Esiste un legame tra le attività industriali svolte nel polo petrolchimico gelese ed alcune patologie croniche e non ereditarie che da decenni colpiscono soprattutto i neonati?
Le malformazioni congenite registrate a Gela sono ascrivibili, sotto il profilo causale, agli inquinanti industriali derivati dalla presenza ed operatività degli impianti attivi e dismessi della RaGe (Raffineria Gela), Syndial spa (ex Agricoltura spa, ex Enichem) ed Eni spa? Esiste un nesso di causalità che leghi indissolubilmente sotto il profilo qualitativo, modale, cronologico e topografico quelle patologie croniche e non ereditarie all’attività continuativa svolta dal gruppo Eni sul territorio gelese? I sette periti incaricati dall’ex presidente del Tribunale di Gela, Alberto Leone, sono stati chiamati a rispondere ad un quesito che non può esaurirsi nel momento stesso in cui lo si formula. Il germe del sospetto si è insinuato in una comunità che, per oltre cinquant’anni, ha convissuto con la raffineria e tutto ciò che ha rappresentato: il miraggio dello sviluppo condizionato dalla fame di lavoro. Oggi, pensare al petrolchimico come all’ago attraverso cui sono stati iniettati nell’ambiente mutageni e teratogeni tali da produrre malformazioni congenite e non ereditarie, fa un certo effetto. A prendere il sopravvento è la fame di giustizia.
La storia del procedimento sulle malformazioni neonatali non è unidirezionale. È come un solido fusto sui cui hanno iniziato ad innestarsi, volta per volta, una serie di lunghe ramificazioni fatte di esami, inchieste, sopralluoghi, perizie e controperizie. I sei membri iniziali del Collegio scelgono di prendere in esame comparti specifici della RaGe. Vengono analizzati impianti primari della raffineria come quelli di Coking (1 e 2) e Fluid Catalytic Cracking (FCC). Vengono scandagliate anche strutture attinenti alla chimica di base come l’impianto di cloro-soda, quello di trattamento delle acque di scarico (TAS) e il biologico industriale, adibiti alla depurazione delle acque industriali, nonché la centrale termoelettrica per la produzione di facilities. Vapore ed energia elettrica.
Per ciascuno degli impianti analizzati è stata redatta una relazione a parte, formulata su precisi monitoraggi e dati: quelli dell’Eni. Da ognuna di quelle strutture sono stati individuati e separati inquinanti riconosciuti come interferenti endocrini o potenzialmente tali.
Il 5 febbraio 2015 il Collegio dei Ctu – dopo le dimissioni del professor Francesco Patania – viene integrato di altri due membri scelti sulla base di competenze tecnico-scientifiche inoppugnabili: entrano in scena i docenti Benedetto De Vivo e Alessandro Bacaloni. Il primo – ordinario di Geochimica ambientale presso l’Università Federico II di Napoli – con una lunga competenza alle spalle in materia di bonifica di ex siti industriali; il secondo, professore associato presso il dipartimento di Chimica dell’Università La Sapienza di Roma.
Il 10 luglio la perizia formulata dal Collegio dei sette entra materialmente a far parte degli atti del procedimento. Trentuno le relazioni depositate, dodici i casi di malformazioni riguardanti i bambini, più di dodicimila le pagine su cui verteranno le prossime udienze del processo guidato dal giudice Valentina Balbo.
Tale è la portata della relazione di consulenza tecnica depositata dai membri del Ctu che quello stesso documento, oggi, è asse portante del ricorso cautelativo d’urgenza presentato da oltre 500 cittadini gelesi per danno da inquinamento ambientale. Gela chiede il sequestro degli impianti del petrolchimico, un indennizzo per danni morali ed esistenziali, la sospensione di nuove trivellazioni e, soprattutto, le bonifiche. Il Comune, da parte sua, non solo aderisce alle istanze dei ricorrenti ma esige lo stanziamento di un fondo di 80 milioni di euro per andare incontro alle esigenze dei lavoratori rimasti esclusi dal ciclo produttivo. L’Eni ha già risposto. Tramite i suoi legali ha fatto sapere che qualora il ricorso fosse accolto, potrebbe compromettere, non solo la possibilità di rispettare il protocollo d’intesa e gli oltre due miliardi di euro di investimenti per il sito di Gela, ma persino la permanenza della multinazionale nell’area. Il braccio di ferro è solo all’inizio.
