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Carceri Lazio e Umbria, alta adesione alla campagna vaccinale Covid-19

«Circa il 70 per cento delle persone detenute, calcolate sul totale dei quattordici istituti di pena del Lazio, ha già ricevuto la prima dose del vaccino Moderna. Nella casa circondariale di Terni, invece, nei prossimi giorni si concluderà il primo giro di vaccinazioni. Con dati complessivamente positivi che riguardano l’intera regione.»

Quella scattata dal professor Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà personale competente per le Regioni Umbria e Lazio, nonché Presidente onorario dell’Associazione Antigone, è un’istantanea su una realtà in continua evoluzione. La campagna vaccinale negli istituti di pena prosegue spedita. Basti pensare che all’istituto “Mammagialla” di Viterbo si è superato il 98 per cento delle vaccinazioni ai detenuti, a Cassino il 92 per cento, mentre nella Casa di reclusione di Rebibbia il dato si attesta attorno all’88 per cento. Ben al di là, dunque, delle preoccupazioni o perplessità iniziali circa le adesioni dei detenuti alla campagna vaccinale.
«Nelle settimane e nei mesi scorsi ero molto preoccupato,» conferma Anastasìa. «Mi era capitato di discutere dei vaccini con alcuni detenuti e avevo notato una certa diffidenza. Ma i tassi di adesione alla campagna vaccinale hanno smentito i miei timori iniziali.»

Professor Anastasìa, qual è stata nelle carceri la percezione del virus e, ora, dei vaccini?
Nella fase iniziale della pandemia è dilagato il terrore. E credo sia anche umanamente comprensibile. Migliaia di uomini chiusi in gabbia hanno scoperto, all’improvviso, che c’era in circolazione un virus letale che avrebbe potuto colpire ciascuno di loro. Da qui, al netto di qualche fantasiosa ricostruzione giornalistica, sono nate le proteste del marzo scorso.
Sul vaccino, nelle settimane e nei mesi scorsi ero molto preoccupato. Mi era capitato di discuterne con alcuni detenuti e avevo notato una certa diffidenza. Diffidenza che chiaramente ha a che fare con il clima generale, ed è lo stesso scetticismo che trapela in alcuni ambienti dell’opinione pubblica, accentuato dal fatto che i detenuti generalmente diffidano dell’Istituzione che li tiene in carcere. In realtà mi preoccupava che in Veneto, dove si era partiti molto per tempo con le vaccinazioni in carcere, si era registrato un alto tasso di rifiuto sia da parte dei detenuti che del personale penitenziario. Addirittura mi era stato comunicato che oltre il 30 per cento della popolazione penitenziaria aveva rifiutato la vaccinazione.

La sua esperienza nel Lazio e in Umbria è stata diversa?
Devo dire di sì. In Umbria le vaccinazioni sono iniziate a marzo, nel Lazio si è partiti a fine aprile. E in entrambi i casi il tasso di adesione alla campagna vaccinale è stato molto alto.
I dinieghi si contano nelle unità, o al massimo nelle decine. La grande maggioranza ha accettato di farsi vaccinare. Nel Lazio, l’obiettivo dell’assessorato era quello fare il primo ciclo di vaccinazione entro i primi 4-5 giorni dall’avvio della campagna, comprendendo sia i detenuti che il personale penitenziario. E in gran parte ci si è riusciti. Oggi, circa il 70 per cento delle persone detenute, calcolate sul totale dei quattordici istituti di pena del Lazio, ha già ricevuto la prima dose del vaccino Moderna. È questo il dato, fermo al 6 maggio scorso, che il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise ci ha fornito. Nella casa circondariale di Terni, invece, nei prossimi giorni si concluderà il primo giro di vaccinazioni. Con dati complessivamente positivi che riguardano l’intera regione.

Come si spiega questo evidente cambio di rotta nella percezione dei vaccini?
Evidentemente i detenuti hanno compreso e hanno condiviso gli obiettivi della campagna vaccinale. E forse va riconosciuto, su questo aspetto, il merito degli operatori sanitari che hanno spiegato bene i vantaggi derivanti dalla vaccinazione. Quindi posso affermare che sta andando molto bene questa campagna vaccinale.

