Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Ghetti, caporalato e giustizia: intervista al Procuratore Capo di Foggia

L’intervista a tutto campo al Procuratore Capo di Foggia, Ludovico Vaccaro, è una di quelle pagine di legalità che è importante poter scrivere.

Dall’ultima operazione condotta nel ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, all’illegalità diffusa in città il messaggio è chiaro e univoco: la giustizia è un bene comune che tutti, indistintamente, possono contribuire a costruire. Ma quando la sete di giustizia si unisce all’umanità dei contenuti, persino lo Stato smette d’essere vestito di una “muscolarità” talvolta intrinseca alla propria azione coercitiva per diventare, semplicemente, un ente creato dall’uomo al servizio degli uomini. Di tutti gli uomini. E la legge non è più solo repressione. Ma anche, e forse soprattutto, tutela dei diritti umani.

Procuratore Vaccaro, partiamo dall’operazione ‘Law and Humanity’ condotta nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. È giusto interpretarla come il primo passo dello Stato per ripristinare il senso di legalità in un luogo che, purtroppo, ne è privo?
Innanzitutto la ringrazio per l’opportunità che mi sta offrendo di spiegare un’operazione complessa. Per capire la quale bisogna partire dal fatto che il gran ghetto di Borgo Mezzanone, conosciuto anche come ex Pista, è un insediamento molto ampio che arriva anche ad una dimensione di 5-6mila persone nei periodi della raccolta del pomodoro. Questa baraccopoli esiste da molti anni nel silenzio, nell’impotenza e anche nell’inerzia di tutti gli organi che avevano e hanno l’obbligo di agire. Ebbene il 20 febbraio scorso la ‘squadra Stato’, così come mi piace definirla, ha deciso finalmente di intervenire. L’occasione ci è stata offerta da alcune indagini che hanno riguardato una serie di incendi che si sono verificati nella baraccopoli tra la fine di ottobre 2018 e gli inizi di novembre. Nel corso dei quali, per altro, è morta una persona, un ragazzo giovanissimo. Quando abbiamo condotto i primi sopralluoghi abbiamo toccato con mano una situazione di illegalità diffusa sulla base della quale abbiamo deciso di intervenire. Tuttavia, abbiamo constatato l’impossibilità, in quelle condizioni, di svolgere un’attività d’indagine più approfondita. Ci sono tutta una serie di relazioni che danno atto dell’impossibilità di ricostruire nei minimi particolari cosa sia accaduto esattamente nel corso di quegli incendi. È come se quella baraccopoli rappresentasse un pezzo di territorio che sfugge al controllo dello Stato. Dunque era difficile per noi ricostruire le dinamiche criminose e delittuose che si svolgono in quel luogo, specie da un punto di vista probatorio.

Da qui, la decisione di intervenire.
Esatto. Il problema va risolto alla radice. La Pista è tutta illegale, completamente illegale. E, soprattutto, è un luogo in cui i diritti umani essenziali come il diritto di abitare, di vivere, di non essere sfruttati, lo stesso diritto all’integrità fisica e personale, sono quotidianamente calpestati. Tuttora ritengo che bisogna intervenire e bisogna eliminare questa baraccopoli. Non c’è altra strada. Non si può pensare di perseguire il singolo spaccio, il singolo sfruttamento della prostituzione, il singolo furto di energia. È la situazione generale di totale illegalità che va eliminata alla radice.

Come?
Per dirla utilizzando il linguaggio schermistico, anziché andare di spada abbiamo scelto di colpire di fioretto. Mi spiego. Andavano individuati degli obiettivi da colpire, in una fase preliminare, per far comprendere due cose. Innanzitutto che la Procura della Repubblica c’è, deve intervenire e che quella situazione va eliminata. In secondo luogo, lo Stato ha agito senza essere invasivo e dirompente. Nel senso che abbiamo ritenuto più che giusto tutelare quei luoghi che, seppur abusivamente, sono destinati ad abitazione. Non potevamo togliere un tetto a chi un tetto, sia pure in lamiera, sia pure in eternit, comunque ce l’ha. Allora siamo intervenuti, in quelle modalità, per far comprendere che questa situazione in cui i diritti umani vengono quotidianamente violati non può più essere tollerata. Allo stesso tempo, la nostra attività vuole fungere da stimolo affinché gli organi competenti procurino insediamenti abitativi alle persone regolari nel nostro Paese o a quelli che sono in procinto di esserlo. Devono poter vivere in maniera dignitosa. E, soprattutto, dobbiamo garantire che lavorino in maniera dignitosa.

