Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Uomini e caporali ai tempi del «decreto insicurezza»

«Caporalato e sfruttamento si sgretolano quando la comunità comprende che il migrante è portatore di una civiltà altra che non va cancellata, ma accolta. Che i suoi problemi sono anche i nostri.»

A parlare è Marco Omizzolo, sociologo e scrittore, già presidente della cooperativa In Migrazione e di Tempi Moderni. Autore di saggi e ricerche nazionali e internazionali sulle migrazioni, sui servizi sociali e sulla criminalità organizzata, da anni porta avanti una battaglia di civiltà al fianco dei braccianti indiani sfruttati nei campi dell’Agro Pontino. Come autore de Il sistema criminale degli indiani punjabi in provincia di Latina, insieme a Francesco Carchedi e de La Quinta Mafia (Edizioni Radici Future) ha assestato un duro colpo al sistema mafioso e caporale che affligge la provincia di Latina. Vessazioni, minacce e intimidazioni a vario livello non lo hanno piegato. Perché in un Paese in cui il caporalato resta una malattia sistemica e trasversale, che non conosce etnia, genere, religione o età, la sua è rimasta una voce libera. Una voce che ha squarciato il velo dell’ipocrisia e dell’omertà che regolano i rapporti di forza nel mercato del lavoro. I moderni tarli della corruzione che condizionano tutti, italiani e non.
In questa intervista a tutto campo Marco Omizzolo non si limita a enunciare le falle del sistema, ma fornisce elementi utili per instillare il germe della coscienza sociale. Dalla comunità consapevole dei doveri, ma anche dei diritti, rinasce una speranza. Che parla di libertà.

Marco, il 28 settembre scorso è stato a Tunisi per partecipare ai lavori dell’International Day of Peace, il forum internazionale organizzato da Ngo-Unesco Liaison Committee. Un’occasione importante per discutere di diritti umani e grave sfruttamento lavorativo in Europa e in Italia, che le ha permesso di traghettare fuori dai confini nazionali la condizione dei lavoratori Sikh sfruttati nei campi dell’Agro Pontino. Che riscontri ha avuto?
È stata un’esperienza importantissima che mi ha permesso di trasferire, nell’ambito di un convegno internazionale organizzato dall’Unesco alla presenza di tutte le Ong mondiali, non solo la mia esperienza ma una serie di riflessioni maturate nell’arco ormai di dieci anni sul tema del grave sfruttamento nel mondo del lavoro, delle agromafie e del caporalato. Il nostro perimetro di riferimento, e non poteva essere altrimenti, è stata l’Europa. L’Unione europea nasce come luogo dei diritti, delle costituzioni liberali, della democrazia partecipativa. Eppure oggi, in questa stessa Europa, noi monitoriamo costantemente casi accertati di persone ridotte in schiavitù, di un mercato del lavoro che funziona in maniera duale, di agromafie che gestiscono il reclutamento nonché la tratta degli esseri umani, di sodalizi tra mafie straniere e italiane che si coordinano tra loro per ottimizzare i profitti. Il contrasto tra l’Europa delle libertà e questa Europa dello sfruttamento è evidente. La relazione ha avuto notevole successo ed è stata non solo applaudita ma anche ripresa in molti altri interventi, compreso quello finale del direttore dell’Unesco. Il 28 settembre scorso si è aperta una prospettiva internazionale importante per far uscire il tema del caporalato da una visione prettamente localistica. Finalmente è stato messo in evidenza che il caporalato è un fenomeno molto ampio, che risponde a un progetto politico di società. Come a dire: quel grave sfruttamento lavorativo di cui tanto si parla non riguarda solo la Capitanata, il Pontino o Rosarno. Riguarda tutte le realtà e, trasversalmente, tutti i settori.