Ricostruendo il caso Gela ci siamo trovati di fronte a malformazioni, richieste di risarcimento danni milionarie, bonifiche e la plausibile riconduzione a ipotesi di disastro ambientale. Ma cosa sostiene effettivamente la perizia tecnica? Parla, come pure si è scritto di una causalità manifesta?
Lo abbiamo chiesto a chi, su quella documentazione, ha stilato l’analisi di rischio. Il professor Benedetto De Vivo non può, per la natura della carica peritale a cui è stato chiamato, farsi trasportare dalla rabbia e la frustrazione di una rinata comunità che combatte per affermare il proprio diritto alla salute. Deve attenersi ai fatti. E i fatti dicono che la partita si gioca su una multi fattorialità ambientale manifesta e un nesso di causalità con le attività svolte dalla RaGe fragile e sottile come un capello.
Professor De Vivo, lei viene nominato membro del Collegio dei Ctu solo una manciata di mesi prima che la relazione fosse effettivamente depositata. Qual è stato il suo contributo, in termini scientifici, alla redazione della perizia?
Sì, in effetti sono arrivato in questo Collegio solo negli ultimi mesi quando il lavoro era stato in buona parte già svolto. Uno dei componenti del Collegio si era dimesso e il Tribunale di Gela era alla ricerca di un sostituto. Contemporaneamente è venuto fuori anche l’incarico di Ctu per il procedimento penale inerente alla RaGe. Per quanto riguarda le analisi chimiche non sono state prodotte misurazioni ex novo. Mi sono basato sui dati già in possesso del Collegio che vertono sulle documentazioni delle emissioni di inquinanti già disponibili e depositate agli atti del procedimento. Sulla base di quei dati è stata stilata l’analisi di rischio.
Mi perdoni, dunque non sono stati effettuati studi ex novo?
In termini di rilevamento di contaminazioni no. Per le mie analisi mi sono basato sui dati già in possesso del Collegio, come ho specificato.
Sui dati Eni?
Esatto. Sulla base dei dati Eni è stata redatta un’analisi di rischio. Questa analisi si compone di un’ottima conoscenza della situazione ambientale e di tutti gli elementi presenti nell’ambiente e nelle varie matrici. Tutto dipende un po’ dalla bontà del dato di partenza: se il dato mi dice che non c’è inquinamento, l’analisi che viene fuori indica assenza di rischio.
E a Gela cosa raccontano i dati Eni? Anche in questo caso il rischio non è ammissibile?
Nel caso Gela, pur volendo, non avrei avuto il tempo materiale per produrre dati miei e ho utilizzato quelli forniti dal Collegio di Ctu. Siamo partiti dai riferimenti dell’Eni stessa e dai suoi dati. Non ho fatto nuove analisi di carattere chimico. Da quella analisi è venuto fuori che c’è un rischio non ammissibile per alcuni dei contaminanti riportati dall’Eni.
Questo dimostra che c’è un nesso di causalità tra questo rischio non ammissibile e le malformazioni?
Assolutamente no. Questo tipo di analisi va fatto a livello specifico analizzando caso per caso, con nuove misure. A stabilire il rapporto di causa effetto deve essere la medicina sulla base di rilievi specifici.
Quindi non c’è nesso di causa effetto?
Potrebbe essere un dato indiretto. Se abbiamo delle malformazioni X che si manifestano per effetto di anomalie, e questo accade in prossimità di un apparato industriale che produce quei contaminanti, ciò potrebbe essere una plausibile conseguenza. Ma diventa un discorso probabilistico. Può essere, cioè, altamente probabile che sia stata quell’attività e non un’altra. A Gela c’è una raffineria enorme. È evidente che l’eventuale sorgente dei contaminanti non sarà di certo il campo che produce pomodori e broccoli.
