Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Il ghetto di Borgo Mezzanone tra mafie e perdizione

Dalla vicenda di Desirée Mariottini alla mafia nigeriana ed altri sodalizi criminali, dalle responsabilità politiche e amministrative alle associazioni, ai gruppi di volontari e del sindacalismo di base. Da questa intervista doppia di Emma Barbaro e Leonardo Palmisano sul “sistema” Borgo Mezzanone emerge uno spaccato, a tratti inedito, di abbandono subumano, di povertà sociale e culturale, di un territorio interamente controllato dalla malavita.

INTERVISTA DI EMMA BARBARO A LEONARDO PALMISANO

Borgo Mezzanone, 29 ottobre 2018

Foto: L’interno della chiesta pentecostale nigeriana. Luogo in cui si teme possano annidarsi i maggiori esponenti del gruppo criminale noto come “asce nere” // Emma Barbaro

Leonardo, la morte di Desirée Mariottini è un gigantesco campanello d’allarme. La sua storia, fatta di emarginazione e ghettizzazione sociale, è terribile perché questa ragazza sembra essere stata uccisa due volte: quando le istituzioni in senso lato non sono state in grado di interpretarne il profondo disagio e quando, successivamente, è stata brutalmente assassinata in uno stabile del quartiere San Lorenzo, a Roma. È questo quel che accade quando l’apartheid non è più un fenomeno razziale ma una questione sociale e di povertà?
Il caso di questa ragazza mi fa pensare a una negativa congiunzione sociale. Miserie, dipendenze, egemonia maschilista che insieme producono un mix mortale. Prima del giudizio morale, ovviamente, provo a fare un’analisi dell’accaduto. Il luogo, la povertà, la tossicodipendenza, la povertà culturale hanno favorito un assassinio brutale. Siamo in un Paese che produce povertà e dipendenze. Dipendenza da una droga in particolar modo: il denaro. E infatti, almeno uno degli aguzzini della ragazza era una specie di narcotrafficante. È evidente che questa divinizzazione delle droghe e del denaro alimenta un sistema di disvalori violenti, dove il maschio torna a sentirsi proprietario di un corpo per il solo fatto di essere maschio. Il colore della pelle c’entra ben poco.

Uno dei responsabili di questa morte atroce ha poi cercato rifugio nel gran ghetto di Borgo Mezzanone. Tuttavia quando è stato arrestato è stato trovato in possesso di ingenti quantitativi di droga. La domanda sorge spontanea: secondo te era entrato nella baraccopoli per far perdere le proprie tracce o, piuttosto, per perseverare nella propria azione criminale? Quel ghetto è forse la linfa vitale dei moderni sistemi malavitosi?
Borgo Mezzanone, a partire dal Cara, è un nido di mafie. È un territorio controllato internamente dall’Ascia Nera nigeriana ed esternamente dalla famiglia Romito di Manfredonia. Il Cara ha forti responsabilità e andrebbe immediatamente smantellato. Aver consentito l’impianto di bordelli e angoli per il consumo di droghe ha alimentato la mafia nigeriana, l’ha fatta crescere fino a diventare padrona del territorio. Borgo Mezzanone è l’emblema del fallimento delle politiche di accoglienza italiane. Vi soggiornano esseri umani tenuti in condizione subumana, sotto il tallone della più feroce mafia africana, sotto il controllo dei caporali legati alla potentissima mafia del Gargano. Questo è il fallimento di tutti, nessuno escluso. Compresi quegli apparati dello Stato, i governi locali e regionale, che non hanno saputo guardare lungo e che si sono limitati a produrre un inutile welfare di contorno. Il problema non è il welfare, ma il lavoro. Questi esseri umani non hanno futuro occupazionale sano in quel luogo, non a quelle condizioni.

Come è stato possibile che Borgo Mezzanone si sia trasformato, nel sonno delle istituzioni, nel fulcro di un sistema criminale che si innesca proprio da un’istituzione “legale” come quella del Centro di accoglienza per richiedenti asilo?
Le Asce Nere sono intelligenti, robuste, furbe, demograficamente grasse. Sono violente. A Borgo Mezzanone governano lo spaccio e la prostituzione per i neri e per i bianchi. Non hanno rivali perché collaborano con i mediatori della famiglia Romito e dei loro alleati della città di Foggia. Hanno scalzato i bulgari, che solo grazie a percorsi di affiliazione presso gli italiani si sono potuti salvare. Hanno ridimensionato i rumeni. Quello che manca ai nigeriani è un rapporto forte con i colletti bianchi, ma lì ci pensano gli italiani. Anche se io sospetto che tra mafia nigeriana e un pezzo del sistema dell’accoglienza del territorio foggiano vi sono contatti e legami, altrimenti non mi spiegherei come mai le nuove baracche bordello sono in mattoni, gli stessi mattoni usati per erigere chiese e altri luoghi di culto.

