Intervista al Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Agostino Siviglia.
«La campagna vaccinale negli istituti penitenziari calabresi è partita a macchia di leopardo. Il 26 marzo scorso è stata avviata a Catanzaro. Il giorno successivo, il 27 marzo, si è passati a Crotone e poi, da lì, via via sono continuate le vaccinazioni in tutti gli altri istituti. Oggi, più del 60 per cento dei detenuti in Calabria ha ricevuto il vaccino. E la soddisfazione, chiaramente, è enorme.»
Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Agostino Siviglia, non ha dubbi. Perché la battaglia di civiltà combattuta sin da dicembre con la Rete nazionale dei Garanti, col supporto del Garante nazionale Mauro Palma e, soprattutto, della senatrice Liliana Segre, ora sta dando i suoi frutti.
«I miei appelli pubblici», arringa Siviglia, «sono rimasti a lungo inascoltati. Poi, finalmente, da marzo tutte le autorità competenti sollecitate per mesi, a partire dal ministero della Giustizia fino ad arrivare al presidente della Giunta regionale, Antonino Spirlì, al commissario ad acta alla Sanità, Guido Longo, al direttore del Dipartimento della Salute regionale e alle singole Asp (Aziende Sanitarie Provinciali, ndr) hanno risposto positivamente. Peccato che, nel frattempo, il focolaio scoppiato nel carcere di Catanzaro intorno al 20 marzo scorso, con un bilancio di 100 detenuti contagiati e due morti probabilmente, agendo per tempo, si sarebbe potuto evitare.»
Dottor Siviglia, dunque lei ritiene che si sarebbe potuto arginare il dilagare del virus nelle carceri se i detenuti fossero stati inseriti sin da subito nelle categorie prioritarie da vaccinare?
Guardi, noi Garanti abbiamo fatto rilevare alle autorità competenti che le carceri potevano rappresentare dei cluster di contagio da Covid-19 fin da subito. E questo risulta sia dai documenti ufficiali del Garante nazionale, sia dalla relazione annuale che proprio io ho presentato lo scorso 27 novembre. Ma non mi sono affatto limitato a scrivere relazioni. Nei numerosi appelli pubblici per inserire i detenuti tra le categorie vaccinali prioritarie ho sollecitato tutte le istituzioni competenti. Ma il ritardo c’è stato. Anche perché, nel corso della prima ondata, il sistema penitenziario calabrese, insieme ad altre realtà regionali del centro-sud Italia è rimasto sostanzialmente immune alla diffusione del contagio. Ma, a partire dall’autunno scorso, la situazione è cambiata. Per cui c’era la necessità di agire in fretta per scongiurare focolai che poi, effettivamente, si sono verificati.
Si riferisce al focolaio che ha interessato il carcere di Catanzaro nel marzo scorso?
Anche. Intorno al 20 marzo scorso scoppia questo focolaio nel carcere di Catanzaro. Si parte con tre o quattro persone detenute risultate positive al virus. Nel giro di pochissimo vengono contagiate circa 100 persone detenute. Due di loro, un uomo di 61 anni e uno di 68, muoiono nell’ospedale “Pugliese Ciaccio” di Catanzaro. Sono state aperte delle indagini, soprattutto sul primo caso, quello della vittima di 61 anni che muore a causa del Covid-19 ma in presenza di altre comorbilità. Dopo la denuncia querela presentata dai legali dei famigliari, sono stati sequestrati tutti gli atti relativi all’assistenza sanitaria ricevuta.
Come è stata garantita l’assistenza sanitaria nelle carceri calabresi? Glielo chiedo soprattutto in considerazione del fatto che la Sanità, in Calabria, è commissariata da oltre dieci anni.
Fin dall’inizio il problema è stato proprio quello di fronteggiare una pandemia mondiale in una realtà che purtroppo tanto dentro, quanto fuori dal carcere, come lei ha giustamente sottolineato, risente di un sistema sanitario che da oltre dieci anni è commissariato senza che ci siano stati effettivi progressi per garantire un servizio fondamentale. Questa garanzia latita. Eppure, si tratta di assicurare la qualità dell’assistenza sanitaria in carcere oltre alla qualità della vita detentiva, che evidentemente non può prescindere dal diritto fondamentale alla salute delle persone. Il sistema penitenziario si è attrezzato rispetto a tutte le normative dirigenziali varate lo scorso anno all’inizio della pandemia. Quindi le Asp competenti per le cinque province calabresi dovevano e devono garantire un’assistenza qualificata tanto fuori che dentro al carcere.
Ed è accaduto?