Quali vaccini vengono somministrati?
In Umbria si è iniziato con AstraZeneca, e poi con Pfizer e Moderna per gli ultra sessantenni a marzo. Poi, a ridosso del terremoto informativo su AstraZeneca con tutto lo strascico di sospensioni e rimodulazioni delle fasce d’età, si è continuato prevalentemente con Pfizer e Moderna.
Nel Lazio la campagna è iniziata più tardi per un’esplicita decisione dell’assessorato regionale, che avrebbe voluto vaccinare i detenuti con Johnson&Johnson perché, trattandosi di un vaccino monodose, avrebbe garantito una copertura dal virus in tempi rapidi. Ed è stata una decisione che ho condiviso. Per me valeva la pena aspettare se questo avesse significato concludere in tempi rapidi la campagna vaccinale nelle carceri.

Nel frattempo, però, anche il vaccino Johnson & Johnson ha suscitato qualche perplessità. O, almeno, qualche polemica.
Infatti. Ecco perché nel Lazio si è andati avanti con le somministrazioni di Moderna per tutti i detenuti. Che, quindi, faranno il richiamo dopo un mese circa dalla prima dose.

Quando parla di tutti i detenuti, a chi si riferisce? A tutti coloro i quali rientravano nelle categorie d’età e fragilità stilate dal Ministero della Salute?
No, mi riferisco a tutti. Questa è stata una battaglia durissima che, in qualità di Garanti, abbiamo vinto nel marzo scorso. In realtà da novembre abbiamo posto il problema delle vaccinazioni in carcere, anche perché inizialmente i detenuti erano esclusi dalle categorie prioritarie pur essendo in tutto e per tutto delle comunità residenziali con alta possibilità di trasmissione del virus, sotto questo profilo abbastanza simili e assimilabili alla Rsa. Ed è chiaro che nelle Rsa ci sono persone più anziane, però è certamente vero che in carcere le condizioni igieniche sono peggiori, le situazioni di promiscuità pure, oltre il fatto che la popolazione detenuta ha storie sanitarie complicate. Per cui i detenuti, anche se più giovani, spesso sono più malandati da un punto di vista sanitario.
Quindi da novembre, come le dicevo, ci siamo battuti per il riconoscimento dei detenuti come categoria prioritaria autonoma al pari delle forze dell’ordine, delle Rsa, del personale docente, e così via.

E a novembre l’ex commissario Domenico Arcuri vi assicurò oppure no la sua disponibilità?
La dichiarazione di disponibilità dell’ex commissario Arcuri a onor del vero la registrammo verso febbraio. Poi è divenuta operativa nella divisione e revisione dei gruppi target della campagna vaccinale stilata dal Ministero della Salute con decreto dell’11 di marzo scorso. E in quel piano vaccinale i detenuti e il personale penitenziario vengono individuati come una categoria autonoma a prescindere dall’età. Quindi, per rispondere alla sua domanda, la campagna vaccinale si sta rivolgendo indiscriminatamente a tutti i detenuti oltre che a tutto il personale penitenziario.

Sono previste delle sospensioni per il personale penitenziario che decide di non sottoporsi al vaccino?
No, che io sappia non sono previste misure di questo genere. Non ho avuto notizie di limitazioni nelle funzioni del personale penitenziario che non accetti di vaccinarsi. Bisognerebbe capire se ci sono situazioni di particolare rischio, e di questo si era discusso nel caso degli operatori sanitari. Sul penitenziario non mi pare che se ne sia discusso in questi termini.

Quindi l’equiparazione alle Rsa di cui mi parlava non è stata sostanziale.
Guardi, il problema c’è e credo resti anche con la vaccinazione. Perché sappiamo che i vaccini sostanzialmente riducono gli effetti del virus ma non escludono totalmente la possibilità che lo si possa contrarre. Sarebbe importante comunque che tutti coloro che operano in ambiente penitenziario siano a loro volta vaccinati, in modo tale da ridurre la possibilità di circolazione del virus.

Perché il virus, in effetti, circola. Anche negli istituti penitenziari, con non pochi focolai.
È vero. È stato attivo, almeno fino a qualche giorno fa, un focolaio molto preoccupante a Rebibbia femminile. Poi a Civitavecchia c’erano 11 detenuti positivi con una situazione, tuttavia, in gran parte molto più gestibile. Ovviamente va precisato che dalla campagna vaccinale sono per il momento esclusi tutti coloro che sono positivi o sono risultati tali negli ultimi tre mesi, e che quindi dovranno fare il richiamo, come tutti i cittadini, dopo circa sei mesi previa verifica sulla presenza di anticorpi.