Si riferisce al caporalato, immagino…
Certamente. La verità è che non possiamo occuparci del caporalato solo quando muoiono sedici persone per la strada e chissà quante altre nelle nostre campagne. Accade ogni anno, ciclicamente. Vittima più, vittima meno. Il caporalato va combattuto adesso, non durante la raccolta del pomodoro. A partire da oggi, non da domani. E il ghetto di Borgo Mezzanone in particolare, con le sue condizioni di vita disumane, è il serbatoio del caporalato.

Quindi basta sgomberare un ghetto oggi per eliminare il caporalato domani?
Serve un’azione condivisa, una collaborazione tra le istituzioni dello Stato. Il caporalato è un fenomeno complesso. Da un lato c’è la filiera della grande distribuzione, che riesce a imporre ai trasformatori prezzi sempre più bassi. Il trasformatore, schiacciato dai prezzi della vendita, schiaccia a sua volta il produttore, il contadino, l’imprenditore agricolo. Il quale, a sua volta, schiaccia il lavoratore comprimendone i diritti fino a ridurlo a lavorare in condizioni che nessun essere umano dovrebbe accettare. Perché accettano? Perché moltissimi di questi lavoratori vivono in condizioni disumane, in antri infernali come quello di Borgo Mezzanone. Queste persone accettano di lavorare pur di avere qualcosa di cui vivere. È un circolo vizioso in cui, alla base, c’è una grande distribuzione che fissa prezzi irrisori proprio perché sa di poter contare su una nutrita schiera di persone disposte a lavorare per pochi euro a giornata. E sono disposte a farlo perché popolano i ghetti come quello della ex Pista.

La legge contro il caporalato (legge n. 199 del 2016, ndr), seppur necessaria, ha i suoi limiti. Arrestare il cosiddetto ‘capo nero’, colui il quale trasporta i lavoratori nelle campagne, è necessario ma non sufficiente. Come si arriva a colpire la matrice del problema e, cioè, la grande distribuzione?
Rispetto a ciò che accadeva nel passato, oggi la legge ci consente di aggredire anche le imprese. Il lavoro che stiamo portando avanti come Procura e abbiamo istituito, non a caso, un ‘pool caporalato’ che si occupa specificatamente di queste questioni, è quello di indagare e colpire anche le aziende che sfruttano i lavoratori. La norma, del resto, prevede non solo la punizione dell’intermediario, il cosiddetto ‘caporale’, ma anche dell’imprenditore agricolo che sfrutta il lavoro altrui. Sono previsti anche una serie di indici di sfruttamento. Il problema sta nel riuscire a individuare le imprese che sfruttano da quelle che non lo fanno. O da quelle che, seppur lo fanno, vi sono costrette perché alla base del fenomeno c’è una vera e propria filiera dello sfruttamento. Il sistema delle imprese agricole, oggi, è talmente inquinato che l’impresa sana, quella che vuole rispettare le regole, avrebbe serie difficoltà a restare sul mercato.