Per ciò che concerne gli istituti penitenziari, sono state allestite delle tende di triage al di fuori delle strutture, sono stati adottati i protocolli relativi alla possibilità di individuare spazi, soprattutto sezioni, magari distaccate dai plessi principali dell’edificio, proprio per poter isolare le persone eventualmente risultate positive ovvero le persone che dovevano svolgere un periodo di quarantena e i nuovi arrivi. Oggi, i nuovi ingressi vengono gestiti garantendo un periodo di isolamento di circa due settimane. Per fortuna nella prima ondata non si sono verificate significative criticità.
Per far fronte al dilagare del virus, piuttosto che per la somministrazione dei vaccini sono stati incrementati i numeri del personale sanitario?
Sì, nel caso di Catanzaro l’Asp, anche a seguito di un mio intervento, ha provveduto a integrare il personale sanitario con l’assunzione di cinque infermieri che possono garantire assistenza immediata tutto il giorno. Altri cinque infermieri arriveranno. Quindi diciamo che appellandoci al senso di responsabilità di ciascuno, siamo riusciti a contenere gli iniziali tentativi di protesta, tra l’altro molto pacifici.
Come procede ora la campagna vaccinale?
La campagna vaccinale negli istituti penitenziari calabresi è partita a macchia di leopardo. Il 26 marzo scorso è stata avviata proprio a Catanzaro. Il giorno successivo, il 27 marzo, si è passati a Crotone e poi, da lì, via via sono continuate le vaccinazioni in tutti gli altri istituti. In particolare, le vaccinazioni procedono molto bene a Locri, Palmi, Reggio Calabria e Laureana di Borrello.
Oggi più del 60 per cento dei detenuti in Calabria ha ricevuto il vaccino. Senza sottacere tuttavia che molti detenuti, ma ciò è accaduto nella primissima fase, rifiutavano di fare il vaccino perché le uniche dosi disponibili erano quelle di AstraZeneca. Ora però, a seguito anche degli incontri informativi svoltisi, sono molto più rari i dinieghi.
Quali vaccini vengono somministrati?
Principalmente AstraZeneca e ovviamente, quando ci sono situazioni di fragilità o comorbilità, Pfizer. Di fatto l’aumento degli approvvigionamenti nazionali si è riverberato anche su quello regionale, quindi le dosi di vaccino non mancano. Certo, il difetto di comunicazione c’è stato. Pensiamo alle fasce d’età per la somministrazione dei vaccini o, piuttosto, al caos AstraZeneca. E lo scetticismo registrato al di fuori delle carceri si è forse amplificato all’interno, dove tra l’altro i detenuti non possono accedere costantemente al materiale informativo disponibile sui media o in rete. Le persone sono rimaste ovunque tramortite da questa confliggenza informativa. Ma si tratta di affidare loro messaggi tranquillizzanti per fargli comprendere che i vaccini sono sicuri. E adesso, attraverso a un’opera di informazione capillare da parte del personale pedagogico, di quello sanitario e dirigenziale, e anche attraverso il mio impegno in qualità di Garante, le persone si stanno vaccinando. Io stesso sono stato vaccinato con AstraZeneca. Quindi, quando entro nelle carceri, porto loro anche la mia personalissima testimonianza.
Quali categorie di detenuti sono state privilegiate?
Qui rientriamo nell’ambito della confusione che ha generato disinformazione a 360 gradi. Le persone detenute non smettono di essere cittadini, titolari di diritti. Questo vuol dire che non dovrebbe esserci alcuna distinzione tra quel che accade fuori o dentro le mura di un carcere. Ma gli istituti penitenziari sono comunque comunità “chiuse”, così come lo sono, al netto delle differenze, le Rsa. Quando la campagna vaccinale è partita l’orientamento generale è stato quello di non suddividere la popolazione detenuta per categorie preferenziali. Perché, ad esempio, in un istituto in cui sono recluse magari 100 persone, si tende a vaccinare tutti, tanto i detenuti quanto il personale penitenziario. Poi, chiaramente, tutto dipende dalle Asp di riferimento. Ad esempio, nell’Asp di Reggio Calabria, cui afferiscono ben cinque istituti penitenziari, si è proceduto nel rispetto dell’allegato contenuto nella prima ordinanza del Generale Figliuolo, che faceva riferimento a una differenziazione sulla base di patologie, fragilità ed età. Ecco perché le parlavo di una campagna vaccinale partita a macchia di leopardo.
Sono previste sospensioni o affidamenti ad altre mansioni per il personale penitenziario che sceglie di non vaccinarsi?
