Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Gli inceneritori inquinano e bruciano la democrazia

Rossano Ercolini, fondatore del movimento italiano Rifiuti Zero, e direttore dell’omonimo Centro di Ricerca, dal 1976 è protagonista di lotte e mobilitazioni contro la costruzione degli inceneritori. Nel 2013, il suo impegno gli è valso il prestigioso Goldman environmental prize, considerato il Nobel per l’ambiente. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio la situazione italiana, le dinamiche correlate all’incenerimento dei rifiuti nel nostro Paese e le opportunità offerte dalla strategia Rifiuti Zero. Un’intervista fiume che invita a riflettere su buone pratiche e strategie per ottimizzare il ciclo integrato dei rifiuti.

L’incenerimento dei rifiuti torna preponderante nel dibattito pubblico. Le ultime occasioni sono state offerte dall’emergenza romana e, prima ancora, dallo Sblocca Italia. Nel primo caso, la nuova crisi dei rifiuti romana sta facendo ipotizzare il ricorso all’inceneritore di Colleferro. Nel secondo caso, l’articolo 35 della legge n.164/2014 prevede la realizzazione di dodici nuovi inceneritori, poi ridotti a otto nel 2016. Proviamo a fare chiarezza: quali sono le dinamiche correlate alla termovalorizzazione dei rifiuti in Italia?
Si è cominciato a parlare di termovalorizzazione dal 2003. Anche se la normativa che definisce l’incenerimento come recupero di energia è stata materialmente applicata solo in Lombardia. L’unica regione in cui è stato realizzato un numero cospicuo di impianti di incenerimento. Attualmente gli inceneritori presenti nel nostro Paese sono passati da 56 a 38. Ma è aumentato il flusso di rifiuti destinato all’incenerimento. Tanto per citare alcuni casi, l’inceneritore di Acerra – di cui il governatore campano Vincenzo De Luca prevede una quarta linea – negli ultimi mesi tratta circa 2 mila tonnellate al giorno. Torino è sulle 1200. Qualcosa è cambiato. Quando nel 2004 è nato Rifiuti Zero, Confindustria chiedeva la realizzazione di altri 59 impianti entro il 2010. Non è accaduto. Ha pesato il valore della battaglia che dai territori si è levata per chiudere gli impianti. Lì dove ci sono state mobilitazioni, si sono ottenuti dei risultati tangibili.

Si riferisce al caso della Toscana?
Esatto. In Toscana si è registrata una tendenza inversa: dai nove impianti previsti nel 2000 si è passati ai cinque attuali. Proprio qui dove è nato il movimento italiano Rifiuti Zero, l’incenerimento ha subito pesanti battute d’arresto. Non solo sugli impianti proposti, ma anche su quelli esistenti. In generale è più difficile tentare di bloccare un impianto esistente. Si consideri il caso di Melfi. In Toscana invece, con la chiusura degli impianti di Ruffinato, in provincia di Firenze, a Greve nel Chianti, nella vai di Sieve, a Pietrasanta, in provincia di Lucca, in Garfagnana, a Castel Nuovo o a Scarlino, l’industria dell’incenerimento è stata sconfitta. E a malapena riesce a mantenere un limitato numero di impianti esistenti. Da venti anni lottiamo perché non venga realizzato l’inceneritore nella piana fiorentina. Un impianto che ha ottenuto il placet amministrativo quando Matteo Renzi era presidente della Provincia. Ma, a quasi venti anni dalla sua progettazione è stato bocciato dal Tar. Il parere del Consiglio di Stato è atteso per la fine di ottobre. Grazie alla mobilitazione popolare quest’impianto – della Q-Termo, una multiutilities partecipata dal gruppo Hera al 40 per cento – è in corso una Stalingrado per difendere l’ultimo tentativo di attuare la termovalorizzazione. Si parla di un impianto di 450 tonnellate al giorno. Il ministro Galletti – molto vicino ad Hera e assessore nella giunta Guazzaloca a Bologna – ha promosso questa società mista ii cui core business è l’inceneritore di Case Passerini. Se riusciremo a bloccare questo impianto bloccheremo tutti gli altri, uno dopo l’altro.

La questione di Case Passerini, come quella di Sesto Fiorentino, appaiono piuttosto indicative. Ma a suo avviso quali sono le soluzioni alternative all’incenerimento dei rifiuti?
Le soluzioni sono molteplici. E la domanda è: se si possono adottare soluzioni migliori per la salute, l’ambiente, per ottenere nuovi posti di lavoro – attraverso il recupero della materia, la riparazione, il riuso, il riciclo, il compostaggio -perché dobbiamo esporre le popolazioni a nuovi rischi? Perché investire il 95 per cento delle risorse economiche pubbliche in impianti a rischio e non, invece, puntare tutto sulla filiera del recupero di materia? Il buonsenso, la scienza, la crisi ambientale globale ci dicono che l’incenerimento è una scelta anacronistica che non guarda al futuro. È una scelta che rappresenta un sasso al collo per uno sviluppo che sappia guardare alla qualità ambientale, alla ricchezza sociale, alla ricchezza delle comunità.