Il caporalato è, dunque, un fenomeno trasversale e internazionale, non solo un problema italiano…
Precisamente. Personalmente ho condotto ricerche in Spagna, in Grecia, in Romania, in India. In Inghilterra il problema dello sfruttamento nel mondo del lavoro è gravissimo. Basti pensare che l’ambasciata inglese in Italia ogni anno organizza un convegno su questo tema perché anche loro si stanno chiedendo come intervenire in maniera incisiva per arginare questo fenomeno. Vuol dire che le diverse riforme approvate negli ultimi venti anni non sono state soltanto ispirate dalla ratio economica del risparmio per abbassare il deficit, ma rispondono a una logica progettuale molto precisa. Il mercato del lavoro, oggi, è un luogo in cui c’è chi comanda e chi subisce. C’è il padrone e c’è il servo, il lavoratore subordinato, che vive in una condizione di subordinazione che non colpisce solo il suo ambito lavorativo ma la sua vita quotidiana. La persona ridotta in schiavitù vive una condizione di subordinazione costante e pervasiva. E questo vale soprattutto per il migrante che ha una serie di incombenze in più: deve rinnovare il permesso di soggiorno, vive in un territorio che non risponde alle sue logiche culturali, non sa di avere diritti. Su tutto questo pesano le responsabilità di uno Stato incapace di organizzare servizi avanzati. Specie nei territori più esposti.

Questo rapporto duale, questa condizione di subordinazione, sono processi che a suo avviso si possono invertire?
Sono processi che innanzi tutto vanno meglio analizzati. Oggi c’è ancora troppa superficialità nella lettura della fenomenologia del caporalato. Soprattutto da parte delle istituzioni, la cui interpretazione resta spesso repressiva. In alcuni casi questo è legittimo, e mi riferisco all’azione delle forze dell’ordine. Ma in altri casi la politica dovrebbe comprendere che questo problema non si gestisce solo attraverso l’opzione repressiva. Sono necessarie delle riforme di sistema che vadano in direzione contraria rispetto a quella finora praticata. Non è possibile vedere padroni e caporali da un lato e uffici di collocamento che non funzionano dall’altro. Non possiamo restare inermi davanti a campi pieni e ben visibili di uomini e donne che vi lavorano anche quattordici ore al giorno e un sistema di controlli, penso all’ispettorato del lavoro, che è assolutamente inefficace, inefficiente quando non anche complice. Sappiamo che molti ispettori del lavoro agiscono in associazione con i padroni, avvertendoli per tempo dei controlli. Questi rapporti di forza, questi legami di corruzione e di convenienza di varia natura, vanno assolutamente recisi. Specie quando i caporali sono legati ad ambienti criminali e mafiosi.

Se da un lato il sistema pare essere colluso in ogni suo ambito, dall’altro anche quelle istituzioni laiche di tutela paiono aver abdicato alla loro funzione primaria, alla loro stessa ragion d’essere. Penso ai sindacati la cui azione, oggi più di ieri, pare protesa a tutelare gli interessi di categoria piuttosto che quelli, più trasversali, dei lavoratori. In questo senso, quanto può essere utile costituire sportelli sindacali permanenti nei luoghi sensibili? E in che modo è ancora possibile ottimizzare l’azione sindacale?
È vero, il sistema è colluso in ogni suo ambito. Ed è vero pure che c’è un pezzo del sindacato che è colluso, al pari dell’ispettore del lavoro corrotto, col mondo padronale e mafioso. Questo è sempre più evidente. Ma vi è anche un pezzo del mondo sindacale che sta provando a fare il suo, a invertire la tendenza. Penso alla Flai Cgil che, in provincia di Latina, si è costituita parte civile in alcuni processi aprendo delle vere e proprie vertenze, non solo degli sportelli. Indubbiamente c’è una qualità dell’azione sindacale che va migliorata, non è sufficiente aprire uno sportello. È necessario costruire dei servizi che siano d’avanguardia. Il sindacato non può ridursi a essere il luogo fisico in cui accedono i lavoratori. Deve tornare a operare in maniera stabile nei luoghi di residenza dei lavoratori, migranti e non, con delle competenze molto alte e con un impegno che non può essere da orario d’ufficio. Bisogna cambiare la modalità d’intervento.

