La campagna vaccinale in Puglia procede secondo tempistiche differenti in ciascuna area provinciale. Riflettendo, così, l’andamento complessivo dei vaccini nell’intero Paese.
«Tutto dipende dalle singole Asl e dalla loro capacità organizzativa», dichiara a Terre di frontiera il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Puglia, il professor Piero Rossi. «Il dato aggregato ci dice che attualmente oscilliamo tra il 40 e il 60 per cento delle vaccinazioni della popolazione detenuta. Ma l’immunità di gregge sarà raggiunta solo quando ci si attesterà attorno all’80 per cento delle vaccinazioni effettuate. Ed è questa la ragione per cui, almeno in Puglia, la campagna vaccinale non si concluderà in tempi brevi.»
Professor Rossi, della campagna vaccinale nelle carceri non si è quasi mai parlato, se non in un’accezione pubblica fortemente polemica. Ma in Puglia, come e quando si è partiti?
Per la partenza della campagna vaccinale nelle carceri è stato dirimente e risolutivo l’intervento in Parlamento della senatrice Liliana Segre, che ha richiamato all’impellenza di programmare le vaccinazioni nelle carceri identificando il carcere come contesto ambientale di grandissimo rischio. Ragion per cui, già dai tempi del commissario Domenico Arcuri si iniziò a classificare la popolazione per categorie. E tra quelle categorie si intese inserire la comunità penitenziaria complessivamente considerata, comprendendo chi vi lavorava e chi vi era trattenuto per motivi di Giustizia.
Poi il Governo è cambiato, Arcuri è stato sostituito dal Generale Francesco Paolo Figliuolo e, soprattutto, al ministero della Giustizia è arrivata Marta Cartabia.
Il generale Figliuolo, a onor del vero, sui vaccini nelle carceri si è espresso a corrente alternata. La ministra Cartabia, invece, ha inciso molto. Persino rettificando, talvolta, le dichiarazioni rese dal generale. E se la ministra ha dovuto fare dichiarazioni di questo tipo noi garanti, a valle, abbiamo ricevuto una rassicurazione psicologica: la comunità penitenziaria avrebbe avuto accesso ai vaccini. A monte, certo, abbiamo registrato un legittimo sospetto sull’atteggiamento di Figliuolo.
Ma poi si è partiti.
Sì. Il 25 febbraio scorso, come Garante regionale, sono stato invitato a un incontro ai massimi livelli. Erano presenti i responsabili della vaccinazione regionale, l’assessore alla Sanità della Puglia Pier Luigi Lopalco, il Provveditore, il capo del dipartimento della salute al cittadino e il medico di medicina penitenziaria che gestisce l’unità operativa del SAI, un servizio medico multi-specialistico interno al carcere di Bari. In questo incontro abbiamo parlato della partenza della campagna vaccinale. Tuttavia l’approccio al tema, per quanto assolutamente istituzionale, fu giudicato per la verità un tantino “artigianale”. Mi colpì molto che mentre si stava parlando dei quantitativi di vaccini da mettere da parte in rapporto a tutto il personale civile, amministrativo, militare e a tutta la popolazione penitenziaria, il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dichiarava che la polizia penitenziaria di Brindisi e Taranto era già stata avviata alla vaccinazione, e che quindi il quantitativo di vaccini necessari doveva essere considerato al netto di questo dato.
Voi non ne eravate a conoscenza?
No, quella informazione la apprendemmo tutti insieme in quella sede. In ogni caso, da quel momento in poi si stabilì di iniziare con le vaccinazioni in carcere. Io mi appellai al diritto di non discriminazione: i percettori del vaccino andavano individuati, esattamente come accade all’esterno delle carceri, tenendo presenti le età e le condizioni di fragilità. Era un principio che davo per scontato, ma ho fatto comunque un po’ di fatica a farlo passare.
Anche perché il principio, per quanto assolutamente legittimo, dipende dall’approvvigionamento dei vaccini.
Esatto. Prima della sospensione di AstraZeneca, con tutto ciò che ne è seguito, erano state stabilite determinate categorie di somministrazione. Si sapeva che AstraZeneca poteva essere somministrato a partire da una determinata fascia d’età, mentre il Pfizer era più adatto ai soggetti fragili. Agli inizi di questa campagna vaccinale, però, mi fu spiegato che questo principio di non discriminazione per cui mi ero battuto avrebbe comportato, sulla base delle disponibilità delle dosi, che i soggetti fragili sarebbero stati vaccinati in un momento successivo proprio perché le dosi di AstraZeneca erano più disponibili di quelle Pfizer. Per cui, nella primissima fase, si è partiti con molta fatica a somministrare Pfizer agli aventi diritto. Mentre, per tutti gli altri, si è cominciato a vaccinare con AstraZeneca coi criteri stabiliti in precedenza. Poi, una volta recuperata la disponibilità di dosi Pfizer a livello regionale, la tendenza si è invertita.