Lei però sostiene che tutto dipende dalla bontà del dato di partenza. Dunque avete ritenuto affidabili i dati Eni…
Personalmente, come ho specificato, non avevo la possibilità materiale in un mese di poter effettuare analisi che, nel caso della raffineria, avrebbero richiesto almeno qualche anno. Sostanzialmente il mio ruolo consisteva nel validare quanto era stato fatto nel periodo precedente alla mia nomina dal Collegio di Ctu. A me è stato messo a disposizione un file che riportava essenzialmente i dati di emissione della RaGe. Si trattava di dati risultanti da misure e stime su ciascuno dei comparti industriali analizzati. Non sarebbe stato possibile effettuare misurazioni ex novo, sia da me che da parte del professor Bacaloni, in quanto siamo intervenuti quando i tempi per depositare la relazione erano praticamente quasi scaduti.
Quali sono i contaminanti che sforano i parametri legislativi?
Principalmente arsenico, mercurio, benzene, cloruro di vinile e dicloretano provenienti da caratterizzazioni effettuate all’interno dell’area SIN di Gela. Sui suoli, per quanto concerne i composti organici, si parla di un superamento delle soglie fino a quattro ordini di grandezza. Nell’acqua si parla di un superamento pari addirittura a sette ordini di grandezza. Per altro, in letteratura scientifica sono disponibili dati relativi alla concentrazione di alcuni elementi come antimonio, piombo, rame e zinco nella polvere stradale dell’area urbana di Gela.
Ma si può scientificamente affermare che la fonte di quei contaminanti sia la RaGe? Lei d’altra parte è anche membro del Collegio peritale dell’altro procedimento, quello penale. In quel caso, ci risulta siano state condotte misurazioni ex novo. Da quelle analisi si evince che la sorgente degli inquinanti è la RaGe?
In quel caso, per quanto riguarda i suoli, abbiamo effettuato rilievi in tre punti: a monte dell’area RaGe, al suo interno e a valle. La misurazione di alcuni metalli risultava già alta a monte della raffineria: non si poteva pertanto affermare che quella fosse l’unica sorgente. Però bisogna considerare che quella è un’area circondata da pozzi petroliferi estrattivi. Se isoliamo la raffineria è un conto, se parliamo dell’attività petrolifera e dei sondaggi che possono aver prodotto inquinamento, è un altro. Ma anche i pozzi petroliferi rientrano tra le attività cosiddette ‘antropiche’. Se l’area è altamente caratterizzata dall’estrazione di idrocarburi, è chiaro che quei parametri li riscontro anche all’esterno della RaGe. Dunque l’alterazione di quelle misurazioni non è imputabile alla sola raffineria ma anche alla complessità delle attività estrattive che contornano l’area.
Questo discorso vale anche per la contaminazione di arsenico nei suoli? L’arsenico non è forse uno di quei metalloidi di sicura provenienza industriale?
Certo. Ma quella serie di metalli e metalloidi nei suoli li abbiamo rilevati anche a monte della RaGe. Mi spiego. Se io a monte non li avessi riscontrati, e poi li avessi invece misurati all’interno e a valle della RaGe, si sarebbe potuto sostenere che la sorgente fosse la raffineria. Se quegli stessi elementi li ritrovo anche a monte della RaGe, è un po’ difficile sostenere la tesi che sia colpa unicamente della raffineria, il tipo di attività svolto dalla RaGe può assoluta-mente produrre quel genere di contaminante, ma bisogna comunque andare sullo specifico. Tuttavia l’arsenico è legato in ogni caso alla presenza di idrocarburi nell’area. Ne viene fuori una multi fattorialità che può essere ricondotta anche all’attività estrattiva e non solo a quella di raffinazione.
Cosa accade se invece quelle stesse concentrazioni di arsenico vengono misurate nell’aria?
Beh, se trovo queste concentrazioni di arsenico nell’aria allora è molto più probabile che la sorgente siano le emissioni industriali, in quel caso, è chiaro che il soggetto potenzialmente ‘colpevole’ diventa la RaGe. Ma tutto va dimostrato scientificamente in modo deterministico. Nel caso dell’analisi di rischio, ci esprimiamo in termini di probabilità.