Lei ha fatto riferimento alle vittime di questa estate. A quei sedici ragazzi morti per la strada. Sono stati interrogati i sopravvissuti? E, se sì, cosa avete scoperto?
Mi sono recato su quei luoghi personalmente. I sopravvissuti hanno dichiarato di lavorare dodici ore al giorno per un guadagno di 25 o 30 euro al massimo a giornata. E pensi, parte di quei soldi erano stati già consegnati al caporale che gli aveva garantito il trasporto in campagna e l’acqua per bere durante il lavoro. Tant’è che quei soldi, poi, li abbiamo ritrovati addosso al caporale rimasto ucciso. Capisce bene che se il mercato è questo, se la compressione dei diritti è tale, l’impresa sana non ha spazio alcuno. Allora è molto importante riuscire a fare un lavoro sulle imprese. Ed è questa la strategia investigativa che stiamo ponendo in essere. Ma se, tornando al discorso precedente, non eliminiamo alla radice il serbatoio d’eccellenza del caporalato che qui, nella Capitanata, è proprio il ghetto di Borgo Mezzanone, insieme a tutte le altre baraccopoli di minor portata abitativa, facciamo lo stesso lavoro di chi tenta di svuotare una barca che fa acqua con i secchi. Acqua togli e acqua entra. Vogliamo combattere seriamente il caporalato? Bene, allora dobbiamo trovare una sistemazione abitativa dignitosa alle persone che vivono in questi ghetti e prevedere un sistema di trasporti legale dal luogo in cui vivono ai luoghi di lavoro. Solo così toglieremo ossigeno e linfa vitale al fenomeno criminoso del caporalato. Fatto questo, come lei fa giustamente notare, è del tutto marginale reprimere il solo caporale, il ‘capo nero’ che sfrutta i braccianti. Vanno aggredite anche le imprese e, a salire, l’intera filiera.

Quindi, in tal senso, è necessaria una collaborazione tra istituzioni. In sostanza, la Procura non dovrebbe essere lasciata sola.
È quello che auspico ed è esattamente il senso dell’intervento che abbiamo posto in essere su Borgo Mezzanone. Abbiamo voluto mandare a tutti gli attori, istituzionali e non, un messaggio chiaro e forte. La Procura non può più tollerare questa situazione di illegalità. Non vogliamo e non possiamo. Sarebbe totalmente inutile, per altro, intervenire in maniera violenta, come pure in passato è stato fatto con lo sgombero di altri ghetti, privando queste persone dell’unico tetto che hanno. Ma mandare un segnale era ed è necessario. Perché qui c’è bisogno di un intervento multifattoriale da parte di una serie di attori dello Stato e degli enti locali. Questo problema può essere risolto solo collaborando, in sinergia. Va compreso che queste persone costituiscono una forza lavoro necessaria per l’economia del nostro territorio. Ma non devono essere sfruttati. Vanno messi in condizione di vivere in maniera dignitosa e umanamente accettabile. Questo enorme agglomerato abitativo va ridistribuito sul territorio creando piccoli insediamenti dentro i comuni e non al di fuori di essi. E se proprio non si può, poco distanti dalle unità abitative locali. Luoghi controllabili, gestibili, di cui non si possa impadronire la criminalità italiana o straniera. Luoghi in cui vengano garantiti i servizi assistenziali e in cui sia previsto un sistema di trasporto legale verso i luoghi di lavoro. Vede, ogni territorio ha la sua storia. Quello della Capitanata era un territorio di grandi proprietari terrieri latifondisti. Nelle campagne, c’erano le cosiddette ‘case dei contadini’. I contadini abitavano nella terra che coltivavano. Bisognerebbe cercare, in qualche modo, di riprodurre questo sistema evitando, tuttavia, l’esclusione e l’emarginazione sociale.

In riferimento alla malavita organizzata, italiana e straniera, lei è a conoscenza della presenza di una criminalità, specie di matrice nigeriana, che opera indisturbata all’interno di mega baraccopoli come quella di Borgo Mezzanone?
Le indagini sulla criminalità organizzata, italiana e straniera, le conduce la Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) che ha sede a Bari. Chiaramente, con i colleghi di Bari, c’è una collaborazione costante. Quello che posso dirle con estrema certezza è che ci sono nuclei di criminalità organizzata di matrice nigeriana a Borgo Mezzanone. Questo è certo. C’è un forte controllo su quella baraccopoli. Ecco perché le dicevo che la necessità, da parte nostra, è quella di riappropriarci di una porzione del territorio italiano che attualmente sfugge al controllo dello Stato. I colleghi di Bari stanno lavorando su questo. Attendiamo fiduciosi che le loro indagini vadano avanti.