In che modo?
Presso l’istituto penitenziario di Bari, una volta recuperate le dosi necessarie, tutti sono stati vaccinati con Pfizer.
Tutti, a prescindere dalle età e dalle fragilità di ciascuno?
Sì. Quella di Bari è una casa circondariale, come tutti gli istituti pugliesi fatta eccezione per Turi, che ospita invece i cosiddetti “definitivi”. E giacché il periodo di latenza del Pfizer, cioè il periodo di somministrazione tra prima e seconda dose, è più veloce, si è scelto di somministrare a tutti questo vaccino per garantire l’immediatezza della copertura vaccinale. Così facendo, almeno in teoria, in poche settimane avremmo concluso la campagna vaccinale.
Mi perdoni, ma così facendo salta qualsiasi criterio, qualsiasi linea guida. Se, ad oggi, il Pfizer dovrebbe essere inoculato tenendo presenti età e fragilità del soggetto che deve ricevere il vaccino, somministrandolo indiscriminatamente a tutti vale comunque quel principio di non discriminazione cui lei ha accennato, ma al contrario.
È corretto. Per altro, io non ho ben compreso perché un detenuto vaccinato con AstraZeneca, se rimesso in libertà, non dovrebbe accedere alla seconda dose del medesimo vaccino con una comunicazione del personale medico. Dovrebbe bastare una comunicazione del personale medico che ha somministrato la prima dose all’Asl competente. In un certo senso è prevalso il processo di infantilizzazione del detenuto che viene considerato un cittadino incapace, dopo la somministrazione della prima dose, di sottoporsi, da libero, alla seconda.
Ma questo criterio del “Pfizer per tutti a Bari” chi l’ha stabilito?
L’amministrazione penitenziaria e l’Asl di Bari. Tuttavia, secondo me, la scelta dell’amministrazione penitenziaria non è stata orientata a principi di carattere umanitario, ma soltanto a una questione di pragmatismo organizzativo. C’era la disponibilità di quei vaccini e sono stati somministrati, tentando di risolvere immediatamente il problema.
Restano però le linee guida nazionali. E il Pfizer resta un vaccino che va somministrato a determinate categorie di persone e non ad altre.
Dal punto di vista strettamente farmacologico il vaccino Pfizer non dovrebbe far male a nessuno. È prezioso per i costi e per via dei numeri ridotti delle dosi effettivamente disponibili. E, in teoria, lo si tiene da parte per soggetti fragili e fragilissimi che invece potrebbero trarre qualche controindicazione da altri vaccini. Ma tenga anche presente che quella era la fase in cui non erano ancora disponibili i vaccini Moderna e Johnson&Johnson.
Poi la campagna vaccinale nelle carceri come è andata avanti?
Le vaccinazioni sono andate avanti a macchia di leopardo, perché tutto dipende dalle singole Asl e dalla loro capacità organizzativa. Il dato aggregato ci dice che attualmente oscilliamo tra il 40 e il 60 per cento di vaccinazioni della popolazione detenuta. Ma l’immunità di gregge sarà raggiunta solo quando ci si attesterà attorno all’80 per cento delle vaccinazioni effettuate. Ed è questa la ragione per cui, almeno in Puglia, la campagna vaccinale non si concluderà in tempi brevi.
Ci fornisca qualche dato utile sulle vaccinazioni a livello provinciale.
Partiamo dal presupposto che in tutti gli istituti di pena agiscono medici “stanziali”, che operano continuativamente, cioè all’interno delle strutture. Questo, molto spesso, si rivela dirimente per l’andamento delle vaccinazioni, perché i medici interni alle carceri costruiscono un rapporto di fiducia con i detenuti e attendono, in ambito vaccinale, che maturino i tempi di persuasione. Questo a patto che quei medici si rendano disponibili a vaccinare, il che dovrebbe essere scontato. Ma quando, troppo spesso, la squadra sanitaria vaccinale è esterna, come nel carcere di Foggia, i tempi sono oggettivamente diversi e i rifiuti aumentano.
Pertanto a Bari, Altamura e Turi si è raggiunto il 70 per cento dei detenuti già vaccinati, così come a Trani. Anche a Taranto siamo molto prossimi al medesimo obiettivo. A Brindisi e Lecce c’è una leggera flessione perché si sfiora il 50 per cento. A Lucera e a San Severo, realtà molto piccole a onor del vero, la campagna vaccinale in favore della popolazione detenuta pare non essere nell’orizzonte dell’Asl, mentre segna il passo quella per gli operatori amministrativi, conclusa da poco quella per la polizia penitenziaria. Nelle Rems (Residenze d’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, ndr) al contrario sono già stati tutti vaccinati, sia gli operatori che gli ospiti.