Per quanto riguarda le emissioni sono anche stati condotti studi che avrebbero correlato al rilascio di particolari inquinanti la contaminazione delle produzioni agricole e, nel contesto, dell’intera catena alimentare. In questo caso la principale sorgente di contaminazione viene principalmente dall’aria, dall’acqua o dal suolo?
Vuol conoscere il mio punto di vista?
Certo, mi dica…
Si fanno tante battaglie, anche in Campania, per la bonifica dei suoli inquinati. Ma per me il problema grosso viene dall’aria, non dai suoli. I contaminanti presenti nei suoli al 99 per cento non passano nei prodotti agricoli. Discorso diverso è se quel che si trova nei suoli passa nella falda. Insomma, bisogna ragionare in termini di biodisponibilità e non di concentrazioni totali che si riscontrano nei suoli. Per quanto riguarda i metalli, solo circa lo 0,1 percento diviene biodisponibile. Vale a dire che passa dalla matrice solida (suoli) a quella liquida (acqua di falda). Qual è poi la percentuale che dalla falda si sposta alle radici e da queste alte parti edibili delle piante? Ancora di meno, il grosso dei metalli viene bloccato a livello di apparato radicale. Sono quindi potenzialmente più a rischio colture tipo ortaggi, ma non gli alberi da frutta. Dall’aria, invece, i contaminanti si depositano su foglie e frutti. Potrei piantare paradossalmente un frutteto sulla peggiore delle bonifiche e ottenere comunque frutta buona. Se il problema è legato all’atmosfera, si genera un effetto di ricaduta al suolo pertanto le conseguenze sono pressoché immediate. Le emissioni monitorate nell’area di Gela attengono a scomparti specifici della RaGe. Abbiamo valutato se fossero o meno sotto soglia.
La società ha dichiarato di aver ottemperato a tutte le prescrizioni imposte dal Ministero per quanto riguarda i contaminanti. È così? Quali dovrebbero essere in questo caso gli organi terzi preposti al controllo?
Guardi, questo è un problema tutto italiano.bLa regola, qui, è il conflitto d’interesse a tutti i livelli e in tutti gli organi preposti al monito-raggio e al controllo. C’è una commistione di interessi fra politica e scienza incredibile. Cito il caso della nomina alla Presidenza dell’Ingv di un professore universitario che, nell’atto di nomina, viene definito dal Ministro del MIUR che lo propone come “un ricercatore universitario di medio livello”. Lo dice il Ministro, non lo dico io. 0 potremmo invece citare il Presidente dell’Ispra, unico caso di un condannato con sentenza definitiva in Cassazione che resta ancora in carica nonostante la condanna. Quali scelte volete che possano discendere da persone che, con siffatte premesse, vengono messe dalla politica in posizione di controllo in Enti di primaria importanza per il Paese? I requisiti ottimali? Questo è un Paese dove merito e competenze non esistono, esiste solo l’appartenenza. Manca la terzietà dei controlli a tutti i livelli. E questo è un problema politico. Chi dovrebbe premiare la competenza? Tanti centri etichettati nelle Università come ‘Centri di Appartenenza’? Andrebbero chiusi tout court. Ne viene fuori una catena degenerativa per cui tutti sono responsabili di tutto ma nessuno è veramente responsabile di niente. E naturalmente chi “non appartiene” non è nemmeno “competente”.
Alla luce di tutti questi elementi, a Gela è ipotizzabile una bonifica? E nel caso in cui questa dovesse aver luogo, dovrebbe riguardare la sola RaGe o anche tutta un’altra serie di aree?
Cosa si bonifica? La raffineria? Se partiamo dal presupposto che il grosso degli inquinanti venga da quei camini e le emissioni non siano adeguate ai parametri fissati dalla legge, è lì che bisogna agire, in sostanza, uno Stato che disponga di organi di controllo terzi, dovrebbe costringere l’azienda a dotarsi di quelle tecnologie necessarie a contenere le emissioni. Parliamo di investimenti che abbiano come specifico oggetto una tecnologia più avanzata, di cui le grosse società dovrebbero essere obbligate a dotarsi pena la chiusura dell’impianto. Si può fare anche in modo che non si inquini, che non vengano contaminate le matrici ambientali. Nel caso di Taranto, non si sta dicendo che non si debba più produrre acciaio. Semplicemente, non bisogna inquinare, il problema per le aziende è che dotarsi delle tecnologie avanzate per impedire le contaminazioni ambientali costa. Ma si può fare.