Sulle connessioni sempre più sofisticate tra mafie italiane e mafie straniere mi viene in mente l’operazione ‘Shefi’, condotta proprio su questo territorio con l’ausilio di squadre investigative comuni. È stata sgominata una banda di malviventi composta in buona parte da italiani e bulgari, dediti principalmente al traffico di droga ma non solo, proprio grazie alla collaborazione tra Stati e tra organi investigativi di Stati diversi. Ma in Europa questo è semplice da immaginare. Come si fa, invece, con la Nigeria e con una mafia in forte crescita come quella nigeriana?
All’interno dell’Europa abbiamo una serie di strumenti che oggi la legislazione nazionale e sovranazionale ci mette a disposizione. Penso all’ordine d’indagine europeo, alle squadre investigative comuni che lei ha citato, e a tante altre forme di cooperazione che rendono molto più agevole persino l’attività investigativa. Quando però parliamo di Stati extraeuropei o, addirittura, dei Paesi africani, il discorso si fa decisamente più complesso per una serie di ragioni. Dalle questioni di lingua fino a quelle relative al collegamento tra Stati. Per cui, in tal senso, non è certo quella la strategia da seguire. È in Italia che vanno combattute le organizzazioni di matrice straniera che qui nascono e proliferano. Non c’è più la necessità di pensare di contrastare la mafia nigeriana in Nigeria. Sono radicati qui, in Italia, nel nostro territorio. Oggi sono tantissime le indagini che dimostrano che questa mafia è stabilmente e saldamente radicata nel nostro Paese. Noi abbiamo tutti gli strumenti e tulle le possibilità di combatterla qui dove è radicata. Questa mafia va estirpata qui, dove prolifera e agisce quasi totalmente indisturbata. Spetta a noi agire.

Anche se c’è una certa propaganda che specula sulle operazioni poste in essere dalla Procura?
Certo. Ripenso proprio all’operazione da cui siamo partiti in questa intervista, quella che abbiamo denominato, non a caso, ‘Law and Humanity’. Ci sono state troppe speculazioni. E io la ringrazio perché mi sta offrendo la possibilità di spiegare al meglio il senso di un’azione di giustizia che, le assicuro, non sarà la prima. Ma tutte le altre che verranno saranno condotte esattamente sullo stesso filone. Riaffermare la legge e la forza dello Stato su un territorio che purtroppo, al momento, sfugge al nostro controllo. Ma riaffermiamo, contestualmente, il senso d’umanità. Le legge non è solo repressione. È anche tutela dei diritti umani. Ho letto articoli giornalistici che hanno dato un senso esattamente contrario a quello che è stato lo spirito dell’operazione ‘Law and Humanity’. Uno spirito che, anche attraverso il nome, ‘Legge e Umanità’, avevamo inteso esprimere. È vero che a Borgo Mezzanone c’è un’illegalità diffusa, lo abbiamo detto e ripetuto. Ma non si tratta di una condizione di illegalità creata unicamente da chi vive in quella baraccopoli. Noi abbiamo pensato, soprattutto, all’illegalità subita. Capisce bene che i termini della discussione sono totalmente ribaltati. Abbiamo considerato chi vive sulla Pista non solo come un colpevole, bensì come vittima. E, sulla base di questo, abbiamo agito. Vogliamo riaffermare diritti che sono anche i loro, non solo i nostri. Penso alle condizioni in cui sono costretti a vivere, allo sfruttamento della prostituzione, ai pericoli che quotidianamente corrono vivendo tra rifiuti tossici e nocivi. E voglio rivendicare il senso d’umanità che ci ha spinti e ci sta spingendo ad agire come stiamo facendo. Nel rispetto dei diritti umani di chi vive nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Andremo avanti così, un passo alla volta. Non ci saranno sgomberi clamorosi ma, poco per volta, restituiremo al controllo dello Stato un suo territorio. Nel massimo rispetto della legge sì, ma anche dell’umanità.