E questa bassa percentuale dipende dalla difficoltà in cui versa L’Amministrazione penitenziaria o, piuttosto, dalla capacità organizzativa dell’Asl di Foggia?
Guardi, in questo caso il sistema penitenziario non c’entra. Piuttosto, constato che l’Asl di Foggia continua a manifestare segni di affanno su troppi dei fronti che ci riguardano. Sull’Asl di Foggia posso riferire tante cose che, obiettivamente, nel corso degli anni non hanno funzionato per niente o che hanno funzionato grazie al semi-eroismo di alcuni isolati, bravi medici.
Ce ne racconti qualcuna.
Ho appreso che due medici che operano nelle medicherie di Foggia, sino dai tempi in cui esisteva ancora la medicina penitenziaria, raramente avrebbero fatto visita alle sezioni penitenziarie per tutta la durata del loro incarico. Gli stessi medici, una volta appreso che si sarebbe partiti col piano vaccinale, avrebbero risposto che se avessero chiesto loro di occuparsi direttamente dei vaccini si sarebbero rifiutati. Sempre a Foggia, inoltre, ci sono due ottimi psichiatri che hanno sempre lavorato nella struttura penitenziaria. Ebbene, una volta andato in pensione il primo, l’altro sarebbe stato stritolato da un carico funzionale enorme. Fortunatamente la situazione si è risolta col ripensamento dello psichiatra che non è più andato in pensione. Il problema è rimandato. Forse verrà istituita una Unità Operativa il che potrebbe contribuire a risolvere il problema in maniera strutturale. E posso aggiungere altro. Tempo fa è partito un progetto di inclusione lavorativi di persone detenute o in esecuzione penale esterna, per il recupero dei presidi sanitari, tra cui le carrozzine, che comporta un risparmio mostruoso dato che i fondi sono stati ricavati da uno specifico progetto europeo. L’economia derivante dalla minor spesa potrebbe alimentare questo progetto nell’ordine di circa un decimo della spesa risparmiata. Non è mai stato fatto quanto l’iniziativa meriterebbe, anche i termini di modellizzazione ed espansione del progetto. E l’impressione è che, probabilmente, nel caso specifico si sia andati a toccare gli interessi di alcune aziende che magari preferiscono sostituire la carrozzina piuttosto che cambiarne un bullone. E non è un’iperbole.
Poi potrei raccontare, ancora, di quel che è avvenuto a San Severo a ridosso della tragica morte per coronavirus del medico di 59 anni che operava nella struttura penitenziaria in convenzione con l’Asl di Foggia (Il medico muore nel marzo del 2020, ndr). La direttrice della struttura si è battuta come una leonessa perché venissero fatti i tamponi almeno a tutti quelli che erano venuti in contatto col medico contagiato. L’Asl di Foggia, semplicemente, non ha risposto. Senza nemmeno prendersi la briga di dire, giustificandosi, che magari in quel momento storico non c’erano tamponi per nessuno. Silenzio totale. E, per fortuna, non è accaduto nulla.
Ora come si sta gestendo il focolaio nel carcere di Foggia?
Con grande difficoltà almeno fino a qualche giorno fa. Al momento, e si spera che i numeri non diventino più importanti, ci sono 50 contagiati tra detenuti e polizia penitenziaria. Con molta fatica, pare che ora la situazione sia sotto controllo. Ma Foggia resta nella posizione più critica.
Per quanto riguarda invece la vaccinazione degli operatori penitenziari, il dato riflette quello della popolazione detenuta?
Non del tutto. A Lecce quasi il 100 per cento del personale della polizia penitenziaria si è vaccinato. E i pochi che si sono defilati, lo hanno fatto motivatamente. A Brindisi il dato è molto positivo, ma non si arriva ai numeri di Lecce. A Taranto, purtroppo, qualche rifiuto in più c’è stato. Mentre a Foggia, che presenta un andamento vaccinale sui detenuti piuttosto scarso, il dato relativo alle vaccinazioni oscilla tra il 50 e il 60 per cento. Non è così preoccupante come per i detenuti, insomma, sebbene faccia specie che non si individuino strumenti persuasivi per la sotto posizione alla vaccinazione per lavoratori che svolgono attività di contatto cosi diretto. Infine a Bari, i numeri si allineano a quelli delle vaccinazioni della popolazione detenuta.
Tolto il “caso Pfizer” a Bari, quali vaccini vengono attualmente somministrati?