Come è stato gestito il focolaio a Rebibbia femminile?
In realtà il problema della gestione dei focolai si è registrato a partire dall’inizio della seconda ondata. Perché, dall’autunno scorso, c’è stata una crescita esponenziale dei casi, con focolai anche abbastanza importanti. Penso al focolaio al Regina Coeli, poi a quello di Terni, che nell’ottobre scorso ha coinvolto 74 detenuti. I numeri, insomma, sono stati abbastanza importanti.
La gestione dei focolai è complicatissima, se non quasi impossibile. Perché ovviamente i detenuti e le detenute positivi vanno separati dagli altri e bisogna trovare gli spazi in cui collocarli. Per esempio a Rebibbia Nuovo Complesso, quando c’è stato un focolaio che è arrivato a coinvolgere circa 100 detenuti contemporaneamente, i positivi sono stati collocati in una sezione che era stata chiusa per ristrutturazione perché in condizioni igienico-ambientali intollerabili. Letteralmente intollerabili. Si trattava di stanze abbandonate da tempo.

E per coloro i quali entrano in contatto con un positivo come si garantisce la quarantena?
Questo è un aspetto se vogliamo ancor più difficile. Perché coloro che entrano in contatto con un positivo, di norma, dovrebbero essere a loro volta isolati. Nel caso degli istituti penitenziari dovrebbero essere isolati individualmente, perché mentre tre positivi li puoi collocare nella stessa cella, tre persone che sono state in contatto con un positivo andrebbero posizionate in stanze singole dotate di servizi autonomi. E su questo aspetto il nostro sistema penitenziario è incapace di produrre una risposta efficace, perché alla fine la gran parte dei detenuti che hanno avuto contatto con dei positivi, soprattutto nel caso dei focolai, hanno vissuto la quarantena insieme. Come in una sorta di “quarantena di coorte”. Per cui hanno utilizzato frequentemente docce comuni, in uso a tutta la sezione detentiva. Col rischio di trasmettere il virus anche agli altri per il tramite dei servizi igienici.

Ma date queste circostanze, come è stata scongiurata la catastrofe?
È stata scongiurata tenendo chiuse il più possibile le persone nelle loro stanze detentive, nella speranza che non prendessero il virus. Le misure di prevenzione in carcere sono valide, ma fino a un certo punto. Questo noi Garanti lo abbiamo fatto rilevare già nel marzo dello scorso anno, per cui abbiamo detto che serviva un vero provvedimento deflattivo che riducesse la popolazione detenuta di circa un terzo. Per tutta risposta sono state previste misure alternative alla detenzione per circa 8mila persone su 60mila. Ma tant’è.

Ritorniamo al caso di Rebibbia femminile. Sono state previste misure alternative a quelle che mi ha appena descritto?
Alcune delle detenute sono state collocate nelle stanze detentive al pianterreno di un reparto. Parliamo di stanze prive di acqua calda e, soprattutto, prive della doccia. Per lavarsi queste donne ricevevano tutti i giorni una bacinella d’acqua calda da fuori. Quindi hanno vissuto il contagio senza la possibilità di fare una doccia calda perché i servizi sono collocati al terzo piano dell’istituto e, per utilizzarli, sarebbero dovute passare davanti alle stanze e ai corridoi in cui si trovano le detenute negative. Senza contare che avrebbero dovuto utilizzare i medesimi servizi igienici.
Attualmente sono circa 14 le detenute positive in attesa di negativizzarsi. Dunque, la situazione lentamente sta migliorando. Tuttavia, restano le criticità relative ai servizi minimi da garantire nelle carceri. Eppure il regolamento penitenziario prevede, fin dal 2000, che tutte le camere detentive abbiano la doccia al loro interno.

Certo, questa dicitura compare anche sul sito del ministero della Giustizia nelle schede informative relative alle carceri. Nella realtà non è così?
Alcune sezioni sono state ristrutturate e dotate di servizi igienici interni adeguati, ma nella gran parte del patrimonio penitenziario che io conosco si usano ancora le docce comuni di sezione. E per la prevenzione del virus e, in generale, delle malattie infettive non c’è nulla di peggio delle docce comuni.