Dunque i nuovi sodalizi si innescano su base locale per coinvolgere interi sistemi mafiosi transnazionali. Perché i Romito hanno bisogno delle Asce Nere?
La mafia nigeriana ha un vantaggio competitivo forte: arriva ovunque, perché è una rete europea. Questo vantaggio la sottopone all’attenzione delle mafie pugliesi che importano marijuana. I nigeriani possono coprire territori vastissimi, portare droga a Roma, per esempio. E comperano in contanti, perché incassano milioni di euro dallo sfruttamento della prostituzione. È evidente che sono ottimi partner d’affari delle mafie italiane. Non hanno rivali nei bassifondi del crimine mafioso e stanno crescendo in numero e intelligenza perché le loro teste, residenti in Nigeria, investono in banche, politica, sistemi informatici, miniere. Tra qualche anno potrebbero diventare la terza mafia al mondo, dopo quelle italiane e messicane. I loro rituali di affiliazione e di strutturazione, simili a quelli ‘ndranghetisti, la dicono lunga sulla loro intelligenza. Siamo di fronte ad un fenomeno in grande, violenta espansione. Sono i barbari sovrani degli spazi occupati per lo spaccio.

INTERVISTA DI LEONARDO PALMISANO A EMMA BARBARO

Borgo Mezzanone, 29 ottobre 2018

Foto: Lo smaltimento di rifiuti. Quando le discariche abusive traboccano, gli scarti vengono dati alle fiamme // Emma Barbaro

Emma, il Sud è spesso descritto come il luogo della miseria. Ma il quartiere di San Lorenzo è a Roma. Quanto può estendersi, secondo te, il sistema del ghetto al servizio delle mafie in Italia? E quanta responsabilità hanno le amministrazioni pubbliche?
I ghetti sono luoghi simbolo di segregazione. Oggi, tuttavia, il concetto di ghetto valica i confini di un’entità fisica o geografica. Per intenderci, non sono quei luoghi il cui perimetro è esattamente identificabile, definibile, circoscritto. Sono piuttosto intere realtà sociali intessute di emarginazione, di povertà, di esclusione. La verità è che anche l’apartheid è divenuto un principio liquido. Non è più unicamente una questione razziale, ma un fatto sociale che colpisce tutti trasversalmente. Il cui minimo comune multiplo continua a essere la povertà. Del resto il “Rapporto Caritas 2018 su povertà e politiche di contrasto” parla chiaro. La povertà assoluta tende ad aumentare al decrescere dell’età. I minori e i giovani rappresentano le categorie più svantaggiate non solo per l’incapacità d’accesso a beni e servizi indispensabili – istruzione e lavoro in primis – ma anche, aggiungerei, perché il cosiddetto “sistema” sta lentamente spegnendo le speranze, le attitudini, le ambizioni. In tale contesto, laddove le istituzioni formali creano vuoti d’azione concreta, il proliferare delle mafie non può stupire. Che, non a caso, divengono più forti lì dove capitale sociale e culturale sono più deboli. Il potere delle mafie sta nell’esercitare quella funzione di assistenza sociale e di accompagnamento che lo Stato reale ha smesso di imprimere.

Siamo abituati a pensare che i ghetti e le baraccopoli sono luoghi per soli adulti, maggiorenni. Tu, invece, più volte hai parlato dei bambini che vi risiedono. Che ne è di questa infanzia nera?
Non è stato semplice accertare l’esistenza di bambini all’interno del ghetto. Su questo aspetto c’è sempre stato un clima di forte omertà. Temono di perdere i propri figli, hanno paura che le istituzioni glieli tolgano. Per questo li tengono nascosti nelle baracche, celati agli occhi e alle possibili cure di visitatori esterni. Anche quando i visitatori esterni sono membri di associazioni che si occupano di fornire assistenza medica o sociale. È stato complicato per me riuscire a interagire con loro. Ho dovuto, di volta in volta, cambiare metodo d’indagine adattandolo alla realtà che avevo davanti. Anziché continuare a porre domande scomode a chi non poteva e non voleva rispondere, ho cominciato ad analizzare ciò che vedevo. Guardando tra i cumuli di rifiuti spesso dati alle fiamme, tra i giochi dismessi e abbandonati, entrando nelle baracche e osservando. È passato del tempo prima che riuscissi a instaurare un clima di fiducia. Ma poi, a poco a poco, una verità sommersa è venuta a galla. I bambini non solo ci sono ma vivono in condizioni allucinanti. Alcuni sono piccolissimi. Altri, invece, hanno l’età giusta per andare a scuola. Questi piccoli esseri, che acquisiscono consapevolezza del luogo in cui si trovano crescendo, sembrano condannati a vagare in un limbo d’incertezza diffusa. Proprio come i loro genitori. Nel ghetto ci sono chiese, in alcune baracche si insegnano i primi rudimenti linguistici. Ma questo chiaramente non basta. Questi bambini crescono in cattività. Non si sa se siano stati vaccinati, se abbiano mai visto un dottore, se abbiano la possibilità concreta di giocare con i propri coetanei. Alcuni sono i figli naturali di prostitute e clienti abituali. Altri, invece, hanno dalla propria la fortuna d’avere una sorta di famiglia stabile. Oggi riesco a interagire con molti di loro. E una delle immagini più nitide che ho è quella di una bambina di quattro anni che mi ha raccontato, a modo suo, del sogno di tornare in Africa. Indicando il cielo con il suo minuscolo ditino, un giorno mi ha detto: “Guarda, Africa sta di là.” Le ho regalato un aeroplano giocattolo per consentirle, almeno con la fantasia, di tornare nell’Africa che esiste solo nella sua immaginazione. Ha pianto. Poi mi ha promesso che un giorno andremo in Africa insieme. La sua speranza, oggi, è la mia.

