La giornalista Antonella Napoli, direttrice di Focus On Africa, parla della ripresa del conflitto nel Sahara Occidentale come di un esito annunciato. «Sono trascorsi 30 anni di stasi totale dagli accordi del 1991. Questa guerra, dalle conseguenze devastanti, è figlia dell’ignavia della comunità internazionale e certifica il fallimento delle Nazioni Unite. L’Italia promuova un cambio di marcia».
«Anche se ferito, mutilato, prostrato nella sabbia, un Saharawi è sempre in grado di rialzarsi». Per la giornalista Antonella Napoli, direttrice di Focus On Africa, è questa la principale caratteristica del popolo Saharawi: la resilienza, la capacità di ricominciare, di tornare a vivere e lottare per la propria terra. Il Sahara: il deserto dal quale i Saharawi prendono il nome che vuol dire, appunto, sahariano. Una storia dalle radici profonde che Antonella Napoli ha incrociato nel 2014, al seguito di una missione dell’intergruppo parlamentare di amicizia con il popolo Saharawi. Un lavoro di campo dal quale è nata una conoscenza profonda che si è poi trasformata in una relazione che va ben al di là del semplice dovere di raccontare.
Antonella Napoli, qual è la miccia che ha riacceso il Sahara Occidentale?
La gente Saharawi è stanca e arrabbiata e questa volta non si fermerà. Lo ha detto lo stesso presidente della Repubblica Saharawi, Brahim Ghali, che ho intervistato nelle scorse settimane. Stiamo parlando di un popolo che è stato lasciato solo e ha reagito di fronte all’ennesima violazione degli accordi per il cessate il fuoco perpetuata dal Marocco, malgrado gli appelli dell’Onu, dell’Unione Africana e di altri attori internazionali, anche europei. Sollecitazioni rimaste lettera morta: in queste condizioni, la ripresa degli scontri era inevitabile.
Non appena Podemos, forza di governo in Spagna, ha preso posizione a sostegno del popolo Saharawi, il Marocco ha riaperto le rotte migratorie verso le Canarie. Un caso che racconta la debolezza dell’Europa nell’area mediterranea.
È chiaro che ci sono in gioco interessi diversi e le forme di ricatto a cui ricorre il Marocco stanno determinando una situazione insostenibile. L’Europa, dal canto suo, è corresponsabile dell’escalation. Sottoscrivere, per esempio, nuovi accordi per la pesca con il Paese magrebino ha significato ratificarne una serie di scelte politiche illegittime. In questa partita, invece, l’Europa e, al suo interno, l’Italia potrebbero giocare un ruolo diplomatico determinante. Ad Algeri, è arrivato il nuovo ambasciatore italiano. Roma potrebbe farsi promotrice di un’iniziativa che solleciti una soluzione politica della crisi anche se, a questo punto, ci sono poche speranze di fermare gli scontri. Per quanto difficile, bisognerebbe fare pressione sugli interessi economici del Marocco e indurlo a fare retromarcia rispetto a quelle politiche che hanno indotto la reazione Saharawi.
Si riferisce alla Berma del Sahara Occidentale?
Esatto. Rabat ha edificato, lungo il confine con i territori liberati, un muro di quasi 3mila chilometri disseminato di bunker, fossati e campi minati. Ma non dimentichiamo che ha anche realizzato una strada asfaltata nell’area cuscinetto di Guerguerat, al cuore della contesa attuale. Quell’opera rappresenta una chiara violazione degli accordi del 1991 che avrebbero dovuto consentire la celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo Saharawi.
Dal 1991 sono trascorsi esattamente 30 anni. Quello del Sahara occidentale è uno dei tanti dossier dimenticati dell’Africa.
I temi africani, le situazioni di crisi di cui è disseminato il continente, ricevono troppa poca attenzione e la questione del Sahara Occidentale si è protratta per tropo tempo. Era inevitabile che la situazione, prima o poi, precipitasse. Sono trascorsi 30 anni di stasi totale: tre decenni nel corso dei quali un popolo, che aveva rinunciato alla violenza delle armi per affermare, in maniera pacifica, il proprio diritto a esistere, ha atteso invano. Una vicenda che certifica il fallimento delle Nazioni Unite che pure avevano assunto impegni precisi. Il fatto, poi, che esistessero accordi già definiti rende tutto questo ancora più dolorosa.
Tutto questo riveste di una certa ipocrisia gli appelli alla pace che si sono succeduti dopo la ripresa del conflitto.
Le guerre non possono mai essere giustificate ma, ribadisco, questa recrudescenza era un esito annunciato. La Repubblica Democratica e il fronte Polisario, negli anni, hanno messo in campo una forte un’azione educativa con progetti focalizzati su istruzione e inclusione. Un lavoro sostenuto dalla cooperazione, ma mortificato dalle istituzioni internazionali, venute meno ai propri impegni. A cominciare proprio dall’Onu: gli inviati che si sono avvicendati sul campo non hanno portato alcun risultato concreto. Al pari delle maggiori diplomazie direttamente coinvolte, come Francia e Spagna. La comunità internazionale, abbandonando il Sahara Occidentale, ha dilapidato uno sforzo enorme compiuto per costruire, diffondere e consolidare un linguaggio di pace. Sono state l’ignavia e l’indifferenza globali a riaccendere una fiamma che bruciava sotto la cenere di interessi incrociati, alimentata dall’incapacità di produrre un’azione politica e diplomatica seria, in grado di raggiungere una soluzione definitiva.
Cosa si rischia ora?
Purtroppo, già nei primi giorni di scontri si sono registrate delle vittime, il cui numero non potrà che aumentare su entrambi i fronti. Questa come tutte le guerre avrà conseguenze pesanti. I giovani Saharawi non hanno mai conosciuto la libertà. Negli anni hanno accumulato frustrazioni che oggi hanno trovato sfogo nelle armi. La sensazione è quella di aver buttato via anni e se non si lavora per una normalizzazione si rischia una guerra totale. La situazione è complessa. Nella stessa comunità Saharawi, infatti, il dibattito è molto forte, tra chi appoggia la linea dura contro il Marocco e chi invece, con spirito critico e pacifista, punta a riportare la questione sul piano politico, rilanciando le trattative per il referendum. Una cosa è certa: il tempo delle parole e delle retromarce è finito: la comunità internazionale in qualche modo ha tradito il popolo Saharawi.
Antonella, cosa la lega tanto al popolo Saharawi?
Lo spirito tenace che lo contraddistingue. Come detto, lungo il muro costruito dal Marocco c’è un campo minato. Durante il mio primo viaggio nei territori, ho avuto modo di andare nel centro che si trova proprio a ridosso della Berma, dedicato alla riabilitazione delle vittime delle mine. Lì ho conosciuto tanti Saharawi senza gambe, senza braccia e che, malgrado ciò, hanno compiuto un importante percorso di ripresa. Hanno imparato a utilizzare le protesi e sono tornati a guidare, a insegnare, a lavorare. Immagini che sono per me metafora di un popolo straordinario. Nonostante le gravi mutilazioni e le limitazioni patite, i Saharawi hanno trovato il coraggio di rialzarsi, più forti di prima. È l’intensità di questa gente del deserto dal quale traggono la loro stessa essenza. Per sopravvivere nel Sahara e resistere al suo sole cocente, bisogna essere poderosi, tenaci. A cominciare dalla pelle. Questo è lo spirito dei Saharawi: anche quando finiscono a terra mutilati, prostrati nella sabbia e nella polvere riescono sempre a ricominciare. Il mio non è solo un legame: è un vero trasporto per il popolo Saharawi.