No, al momento no. Anche perché sono in contatto con il Provveditorato regionale e le assicuro che, tra gli agenti di polizia penitenziaria, le persone che hanno scelto di non vaccinarsi forse si contano sulle dita di una mano. Tra l’altro il Capo del Dipartimento, venuto in Calabria in occasione della commemorazione di Sergio Cosmai (direttore di carcere freddato a colpi di pistola sulla SS19, nel tratto che collega Cosenza a Rende, ndr) ha fortemente raccomandato a tutti di vaccinarsi.
È chiaro, senza la necessità di metter su una caccia all’untore, che il virus viene da fuori le carceri. Anche perché i nuovi arrivi, come le ho accennato, vengono immediatamente isolati per 14 giorni. Il personale penitenziario deve vaccinarsi. E deve poter accedere a tutte le informazioni utili per farlo.
Come viene garantito l’isolamento dei nuovi arrivi o, piuttosto, la quarantena dei detenuti venuti a contatto con un positivo?
Su questo aspetto c’è una specifica direttiva del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il DAP chiedeva a tutti i Provveditorati d’Italia di individuare alcune sezioni da destinare esclusivamente alle persone positive o quelle da mettere in quarantena per garantire l’isolamento. Tutti gli istituti che potevano si sono quindi regolati in questo modo. Di solito si è scelto di sacrificare le sezioni di transito, che sono quelle nelle quali si trovano le persone detenute che svolgono un lavoro all’esterno. Quindi ogni istituto di solito ha una sezione Covid che è o quella di transito o quella della semilibertà. Chiaramente, tutto varia da un carcere all’altro. Se la struttura penitenziaria, ad esempio, è costituita da un unico blocco detentivo, è più complicato perché anche se viene rispettata la distanza ci si trova nel medesimo ambiente che andrebbe sanificato di continuo. E non sempre è possibile.
In Calabria, diversi istituti di pena sono costituiti da più blocchi, dunque organizzarsi era più semplice. Il caso di Catanzaro, certo, ci ha creato qualche difficoltà in più.
Quale?
La sezione di reclusione ordinaria è su tre piani. Il primo è stato adibito solo ed esclusivamente a sezione Covid. Quindi lì sono state posizionate tutte le persone positive in attesa di negativizzarsi. Alcuni ci sono rimasti per oltre tre settimane, fin quando cioè il secondo tampone di controllo non fosse risultato negativo. Erano lì tutti insieme contemporaneamente, senza poter mai uscire. Non è stato facile, anzi. È stato davvero molto complesso.
Pensa che il diritto all’assistenza sanitaria in carcere sia stato compresso in questi lunghi quindici mesi di pandemia?
Il diritto all’assistenza sanitaria in carcere è uno dei problemi più complessi in assoluto. Come sa, nel 2008 la medicina penitenziaria è transitata nelle competenze del Sistema Sanitario Nazionale. Ogni Regione, sulla base della riforma del Titolo V, ha applicato i propri criteri. E qui veniamo al punto: è come se ci fossero due Moloch che si fronteggiano. Mi riferisco, chiaramente, alle due amministrazioni competenti sulla questione, quella sanitaria e quella della giustizia. Equiparare la sanità penitanziaria a quella nazionale è concettualmente corretto, ma nella pratica si traduce in un’organizzazione decentrata che differisce da una Regione all’altra. Su cui si innescano le criticità relative alle persone detenute che hanno problemi di natura psichiatrica o diverse comorbilità.
Questo è un tema primario. E forse, proprio la pandemia potrebbe essere utile per rimetterlo al centro del dibattito nazionale. Perché se c’è una cosa che questo virus ci ha insegnato è che ormai è giunto il tempo delle riforme mancate.
A quali riforme si riferisce?
Servono riforme strutturali del sistema penitenziario che consentano davvero un accesso compiuto alle misure alternative alla detenzione, già previste nell’ordinamento ma sostanzialmente inapplicate. Su questo fronte devo dire che il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha avviato una proficua discussione. Il carcere dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, ma non è così, perché il sistema è carcerocentrico. Ridurre le presenze in carcere comporterebbe un forte abbassamento del sovraffollamento e l’affermazione di una nuova cultura, radicale, dell’esecuzione penale. A quel punto, i trattamenti sarebbero effettivamente individuali e garantiti e, soprattutto, si giungerebbe a quella rieducazione del condannato prevista dalla Costituzione. Oggi il trattamento individuale nelle carceri sostanzialmente non esiste, se non in rarissimi casi. Perché manca un sapere trattamentale specifico e mancano figure professionali altamente qualificate. Su questi punti credo che questo Parlamento, ma soprattutto il presidente del Consiglio, coadiuvato dal ministro della Giustizia, dovrebbero fare di più.