Nell’ottica del contrasto al contagio, è stato implementato il personale sanitario di supporto?
Per l’esperienza che ho avuto io si è trattato di una gestione interna, con risorse interne. La Protezione Civile ha fornito operatori socio-sanitari addetti prevalentemente al monitoraggio della temperatura e delle altre condizioni di rischio all’ingresso degli istituti di pena. Un controllo e monitoraggio rivolti soprattutto al personale penitenziario, dunque, più che ai detenuti. Solo in qualche caso i medesimi operatori sono stati utilizzati anche nei servizi di infermeria interni agli istituti. Poi, per il resto, la gestione delle epidemie è stata tutta a carico del personale sanitario già in servizio presso gli istituti.
Pensi che quando a Rebibbia Nuovo Complesso era esploso un focolaio con circa 100 contagiati ho chiesto, senza successo, una dotazione aggiuntiva di personale nell’infermeria per garantire la presenza di esperti h24 nella struttura di detenzione dove c’erano i positivi. Ma il servizio sanitario non era nelle condizioni di assicurare tutto questo. Il personale scarseggia anche fuori dagli istituti di pena. E il carico di lavoro è enorme.

Da questa panoramica complessiva sulle vaccinazioni manca il riferimento ai minori reclusi. Ma se i vaccini sui minori di 18 anni sono ancora in fase sperimentale, come si può garantire anche per loro una congrua ripresa delle attività di reinserimento e rieducazione?
È vero, i vaccini per i minori non ci sono. Ma, nel caso dei due ambiti regionali di mia competenza, il problema fondamentalmente non si è posto. Perché i minori di 18 anni reclusi non superano le dieci unità. Per cui anche in assenza di vaccino si è riusciti a garantire, pur tra le difficoltà, una continuità delle attività.
Mentre per tutti quelli che hanno superato i 18 anni di età si potrà procedere tranquillamente con la vaccinazione, quando sarà il loro tempo.

Cosa è mancato ai detenuti in questi lunghi mesi di pandemia?
Credo che in primis siano mancate loro le famiglie. Ad oggi la legge prevede la possibilità di sostituire i colloqui con le videochiamate o di garantire, comunque, almeno un colloquio in presenza. Ma la situazione cambia da un ambito regionale all’altro. Nel Lazio sono stati allestiti divisori in plexiglass che vanno dal suolo al soffitto. Queste schermate “cielo-terra” rendono difficile, se non impossibile, anche la stessa facoltà di comunicazione, perché ovviamente è più facile sentire il detenuto che ti parla accanto piuttosto che il famigliare al di là del vetro. È chiaro che il plexiglass risolve alla radice qualsiasi rischio di trasmissione del virus perché non c’è nessuna forma di contatto tra visitatori e detenuti. Ma onestamente penso sia una misura che poteva essere contenuta nel rispetto del diritto alle relazioni famigliari. Se famiglie e detenuti indossano i dispositivi di protezione individuale, si lavano le mani all’ingresso e all’uscita, ovvero indossano dei guanti monouso all’ingresso e all’uscita, non vedo la necessità di un divisorio “cielo-terra”. Però è stata scelta una linea molto più rigorosa, in parte basata anche sul pregiudizio che i detenuti e i loro famigliari non sarebbero stati in grado di attenersi alle regole di comportamento.
In Umbria, invece, ci sono dei pannelli divisori all’altezza del fiato, come si usano per esempio negli uffici pubblici.

Ritiene che siano stati compressi i loro diritti?
Ritengo che, su tutti i fronti e al di là dei buoni propositi, i detenuti non abbiano avuto accesso a un trattamento individuale idoneo alla rieducazione e riabilitazione sociale. E, soprattutto, ritengo che questi quindici mesi di pandemia siano stati doppiamente afflittivi per chi ha scontato la propria pena in carcere. Penso che il Parlamento e le forze politiche dovrebbero riflettere su questi temi e riconoscere che i detenuti reclusi durante questo anno hanno subito una pena molto più dura di quella che normalmente si subisce. Ci vuole un po’ di giustizia dopo la pandemia. E se la pena deve tendere alla rieducazione e non all’eliminazione sociale del condannato, ebbene si riconosca che un giorno di detenzione vissuto in questo modo probabilmente vale il doppio. Io mi auguro che questa campagna vaccinale si concluda al più presto perché c’è la necessità oggettiva di ricominciare a riprogrammare tutte le attività trattamentali sospese. Ma, al netto di un ritorno alla normalità nelle carceri, spero in un ritorno alla giustizia nelle carceri. Giustizia, appunto, non giustizialismo a tutti i costi.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.