A quanto mi risulta, Moderna, Pfizer e AstraZeneca a seconda delle condizioni del soggetto da vaccinare. Al di là del “caso Bari”, che paradossalmente difetta per eccesso, come dicevamo, dunque, possiamo affermare che nessuno ha ricevuto un vaccino diverso da quello che gli spettava.
I dati che ci ha fornito valgono anche per i due Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Bari e Brindisi-Restinco?
Se mi sta chiedendo degli operatori messi a disposizione dagli enti gestori i due centri, le rispondo che le vaccinazioni si sono concluse a Bari e sono in via di completamento nella struttura di Brindisi-Restinco.
Se invece mi chiede dei migranti trattenuti ai fini dell’espulsione, le dico che non sono stati inseriti nel piano vaccinale. Per loro, evidentemente, viene considerato più utile agire con i vaccini monodose perché subiscono numerosi trasferimenti da un istituto all’altro sul territorio nazionale. La mia personale considerazione è che somministrargli la prima dose di AstraZeneca vorrebbe dire che sono stati trattenuti in un Cpr oltre i tre mesi. E questo non è mai auspicabile.
Ma se i “trattenuti” non sono stati compresi nel piano vaccinale e vengono trasferiti spesso da un Cpr all’altro, come si argina l’eventuale contagio?
Il criterio adottato finora è stato quello della prevenzione. Le persone vengono sottoposte al tampone alla partenza e all’arrivo. Al momento non è sfuggito un solo caso di positività e tutte le volte che sono stati intercettati, sono stati isolati e curati. La fortuna ha voluto, almeno finora, che nessuno dei positivi abbia avuto bisogno di cure ospedaliere.
In ogni caso, per fare in modo che anche queste persone vengano inserite nel piano vaccinale bisognerebbe far pressione sul Ministero dell’Interno. O meglio, il suddetto Ministero potrebbe e dovrebbe inserirli nelle categorie vaccinali così come il Ministero della Giustizia, a suo tempo, ha fatto con i detenuti. Noi, come Garanti, continueremo a lanciare allarmi in tal senso.
Al netto dell’andamento della campagna vaccinale, ci può citare qualche elemento positivo o negativo che ha inevitabilmente segnato questa pandemia nelle carceri?
Uno degli elementi davvero positivi che posso riscontrare riguarda la connettività, che non è più un tabù. Ed è una conquista sulla quale spero vivamente non si torni indietro perché un detenuto, nel corso di una videochiamata, ha un ruolo più proattivo. Innanzitutto ha la possibilità di vedere famigliari che magari non avrebbe avuto l’opportunità di incontrare in carcere. E poi, attraverso le immagini, anche lui visita i propri luoghi cari. Il secondo, e ultimo, riguarda la scelta sull’accesso alle vaccinazioni dei volontari che svolgono attività trattamentali in carcere. Significa che il sistema progressivamente si sta rendendo pronto a ripartire.
Su tutto il resto, purtroppo, devo convenire col collega Garante del Lazio e Umbria, Stefano Anastasìa, sul fatto che quest’anno di detenzione si è rivelato doppiamente afflittivo. In Puglia con difficoltà si è continuato con la scuola, o meglio, con un simulacro di scuola. Abbiamo persino provato a fare teatro o cinema da remoto, portando avanti anche progetti di educazione e riqualificazione della genitorialità in questo modo. Ma non è la stessa cosa.
Questo incide sulle valutazioni della Magistratura di sorveglianza sugli accessi ai benefici di legge?
Certamente. La magistratura di sorveglianza deve valutare gli accessi ai benefici di legge di un detenuto in ragione dell’attività trattamentale che svolge in carcere. Ma se non si sa a che punto sia la riabilitazione, la risocializzazione, la rivisitazione critica del proprio vissuto, significa che ad oggi non ci sono elementi valutativi. I famosi 45 giorni di sconto della pena, secondo la Corte di Cassazione, si accordano perché il detenuto ha aderito a un’attività trattamentale, non soltanto perché non ha creato problemi. Secondo mela ragione per cui oggi lo Stato deroga a questa previsione confermata dalla Giurisprudenza è dettata dal senso di colpa. Lo Stato sa che non c’è stata alcuna forma di trattamento individuale per cui, per prassi, genericamente si accordano i 45 giorni di sconto a chiunque purché tutto vada bene.
Io spero che, una volta conclusa la campagna vaccinale, si riprenda seriamente a considerare e applicare l’articolo 27 della Costituzione per ciò che è. Per ciò che deve essere. E tutti noi, come ci insegna il Garante nazionale, Mauro Palma, dobbiamo scongiurare il pericolo dell’assuefazione.