Che è un po’ quel che fa In Migrazione, la cooperativa che lei presiede.
Ci proviamo. E in molti casi, devo dire, ci stiamo riuscendo. Tempo fa abbiamo aperto un ufficio con servizi d’avanguardia, si chiamava Bella Farnia. Facevamo corsi d’italiano e corsi di diritto del lavoro anche alle otto di sera. L’insegnante non si limitava unicamente a far apprendere la lingua al bracciante indiano. Gli insegnava a leggere la busta paga, a tradurre e a comprendere il contratto di lavoro. Abbiamo spiegato loro cos’è un giornalista, cos’è un carabiniere, un caporale e un datore di lavoro. E, in quest’ultimo caso, gli abbiamo spiegato che il datore di lavoro non deve essere chiamato padrone. Abbiamo chiuso quel progetto, almeno in via formale, a settembre del 2015. Ebbene, il 18 aprile del 2016 ben quattromila braccianti indiani sono scesi in piazza per manifestare per i propri diritti. Perché erano consapevoli di averne. Cosa voglio dire con questo? Semplicemente che quando viene adottata una modalità d’azione sindacale diversa da quella dell’impiegato d’ufficio che timbra il cartellino, si crea consapevolezza e si ottengono risultati tangibili. Proprio in ragione di questo lavoro pregresso la legge n.199/2016 (Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo, ndr) ha trovato applicazione, in provincia di Latina, molto più che in altre realtà. Sono stati arrestati i caporali, sono state sequestrate le aziende e ci sono ancora processi in corso. Io stesso, insieme a decine di braccianti, ho occupato fisicamente aziende e realtà che, oggi, sono finite tutte sotto processo. Quindi c’è un lungo percorso da fare, ma bisogna cambiare il nostro sguardo e la nostra metodologia.

Tuttavia la legge contro il caporalato ha le sue lacune. In primis non guarda a tutta la filiera dell’agroalimentare ma solo alle fasi finali, rischiando di colpire unicamente gli ultimi anelli della catena. Che troppo spesso sono anche i più deboli. In secondo luogo, il caporalato non è un fenomeno legato unicamente al settore agricolo. Fatte queste premesse, la sola denuncia è sufficiente?
Assolutamente no. Si deve partire da una decostruzione e ricostruzione del nostro sguardo, della nostra analisi del fenomeno insieme ai lavoratori e ai braccianti. Una volta si sarebbe definita appartenenza di classe. Adesso utilizziamo una terminologia un po’ più evoluta, ma da lì si parte per modificare i rapporti di forza. Serve un’azione trasversale che punti, sopra ogni altra cosa, a creare cultura. Bisogna insegnare che esistono dei doveri, ma anche dei diritti. Imprescindibili. Le faccio un esempio tangibile. Nel 2014, con la cooperativa In Migrazione abbiamo stilato un dossier illuminante: “Doparsi per lavorare come schiavi”. Abbiamo scoperto che i braccianti indiani impiegati nei campi dell’Agro Pontino, per reggere quei ritmi di lavoro, vengono indotti ad assumere sostanze stupefacenti: metanfetamine, oppio e antispastici. In questa catena di spaccio l’anello finale della catena, colui che vende droga ai lavoratori indiani, è di solito un altro indiano. Che poi, puntualmente, viene arrestato. Quando sono andato nel carcere di Latina per tenere dei corsi di educazione alla legalità, dicevo loro: badate bene che il contratto provinciale di lavoro prevede, per persone presenti in Italia da vent’anni, un compenso di 9 euro lordi l’ora per un impiego della durata complessivo di sei ore e trenta minuti a giornata. Loro non ne avevano consapevolezza. Ritenevano fosse giusto guadagnare 2.50 euro l’ora per lavorare 10 o 12 ore al giorno per tutto il mese. Noi siamo in grado di riconoscere lo sfruttamento perché abbiamo una certa cognizione del fenomeno e una certa competenza. Ma colui che viene sfruttato, spesso, non sa di esserlo. Se non nei casi più gravi in cui, a queste dinamiche, si somma una violenza fisica e verbale palese. Tutta la narrazione del lavoro, oggi, è affidata al padrone e allo sfruttatore che la gestiscono in maniera monopolistica, agendo sulla psiche e sulla consapevolezza del lavoratore. Su questo dobbiamo intervenire.