La mafia, le mafie, non sono forme di anti-Stato. Eppure tu hai recentemente individuato delle forme di autorganizzazione che sembrano alludere a un nuovo modo di fare Stato. È così? Quante responsabilità ci sono tra le associazioni e i gruppi di volontari o del sindacalismo di base?
Le responsabilità sono assolutamente trasversali. Il sindacato sembra aver abdicato da tempo alle proprie responsabilità. Non è un mistero che nel ghetto non esistano presidi sindacali di qualsivoglia natura. In verità, gli esponenti dei sindacati si fanno vivi solo in occasione delle tragedie annunciate. Come quella del luglio scorso, in cui hanno perso tragicamente la vita sedici braccianti. E, a ben pensarci, anche in quel caso le diverse cifre sindacali hanno organizzato manifestazioni scomposte e disconnesse. I volontari, invece, fanno quel che possono. Ma in una realtà che oggi sfiora le 5mila unità chiaramente anche la loro azione, talvolta, perde di concretezza reale. È chiaro che da soli non possono farcela, che servirebbe un ausilio istituzionale che assolutamente manca. E così, in assenza di istituzioni locali e nazionali, in assenza della certezza del diritto, la parte sana del ghetto si è autorganizzata. I principali esponenti dei maggiori gruppi etnici che risiedono stabilmente nella baraccopoli si riuniscono, almeno due o tre volte alla settimana, per stabilire un nuovo sistema di regole per la civile convivenza. Il modello di governo cui si ispirano pare essere quello del “governo dei pochi”. Eppure, molto chiaro sembra essere il criterio della rappresentanza. Quei pochi rappresentanti sono stati riconosciuti, impropriamente potremmo dire votati, dalla maggioranza che partecipa alle riunioni. Stanno scrivendo delle leggi in cui vengono stabiliti i comportamenti accettati e i principi a cui ispirarsi. Stanno creando una forza di polizia, una task force che ha il compito di allontanare quelli che creano problemi. Sulla base delle norme che stanno elaborando, se uno degli abitati mina la sicurezza e la tranquillità degli altri viene materialmente allontanato dal ghetto per essere consegnato alle forze di polizia istituzionali in modo che non possa più farvi ritorno. Stanno tentando di realizzare una sorta di repubblica ideale, intesa in senso platonico, che ha per fine l’attuazione della giustizia intesa come attribuzione a ciascuno del compito che gli compete secondo le proprie attitudini. Insomma, in assenza dello Stato reale, a Borgo Mezzanone sta nascendo un nuovo Stato.

Le donne sono vittime per eccellenza. Ne incontri tante, ci parli. Che ruolo hanno nel sistema? Che cosa si aspettano da questo Paese?
Le donne con cui ho la possibilità di confrontarmi sono troppo spesso scatole vuote prive di sogni e di ambizioni. In quel non luogo di Borgo Mezzanone sono vittime consapevoli di un sistema da cui non sanno e non riescono ad affrancarsi. C’è “MamAfrica”, che gestisce insieme al proprio compagno lo sfruttamento della prostituzione e lo smercio di droga. E c’è “cavallo bianco”, la zingara rumena che è stata costretta a vendere il proprio figlio. La sua diversità, nel contesto del ghetto, è un valore aggiunto nell’ottica dello sfruttamento. Nella “comunità nera” il suo incarnato chiaro, i suoi occhi azzurri, rappresentano una merce rara e pregiata. Ma questo non fa sì che le condizioni di vita siano migliori. Alcol e droga, per lei, sono come l’aria: le servono per vivere e andare avanti. Ora aspetta un bambino. So che è stata cacciata dalla baracca in cui viveva stabilmente. Che è stata picchiata e oltraggiata per causarle un aborto spontaneo che non c’è stato. L’ultima volta che l’ho incontrata aveva sulle spalle uno zaino. Voleva scappare, allontanarsi dal gran ghetto di Borgo Mezzanone. Ma non c’è riuscita. Oggi è ancora lì. E purtroppo per lei non ci sono speranze, non c’è riabilitazione sociale, non c’è alcuna possibilità. È poco più di un numero, come tutte le altre. Lavoratrice nei campi di giorno, prostituta di sera. Una donna perduta che non sa come ritrovarsi a tutte le ore.


Iscriviti alla nostra newsletter!

Condividi questo articolo
Autore:

Emma Barbaro è giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi. Leonardo Palmisano è scrittore e sociologo. Presiede la cooperativa editoriale Radici Future Produzioni. Ha pubblicato Ghetto Italia (Fandango Libri, 2015) e Mafia Caporale (Fandango Libri, 2017).