Professore, esiste la bonifica perfetta? È possibile ripristinare esattamente lo stato dei luoghi e renderli così com’erano prima delle attività antropiche?
Per me la bonifica perfetta non esiste. O meglio, costa talmente tanto che bisogna chiedersi se l’impresa vale la spesa. Negli Stati Uniti, nel 99 percento dei casi, si parla di messe in sicurezza permanenti non di bonifiche. È utopistico pensare di ristabilire esattamente lo stato dei luoghi naturali. Bisogna ipotizzare, prima di porre in essere scriteriati interventi, delle analisi costi-benefici. È molto meglio pensare a monte a destinazioni d’uso dei suoli compatibili sulla base della medesima analisi costi-benefici.
Quindi lei ritiene che la bonifica sia un business?
L’ambiente, in generale, è il più grande business che esista. Le bonifiche lo sono di conseguenza. Bisogna stare attenti quando si parla di bonifiche. Ci sono moltissime associazioni ambientaliste che, in perfetta buona fede, fanno tante battaglie invocando le bonifiche: ma poi nessuno controlla il risultato di quelle operazioni di risanamento ambientale. Perché si invocano le bonifiche in Terra dei Fuochi più sulla base di emozioni che di solidi dati scientifici? Perché chi ha inquinato ora deve proporsi sotto mentite spoglie per occuparsi della bonifica. E così, ci guadagna dieci volte.
La bonifica è ciò che a gran voce viene invocato anche a Gela. Chi dovrebbe pagare?
La legge in teoria stabilisce che chi inquina, paga, in questo caso, se la RaGe o una qualsiasi attività collegata determinano l’inquinamento, per legge dovrebbero essere loro a pagare.
Si può per Gela supportare scientificamente e tecnicamente l’ipotesi di disastro ambientale permanente?
Se il disastro ambientale è correlato alle sole emissioni, è evidente che non possa essere ‘permanente’. L’inquinamento cessa nel momento in cui vengono contenute le emissioni della sorgente inquinante. Se invece facciamo riferimento alle falde, non può essere considerato permanente ma ha sicuramente tempi di smaltimento più lunghi. Se si parla di contaminanti come diossina, PCB o pesticidi si può usare il termine permanente. Non a caso questi inquinanti vengono definiti in letteratura come POP, vale a dire Persistent Organic Pollutants. Persistenti, perché a livello di attuali conoscenze, non si sa che durata avranno nelle matrici dove sono dispersi. Tornando a Gela, la necessità è quella di individuare la sorgente del contaminante. Capire se bisogna intervenire sui camini, nel caso delle emissioni, o piuttosto sulle falde.
Nel caso di contaminazione delle falde, prenderebbe in ipotesi la bonifica?
No, parlerei di messa in sicurezza. Come nel caso di Terra dei Fuochi. La possibilità, cioè, di individuare la sorgente e circoscrivere l’area. Poi, a livello di sito specifico, si possono creare opere di contenimento intorno alle aree inquinate con barriere reattive capaci appunto di bloccare la diffusione dei contaminanti. Vi sono per esempio argille particolari, trattate per incrementare anche di mille volte la capacità naturale di contenimento delle sostanze organiche. Si dovrebbe iniziare poi a discutere della destinazione d’uso e, dopo un numero X di anni, si controlla se effettivamente c’è stata una progressiva decontaminazione. Solo in casi eccezionali, a mio avviso, si può parlare di bonifica. Se volessimo bonificare tutti i siti potenzialmente inquinati d’Italia, certo non basterebbero i soldi dell’intera Europa. Se estendessimo il ragionamento a tutto il mondo industrializzato, ci renderemmo conto che è una follia.