Questo intervento presuppone competenze e professionalità.
Certo. A chi insegna italiano ai migranti dovrebbe essere richiesta una professionalità molto alta, un’esperienza che sia, anche dal punto di vista metodologico, evoluta. Bisogna conoscere non solo la lingua, ma anche la cultura del migrante col quale ci si interfaccia, il suo modo di esprimersi verbale e non verbale, la sua storia. Questo serve per calibrare l’insegnamento sulla base delle esigenze quotidiane di quella persona. Al di là della lingua, si insegna alla persona a essere autonoma nelle sue relazioni sociali. Qui nel Pontino abbiamo registrato casi di lavoratori sfruttati che hanno pagato anche 800 euro semplicemente per rinnovare la carta d’identità perché ritenevano che l’unica possibilità a loro disposizione fosse quella di rivolgersi al caporale che, a sua volta, intratteneva rapporti con un impiegato comunale corrotto. Una vera e propria estorsione a danno di lavoratori che, in molti casi, non hanno la liquidità necessaria per coprire cifre simili. Il nostro compito è formare il lavoratore a 360 gradi, perché sappia che può rivolgersi direttamente all’ufficio comunale competente e non soltanto al caporale. Che, tanto per fare un esempio, il rinnovo della carta d’identità costa 10 euro e non 800. Questo è l’obiettivo di base che la cooperativa In Migrazione si propone.

Ma come è possibile creare un indotto virtuoso in assenza di programmazione, di specifici bandi e di finanziamenti? Si può affidare questo compito al buon cuore di poche persone che agiscono, sul territorio, in un’ottica di mero volontariato? Perché è vero che per collaborare in progetti come questo servono competenze. Ma è vero pure che la professionalità, in qualche modo, va retribuita. In quest’ottica, come si traghetta l’esperienza di In Migrazione in altre realtà italiane?
Uscire dalla logica del volontariato è assolutamente necessario, è ovvio. La cooperativa In Migrazione, infatti, promuove veri contratti di lavoro. Ma per farlo, innanzitutto occorre stabilire un dialogo continuo con tutte le realtà che si occupano di formazione, per diffondere le buone pratiche e i risultati fin qui ottenuti. Poi è necessario che le istituzioni, come lei sottolinea, facciano un passo in avanti. Non possiamo continuare ad agire in assenza di bandi e progetti, specie nei territori sensibili. Bisogna uscire dalla logica del volontariato tout court, professionalizzandoci il più possibile. Lo Stato deve investire a tutti livelli: tanto quello nazionale quanto quello locale. E, in quest’ottica, non si possono approvare progetti che hanno un respiro di sei od otto mesi al massimo. Servono azioni pluriennali se si vuole riformare il sistema. Anche perché la vita dei braccianti sfruttati va avanti giorno dopo giorno, e non rispetta la durata dei finanziamenti. Il progetto Bella Farnia, di cui prima le ho parlato, ha avuto una durata di nove mesi. Personalmente ho continuato a portarlo avanti gratuitamente fino a oggi, coadiuvato da avvocati e mediatori. Siamo entrati nelle case dei braccianti, nei negozi, nei luoghi d’incontro, nelle aziende. Perché non era possibile, a nostro avviso, annullare un percorso virtuoso già avviato e deludere le aspettative di quelle persone. E questa è una delle ragioni per cui ho subito di tutto: atti vandalici, intimidazioni a vario livello, minacce.

Nell’ultima occasione il cofano e i vetri della sua auto sono stati sfondati e gli pneumatici squarciati. Ed è chiaro che il tentativo è stato quello di mettere il bavaglio a un’informazione, la sua, in grado di spezzare le catene di quel rapporto duale tra sfruttato e sfruttatore. Innescando la consapevolezza dei propri diritti diventa più difficile costringere un uomo a lavorare per 12 o 14 ore al giorno. Ma di fronte a queste minacce, le si sente tutelato?
No, non mi sento tutelato. È vero che ci sono persone che mi tutelano all’interno della mia cooperativa, nel mondo delle associazioni, della Flai Cgil, della Federazione nazionale della stampa italiana e nella comunità indiana. Ma resta il fatto che l’aggressione che ho subito ha un’origine. E quell’origine non è stata ancora aggredita. Le faccio un ulteriore esempio. Non è un caso che lì dove c’è un fenomeno di grave sfruttamento di manodopera nei campi c’è sempre un grande mercato ortofrutticolo. Nel caso della provincia di Latina, il mercato è quello di Fondi. Lì la presenza mafiosa è una realtà decennale accertata da sentenze passate in giudicato. Ma la politica non ha ancora fatto nulla per riformare in maniera radicale quel genere di mercato. Sono rimasti fermi, semplicemente. Regolamentare in maniera stringente attraverso una serie di norme e di controlli quel genere di mercato consentirebbe, invece, di sottrarre alla criminalità una quota consistente del proprio business illegale. Farebbe perdere loro la capacità d’esercitare violenza e, diciamolo, gran parte della loro arroganza. Molti di questi personaggi andrebbero in carcere. E ciò permetterebbe di arginare almeno una parte di quelle violenze che noi subiamo in una provincia in cui il giornalista che si occupa di fatti di mafia o di caporalato viene costantemente aggredito. Fisicamente, attraverso le denunce temerarie o, ancora, attraverso l’intimidazione politica. Ci sono giornalisti che hanno ricevuto più di 50 denunce da parte di politici locali. E, guarda caso, dopo qualche tempo quegli stessi politici sono finiti in carcere per reati penali di diversa natura.