Eppure quest’operazione è stata probabilmente condizionata, almeno nel suo aspetto investigativo e probatorio, da una fuga di notizie. Come se lo spiega?
Devo dire che ce lo aspettavamo. Come lei ben sa nell’operazione, al di là di un vero e proprio gruppo interforze composto da Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito, erano coinvolte anche la Prefettura di Foggia, i Vigili del Fuoco, il personale di servizio del 118, dell’Enel, dell’Arpa Puglia, della Regione e, persino, alcune associazioni umanitarie che operano all’interno della baraccopoli. Visto il contesto la fuga di notizie, sebbene inopportuna, era sostanzialmente inevitabile.

Ecco, parliamo proprio del contesto uscendo dalla baraccopoli di Borgo Mezzanone per spostarci nelle maglie di un’illiceità che coinvolge pienamente la città di Foggia e la sua provincia. Dopo gli arresti degli ultimi mesi, cosa sta cambiando nella lotta alla criminalità in una provincia così complessa?
Iniziano a cambiare le risposte, e la città ne aveva bisogno. Perché c’è stata una lunga serie di attentati dinamitardi e incendiari a danno degli esercizi commerciali, e non solo, dopo i quali iniziava a diffondersi e ad alimentarsi un clima di paura e di intimidazione. Il nostro territorio è già caratterizzato da un’innata ritrosia alla collaborazione. Per noi era necessario reagire per spezzare questo circolo vizioso e fare in modo che la gente cominciasse a parlare. Ecco perché abbiamo messo insieme, da un punto di vista investigativo e probatorio, una serie di episodi e abbiamo dato una risposta chiara e inequivocabile. Lo Stato c’è. Guardi, il vero problema è che la gente deve cominciare a capire l’importanza di ribellarsi, alzare la testa e denunciare. E, da questo punto di vista, stiamo cercando di venire incontro e aiutare la cittadinanza. Ognuno deve essere messo in condizione di comprendere che il danno a un commerciante non riguarda solo la vittima, ma la collettività. Invece oggi, purtroppo, questa coscienza non c’è. E va costruita. La vittima dell’estorsione o del danneggiamento si sente isolata, abbandonata dalle istituzioni. Nel tempo mi è venuto naturale fare un paragone che esprime al meglio la dinamica del fenomeno estorsivo in città.

Quale?
La persona vittima dell’estorsione, dell’attentato o dell’atto intimidatorio, qui a Foggia, è in una condizione molto simile a quella della vittima di violenza domestica. È molto sola. Ha paura per sé, per i propri famigliari, ha paura per la propria attività, teme che la denuncia significhi rompere quel sottile equilibrio che regola tutta la propria esistenza. Questa persona non si rivolge alle forze dell’ordine perché teme che questo sia un passo da cui non si possa più tornare indietro. Fatte queste premesse, è chiaro che la vittima debba essere accompagnata in un percorso. Ebbene, qui a Foggia mancano completamente dei corpi intermedi che accompagnino le persone offese in un percorso di assistenza psicologica, morale, legale. Che le portino verso la denuncia.

Gli attentati di cui parliamo non sono forse sintomatici di una debolezza che porta la criminalità a tentare di riappropriarsi del territorio?
Le organizzazioni criminali erano un po’ in difficoltà, come lo sono oggi, a seguito di una serie di arresti. Grazie all’operazione ‘Decimazione’, condotta con la Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, abbiamo arrestato trenta persone. In questo territorio un’operazione così ampia non si faceva da tantissimi anni. Forse non era mai stata fatta. Abbiamo colpito trasversalmente tutte le batterie, anche quelle contrapposte, della cosiddetta ‘Società Foggiana’. Quindi indubbiamente la criminalità organizzata stava vivendo un periodo di grande disagio. Gli attentati degli ultimi tempi, per un verso, erano sintomatici di una debolezza che lei ha giustamente colto. Per l’altro verso, erano indubbiamente protesi a riaffermare una strategia di controllo basata sull’intimidazione. La risposta data dallo Stato, attraverso i sedici arresti del febbraio scorso, penso abbia costretto la criminalità organizzata a battere in ritirata, almeno per il momento. O almeno, lo spero. La lezione che va tratta da questa ondata di arresti è che lo Stato c’è e sta reagendo. Ed è inutile portare avanti un confronto muscolare con lo Stato, che è e resta necessariamente più forte.

