 780 e i 910 grammi di C02 equiv./kWh per il carbone. I dati pre-combustione infatti evidenziano un livello di emissione di C02 maggiore per il gas, con picchi di 288 gr. di C02 -equiv./kWh nel caso del gas russo. Mentre, per quanto riguarda il carbone, si registrano emissioni pari a 127 gr di C02 equiv./kWh nel caso dell’estrazione da miniera sotterranea e appena 12 gr di C02-equiv./kWh in caso di miniere di superficie.
È corretto l’antico postulato secondo cui, tra le fossili, la risorsa meno sostenibile e più impattante da un punto di vista ambientale è proprio il carbone?
No, non sono d’accordo. Presentare il gas come una soluzione alla lotta per il cambiamento climatico non sembra giustificato da vari studi scientifici di autorevoli centri di ricerca, che
hanno dimostrato come considerando l’intero ciclo di vita dei combustibili fossili venga significativamente ridotta la distanza tra le emissioni di C02 generate dal carbone e quelle generate dal gas. In particolare, è ormai ampiamente dimostrato che lo shale gas e le tecniche di fracking abbiano come conseguenza gravi problematiche ambientali: molti studi americani – Robert Howarth, Cornell University, Frank Clemente, Penn University – e inglesi – l’ultimo in ordine temporale è stato presentato dal professor Nick Cowern in Gran Bretagna alla Commissione sul Cambiamento Climatico – invitano con forza a tenere in considerazione i danni prodotti agli ecosistemi dall’estrazione dello shale gas. Un esempio su tutti: il forte aumento delle emissioni inquinanti rilasciate in atmosfera nella regione africana del Sahel. Le conclusioni dei vari studi hanno sempre ribadito che lo shale gas presenta emissioni maggiori di C02 rispetto al carbone, liberate soprattutto in fase di estrazione: tali risultati devono necessariamente essere introdotti nelle valutazioni di politica energetica di ogni Paese. Inoltre un recente studio della prestigiosa società di consulenza Pòyry Management Consulting ha comparato le emissioni inquinanti delle centrali termoelettriche alimentate a carbone rispetto a quelle di centrali a gas a ciclo combinato, quando esse operano non a pieno carico ma a carico ridotto o variabile. Dalla ricerca è emerso che quando le centrali operano a pieno carico, le emissioni inquinanti di carbone e gas risultano simili. Quando invece i rispettivi impianti operano a carico ridotto o variabile, e si considerano correttamente le emissioni indirette, le emissioni delle centrali a gas giungono ad essere del 76 percento più alte rispetto alle quelle delle centrali a carbone. Lo studio di Pòyry avvia un’ulteriore riflessione sulla modalità di utilizzo delle centrali termoelettriche: poiché le centrali alimentate da combustibili fossili sono sempre più spesso chiamate ad intervenire in maniera flessibile per compensare l’intermittenza delle fonti rinnovabili, diviene doveroso tenere in considerazione che a fronte di questo tipo utilizzo la compatibilità ambientale del carbone è maggiore rispetto al gas.