Querele temerarie, violenze fisiche o verbali, intimidazioni di varia natura. È mai possibile che per fare il proprio lavoro in un sistema che pare corrotto fin nelle sue radici si debba necessariamente vestire i panni del martire o, peggio, dell’eroe?
Ci risparmieremmo volentieri di diventare martiri di una giusta causa. Ma la verità è che l’intimidazione esercitata nei confronti di una persona in realtà investe l’intera comunità. L’intimidazione non colpisce solo la persona direttamente coinvolta, ma anche chi gli è vicino. Perché si sappia che chiunque si occuperà di quel determinato tema, a qualsiasi livello, subirà delle ripercussioni. E questo genera solitudine, separazione e, in alcuni casi, emarginazione. L’eroe solitario è molto spesso perdente. Nel mio caso ci sono difficoltà economiche, perché chiaramente diventa molto difficile lavorare, si vive male nel proprio territorio che molto spesso si è costretti ad abbandonare, si vive male la vita privata. Così per la comunità l’eroe diventa uno da applaudire, ma non da imitare. E questo è esattamente quello che vuole il sistema. Ci vogliono soli perché più si è soli, più si diventa deboli e vulnerabili. Se invece la comunità di riferimento fa propria la tua battaglia, beh, allora i risultati arrivano. Il 9 settembre scorso con la cooperativa In Migrazione, la Cgil e la Flai Cgil abbiamo organizzato una manifestazione a Borgo Hermada. Per la prima volta, tra gli oltre mille partecipanti non c’erano solo braccianti indiani. C’erano associazioni, persone comuni, abitanti del luogo. Si è creato un ponte tra la comunità indiana e quella italiana sul tema del contrasto allo sfruttamento nel lavoro. È stato un momento molto importante, che è servito a mandare un messaggio preciso alla criminalità. Non siamo soli.

Dunque la manifestazione di Borgo Hermada è stata il presupposto per innescare una sorta di rivoluzione culturale che ha messo al centro il tema del lavoro e dei diritti validi erga omnes. Senza distinzioni di etnia, di genere o d’età.
È esattamente così. Oggi il caporalato, con una semplificazione sbagliata, viene percepito come un fenomeno che riguarda il solo settore agricolo e che colpisce unicamente determinate categorie lavorative e non altre. Non ci potrebbe essere nulla di più sbagliato. Siamo in presenza di una patologia trasversale. Il fenomeno del grave sfruttamento lavorativo esiste in edilizia, nel settore degli appalti pubblici, in quello delle libere professioni, nel commercio, nel giornalismo, nel badantato e, addirittura, nelle pubbliche amministrazioni. Riguarda il mercato del lavoro in generale, inerisce alla nostra organizzazione sociale. E interessa tutti, sia che le vittime ne siano consapevoli oppure no. Quando difendo i diritti del bracciante indiano, difendo anche i miei diritti, i suoi, quelli di mia nipote o quelli di un qualunque impiegato italiano. Se passa l’idea per cui si può sfruttare una persona nei campi per 14 ore al giorno con un compenso di 2 euro l’ora, allora può passare qualsiasi altra idea. Quella del giornalista che lavora gratis o quella, tanto per fare un altro esempio, per cui gli stage a qualunque livello non devono essere retribuiti e si deve lavorare, anche lì, per più di 10 ore alle dipendenze di un qualsiasi affermato professionista. Può passare l’idea che i ricercatori universitari abbiano una retribuzione di 600 euro all’anno con borse di studio ridicole. Passa qualunque cosa. Perché tanto, ci sarà sempre qualcosa di più grave che è accaduto a qualche altro prima di te. Questo è estremamente pericoloso perché modifica irrimediabilmente i rapporti di forza nel mercato del lavoro e pone tutti in una condizione di subalternità.