Qual è l’eredità lasciata sul territorio dalla ‘Società foggiana’?
Nessuna, in termini di ricchezza per la collettività. La criminalità organizzata ha pesantemente impoverito il territorio. Le imprese chiudono, non aprono. E, quelle che restano, non assumono e licenziano.

Ma se la collettività è più povera perché non sceglie di collaborare con lo Stato?
Perché si sente sola. In questo territorio una delle frasi più utilizzate dalla criminalità organizzata che pone in essere le estorsioni è: “devi metterti in regola.” Pertanto la vittima si convince che, pagando il pizzo, eviterà il problema a monte. Meglio pagare una tangente di 5mila euro piuttosto che subire un danno di 40mila euro e forse più. Hanno paura. Attraverso il lavoro svolto da questa Procura, sto agendo proprio nella direzione di combattere questo isolamento. Quel che dico ai miei colleghi, ed è questa la strategia che stiamo utilizzando, è: “Non facciamo il processo per il singolo episodio riguardante una sola vittima, cerchiamo di mettere insieme anche dieci, quindici vittime, e mandiamo a processo tanti testimoni.” Cerchiamo di costruire indagini secondo questa modalità. Se c’è stata una richiesta estorsiva a un negozio di alimentari, tanto per farle un esempio, è molto probabile che anche gli altri negozi di alimentari che insistono sulla stessa zona paghino il pizzo. Stesso discorso vale per tutti gli altri esercizi commerciali.

E sul piano probatorio? Se mancano i testimoni, o se questi non vogliono testimoniare, come si agisce?
Questo è un altro aspetto su cui insisto molto, purtroppo inascoltato. La necessità di un sistema di videosorveglianza efficiente. In questo caso devo farle un esempio tratto dalla mia esperienza pregressa di sostituto procuratore in questo territorio. Qualche anno fa stavamo conducendo indagini e istruendo processi sui fenomeni estorsivi legati al cosiddetto ‘cavallo di ritorno’. Eravamo riusciti a intercettare un telefono, quello attraverso il quale si concretizzavano queste richieste estorsive. Quando convocavamo le vittime, la prima risposta che ci davano alla domanda sul se avessero ricevuto richieste estorsive era: “No.” A quel punto, accendevo immediatamente il registratore e facevo ascoltare la voce della persona che stavo interrogando che veniva contattata dall’autore dell’estorsione attraverso il telefono. Messa di fronte a quella telefonata, la vittima cambiava immediatamente la propria risposta precedente e dichiarava: “Sì è vero dottore, ho ricevuto la richiesta estorsiva.” E parlava. Denunciava perché, in qualche modo, era stata aiutata e messa nelle condizioni di parlare. Cosa voglio dirle con questo? Che se noi, attraverso un sistema di videosorveglianza, riusciamo a individuare non solo la persona che piazza l’ordigno ma anche quella che entra nel negozio, magari sempre negli stessi giorni del mese, aiutiamo la parte sana della popolazione a uscire dalla condizione di isolamento e di paura che la paralizza. Purtroppo la città di Foggia è scarsamente dotata di un sistema di videosorveglianza efficiente. E in queste situazioni la vittima dell’estorsione cosa deve fare? Deve andare, da sola e a proprio rischio e pericolo, a denunciare? Anche quando magari non ha subito una vera e propria violenza o minaccia?

In che senso?
Mi spiego meglio. Il fenomeno estorsivo va conosciuto in tutti i suoi molteplici aspetti. Il suo elemento costitutivo, sulla base del diritto, è la sussistenza degli elementi della violenza o minaccia. Ma a Foggia molto spesso questi elementi mancano. Cioè, qui non c’è più bisogno di recarsi in un’attività commerciale e minacciare espressamente il titolare. Basta recarsi in questi luoghi e chiedere un “contributo per i carcerati” o un semplice “contributo” e la vittima, che ben conosce il sistema, sa e paga. Non c’è bisogno di minacce. Quando poi si va a processo e si chiede alla persona offesa se ha subito violenza o minaccia quest’ultima, dovendo dire la verità, risponde di no. E, magari, la violenza o minaccia non si è concretizzata presso la sua attività commerciale, bensì in tutt’altra parte della città piazzando un ordigno in un altro negozio. E torniamo al senso dell’intimidazione. Chi mette la bomba da Euronics, tanto per farle un esempio, lo fa per mandare un messaggio al titolare di quel negozio e a tutti gli altri. Per accreditarsi, presso gli altri commercianti della città, al fine di chiedere il famoso “contributo per i carcerati.”