È da queste premesse che nasce la campagna di crowdfunding lanciata recentemente dalla cooperativa In Migrazione?
Sì, esattamente. Non vogliamo lasciare da soli i braccianti nonostante il vuoto che le istituzioni hanno creato attorno a noi. Dopo lo sciopero del 9 settembre scorso non sono stati più avviati progetti di ricerca in provincia di Latina. La nostra risposta è stata quella di rimboccarci le maniche e dire: ok, non ci sono bandi ma noi non ci fermiamo. Il nostro intento è quello di costruire una comunità consapevole e, quel che chiediamo, non si limita a un contributo economico. È l’idea di una partecipazione attiva. Ed è vero che come cooperativa possiamo intervenire, attraverso un progetto di servizi, solo su un numero limitato di casi. Ma se la nostra metodologia viene adottata e recepita da un’intera comunità che, al di là del contributo economico, decide di affiancarci nel nostro percorso e nelle nostre battaglie sociali e civili, le cose possono cambiare. Se tante persone aderiscono al progetto e partecipano alle iniziative territoriali si inizia a radicare un movimento molto più ampio rispetto a quello che possiamo mettere in campo da soli. Caporalato e sfruttamento si sgretolano quando la comunità comprende che il migrante indiano è portatore di una civiltà altra che non va cancellata, ma accolta. Che i suoi problemi sono anche i nostri.

A proposito della cancellazione programmatica dell’identità culturale altrui: in un momento storico in cui l’intero sistema di accoglienza sembra essere scardinato fin nelle sue premesse, è più corretto parlare di integrazione o di inclusione?
Integrazione è una parola che non mi piace. Preferisco parlate di inclusione, perché il suo presupposto imprescindibile è l’accoglienza nell’accezione più nobile del termine. Le faccio un esempio. Molti dei braccianti indiani hanno il turbante e la barba lunga, caratteristiche della loro identità, anche religiosa. Alcuni padroni li obbligano a togliersi il turbante e a radersi la barba. Pretendono di trasformarli in sole braccia, cancellando la loro identità. Creare consapevolezza nella comunità significa invece spiegare cos’è il sikhismo, ricordando che i sikh hanno combattuto il nazifascismo in questo Paese al seguito dell’esercito inglese. Morendo nel nostro territorio ben prima che a ucciderli fosse il caporalato. A Nettuno, Cassino e in molti altri cimiteri italiani ci sono le tombe dei sikh. Ecco allora che cambiare la prospettiva è utile a evitare che l’altro, solo perché diverso, venga percepito come invasore. Ma questo percorso è possibile solo avviando una riflessione collettiva. Il crowdfunding serve anche a questo. Serve a ottenere soldi per finanziare progetti che vadano nella direzione opposta a quella dello sfruttamento e dell’emarginazione. L’isolamento si supera soprattutto costruendo una comunità consapevole di italiani e di indiani. È questo in nostro obiettivo.

Quanto è utile al raggiungimento di questo obiettivo il nuovo sistema di accoglienza delineato dal recente decreto Sicurezza?
Guardi, io credo che per riformare il sistema d’accoglienza in Italia si debba uscire dalla logica sistemica dell’emergenza. Il nostro è un Paese che da vent’anni ragiona seguendo logiche emergenziali e non di programmazione. Questa è una delle ragioni per cui le Prefetture aprono in emergenza Centri di accoglienza straordinari (Cas) in zone già infestate dai caporali, in aperta campagna, senza i necessari controlli e le dovute professionalità. Gli stessi centri sono gestiti spesso da cooperative poco pulite e i caporali reclutano proprio lì la manovalanza da portare a lavoro nelle campagne. Questo è quel che accade nel Pontino, nella Capitanata, nella Calabria jonica, in Sicilia o nel civilissimo Nord. Non è accettabile. L’accoglienza deve portare all’inclusione, non all’integrazione. Deve essere foriera di opportunità trasversali, lasciando le persone libere di decidere il proprio percorso di vita senza cancellarne le identità. E deve essere il più professionale possibile, non può essere delegata all’approssimazione. Serve un sistema di controlli e di monitoraggio elevato e servono delle istituzioni che facciano bandi e controllino le assegnazioni e le cooperative che vi accedono. Bandi, chiaramente, che non siano come quelli che hanno portato al Cara di Mineo o al Cara di Crotone, Isola Capo Rizzuto o altri. Non è un caso che le mafie abbiano avuto gioco facile in tal senso. Il sistema di accoglienza dovrebbe essere la carta d’identità del Paese. Ma oggi la prima accoglienza è a dir poco scandalosa. E, per rispondere alla sua domanda, il decreto Salvini a me pare non aiuti assolutamente.

Precisamente. Come si fa a uscire, come dice lei, dalla logica sistemica dell’emergenza disciplinando un tema così complesso e controverso come quello dell’accoglienza attraverso un decreto legge i cui presupposti essenziali sono, ricordiamolo, proprio quelli della necessità e urgenza?
Ma è semplice: non si può. Con il decreto Salvini si aggredisce la seconda accoglienza, quella degli Sprar, lasciando strada libera all’accoglienza dei grandi numeri. Quella priva di competenze, in cui i centri si trasformano in luoghi di detenzione se non quando di reclutamento di manovalanza da impiegare nelle campagne. La coscienza civile e sociale dovrebbe diventare coscienza politica. Ma questo decreto è una mannaia preannunciata. Un tentativo di distruggere una foresta per costruire un prato. Si tenta di cancellare tutti gli sforzi fatti nel corso del tempo. Necessità e urgenza, anche quando un’urgenza non c’è, vengono fatte passare sulla testa della democrazia. Anche perché, diciamolo, un decreto è immediatamente operativo e induce il Parlamento all’approvazione. E non è vero che sarà possibile modificarlo. Perché anche laddove vi fossero degli emendamenti, non saranno tali da modificare la natura e la ratio di quel decreto. Ci ritroveremo pertanto un sistema di accoglienza in cui si darà l’opportunità a padroni e sfruttatori di fare danaro sulle spalle dei migranti. In più, e questo è un aspetto che in molti sottovalutano, si perderanno decine di posti di lavoro. Gli Sprar finora hanno innescato non solo dei percorsi di buona accoglienza, ma hanno generato tanti posti di lavoro per gli italiani, utilizzando un lessico caro al ministro dell’Interno. Si pensi al ruolo dei mediatori culturali, degli insegnati di lingua, degli avvocati e dei professionisti impegnati in questo settore. E invece attraverso un decreto si cancellano posti di lavoro per dare linfa vitale a un furore ideologico che io ritengo molto molto pericoloso.

Il decreto Sicurezza interviene per eliminare la sproporzione tra il numero di riconoscimenti delle forme di protezione internazionale già disciplinate a livello internazionale ed europeo, come lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria e il numero di permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari. Viene eliminata la discrezionalità nella concessione della tutela umanitaria introducendo una tipizzazione rigida dei casi con l’indicazione di specifici requisiti per i soggetti richiedenti. Ma non solo. Viene disciplinata anche la formula del patrocinio gratuito. Ma, così facendo, non si apre la via alla speculazione? In conclusione: questa misura genera sicurezza o insicurezza diffusa?
La risposta c’è già. È un decreto insicurezza, e non il contrario. Ed è vero che si alimenta la speculazione dei liberi professionisti a danno dei migranti. Si pensi agli avvocati, ai commercialisti, ai notai. I padroni non potrebbero mai agire liberamente senza il supporto di professionisti che li agevolino. La mala-accoglienza genera criminalità. Alimenta un sistema criminale in cui pochi si approfittano delle necessità di tante povere persone. Personalmente ho avuto l’opportunità di conoscere professionisti, anche avvocati del lavoro, che si sono approfittati in maniera bieca di persone che tutto avevano nella propria disponibilità fuorché il danaro per poterli pagare. L’opacità che determina il decreto Salvini genera un sistema in cui sguazzano pescicani come questi. Senza contare che la diffusa e pericolosa retorica contro i migranti, oggi divenuta tratto identitario del nuovo governo italiano, rischia di agire sui ricettori del sistema mafioso finendo per legittimarlo. Le agromafie trarranno soltanto benefici dagli strali anti-immigrati e dai tagli economici orientati a impoverire il sistema dell’accoglienza senza migliorarlo. Alcuni centri si trasformeranno, ancor più che nel passato, in veri hub per il reclutamento di braccia da sfruttare per la nostra peggiore agricoltura. Con buona pace della tanto decantata sicurezza.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.