Da quel che lei afferma si evince a chiare lettere che è tuttora in corso una battaglia tra una parte sana, rappresentata dalle istituzioni e dalla collettività resiliente, e una parte malata, la criminalità organizzata. Non è più complesso combattere la criminalità quando, quest’ultima, è ben riuscita a penetrare nei gangli della cosa pubblica? Il riferimento è all’altra operazione che avete condotto, quella denominata ‘Mercanti del Tempio’. E, in quel caso, tra gli indagati c’erano tre funzionari dell’ispettorato del lavoro, un Sottoufficiale dell’Arma dei Carabinieri e un nutrito gruppo di professionisti.
Su questo punto le faccio una premessa. Sono foggiano e ho lavorato quasi sempre in questo territorio. Tranne gli ultimi sei anni, in cui sono stato Procuratore a Larino. Tornando nella mia città, non mi aspettavo due cose: innanzitutto di trovarla così peggiorata. In secondo luogo, di scoprire tanta corruzione diffusa. Le devo precisare che più che un’infiltrazione della criminalità o della mafia nei gangli della pubblica amministrazione, che per carità esiste seppur, al momento, si tratta di casi isolati, c’è un altro fenomeno. Diverso e forse, per certi aspetti, persino più preoccupante. Qui c’è un’illegalità diffusa e pervasiva. Cioè, in questo territorio, c’è una sorta di assuefazione all’illecito che è come un tumore. L’illegalità sta penetrando tutti i tessuti come delle metastasi. Compresi i tessuti degli organi pubblici e, addirittura, di quegli organi pubblici che dovrebbero essere deputati al controllo. Come è avvenuto nell’operazione che lei cita, denominata ‘Mercanti del Tempio’. In questo caso ci sono stati una serie di comportamenti illeciti e corruttivi da parte di organi istituzionali che, invece, avrebbero dovuto garantire la legalità. E questo credo sia il frutto di una deriva che ha coinvolto l’intero territorio. Purtroppo parliamo di luoghi in cui lo Stato è ancora poco presente e, soprattutto, è sentito poco presente. Noi ci stiamo molto impegnando per far sentire che la ‘squadra Stato’ c’è. Per cercare di riavvicinare la collettività, la comunità intera, allo ‘Stato apparato’. Noi ci siamo. E se prima le persone ci sentivano distanti, e quindi più facilmente si lasciavano andare a condotte illecite, oggi devono sapere che siamo accanto a loro.

Del resto, uno dei suoi primi interventi da Procuratore Capo di Foggia è stato esattamente in questa direzione. Lei ha rivolto un vero e proprio appello alla cittadinanza.
È un appello che rinnovo perché ci credo profondamente. Nei primi mesi ho lavorato in silenzio perché era necessario porre le corrette condizioni affinché fosse garantita un’operatività dello Stato. Dovevamo fare in modo che gli uffici della Procura fossero messi in condizione di lavorare e che dunque fossero efficienti. Fatto questo, una volta partite le prime operazioni, ho rotto il silenzio per rivolgermi direttamente alla gente. Perché le persone devono capire che la giustizia è un bene comune di cui non solo tutti fruiamo, ma che tutti contribuiamo a costruire giorno per giorno. Ho iniziato a mandare una serie di appelli alla cittadinanza affinché le persone denuncino e testimonino. Perché è questa la base per poter costruire i processi. E io, per poter combattere la criminalità, devo fare i processi. Per fare i processi, ho bisogno di prove. Che mi possono essere offerte non solo dall’attività investigativa ma anche, e forse soprattutto, dalle persone. Oggi rinnovo questo appello. La Procura c’è, ci siamo. E siamo al servizio della collettività.

Iscriviti alla nostra newsletter!

Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.