Che differenza passa tra i vecchi e i nuovi impianti di incenerimento?
Sui dati emissivi è in corso un dibattito serrato. I nuovi impianti generano una produzione di inquinanti – in special modo diossine – sicuramente inferiore rispetto al passato. Sono strutture di taglia nettamente superiore per ragioni di mercato e, soprattutto, per cercare di coprire gli ingenti costi di costruzione e gestione. Ma le differenze non sono decisive. Il fattore fondamentale è che nell’epoca dell’economia circolare si continua ancora a produrre intenzionalmente diossina. Vecchi o nuovi che siano, di fatto sono tutti impianti definiti a rischio dalla normativa. L’esperienza dimostra che sono nocivi. E, come dicono gli attivisti statunitensi, “nessun rischio è accettabile se è evitabile”. Ma cerchiamo di essere più precisi. L’impiantistica degli anni Novanta consentiva il trattamento di circa 800 tonnellate di rifiuti al giorno, per un massimo di 100 mila tonnellate all’anno. In un’epoca in cui la pericolosità delle diossine era sottostimata. Poi la letteratura scientifica ha definito la diossina uno degli inquinanti più velenosi che l’uomo abbia mai prodotto. E la realizzazione degli impianti è stata vincolata alle garanzie di un minore impatto sull’atmosfera. Complessivamente possiamo dire di aver perduto tre battaglie negli ultimi quindici anni: Torino, Parma e Acerra. Questi impianti sono vincolati a un’emissione che non deve superare 0,1 nanogrammo per metro cubo. Secondo la legge n.133/2005 i controlli su diossine, metalli pesanti e cancerogeni di varia natura, vengono fatti non più di tre volte all’anno. Per il resto gli inceneritori sono in regime di autocontrollo. Addirittura in molti casi i controlli non ci sono affatto. Non ci può tranquillizzare che l’inceneritore di Brescia – ammesso che sia vero – emetta dieci o cento volte meno dell’impianto di Bolzano. Nel frattempo si è compreso che la diossina è mille volte più pericolosa di quanto si ritenesse negli anni Ottanta e Novanta. Ma resta il problema dell’assenza di capacità di controllo, a livello scientifico, dell’emissione delle nanopolveri. Che non vengono monitorate. Si controllano le PM10 o i PM 2.5. Ma le nanopolveri, che presuppongono un sistema totalmente diverso di monitoraggio, vengono ignorate. Questo non ha a che vedere con la scienza, ma solo con la politica e il business dell’industria sporca.

Cosa intende per industria sporca? È vero che gli inceneritori vengono indirettamente finanziati dai contribuenti attraverso la bollettazione energetica?
Faccio riferimento alle multiutilities, società che minano la democrazia. Gli inceneritori inquinano e bruciano anche la democrazia. La Terra dei Fuochi lo dimostra. La società politica si è alleata con la criminalità organizzata e, anziché tutelare i cittadini, ha lasciato uno spazio vuoto riempito dai criminali. Così si è prodotto un inquinamento sanitario e ambientale che, in un circolo vizioso, saranno i cittadini danneggiati a dover pagare attraverso le bonifiche. Chi appoggia l’industria sporca necessariamente è un antidemocratico. Ma partiamo da una considerazione: se percorrere una strada più virtuosa dal punto di vista degli impatti sulla salute è nell’interesse generale, che senso ha regalare soldi alle multinazionali? Industrie i cui profitti finiscono nei paradisi fiscali e nei giochi delle Borse. Lasciando gli oneri, la bad company, alle comunità locali che, paradossalmente, sono chiamate a finanziare questi impianti attraverso la bolletta energetica. I cittadini non ne possono più. Le multiutilities hanno imparato a fare impresa attraverso i finanziamenti della collettività. Il rischio d’impresa è zero con gli impianti di incenerimento. L’operazione in corso a Case Passerini, messa in campo da Hera – la più importante delle multiutilities italiane – lo dimostra. Il laboratorio dell’ex premier Renzi è stato la piana fiorentina. Gli accordi con Denis Verdini e soci sono stati stretti su quei territori. E l’operazione dell’incenerimento dei rifiuti denota l’approccio politico di tipo democraticoautoritario anteposto al funzionamento delle istituzioni. La questione dei rifiuti non è affatto una questione settoriale.

Passiamo a un altro argomento caldo. Anzi caldissimo. Gli effetti dell’incenerimento dei rifiuti sulla salute…
È inevitabile che bruciando rifiuti si producano diossine. Si potrà disquisire, tuttavia, sul rispetto delle soglie previste nelle normative dagli inquinanti prodotti. Ma queste soglie, di fatto, sono degli escamotage che non tutelano la salute. Nessun rischio è accettabile se è evitabile. Nessuna soglia è accettabile dal punto di vista sanitario. L’individuazione delle soglie è il prodotto di un approccio artificioso. Le diossine fanno male anche a bassissimi quantitativi.

Come ha inciso lo Sblocca Italia sui nuovi impianti di termovalorizzazione?
La pianificazione in materia era precedentemente attribuita alle Regioni. L’articolo 35 dello Sblocca Italia, in realtà, ha stabilito una deroga. Producendo un vulnus al potere decisionale delle autonomie locali, ritenute importantissime dalla Costituzione. Quando la pianificazione punta sullo smaltimento attraverso l’impiantistica specializzata nel trattamento termico, tutto il core business si sposta sull’incenerimento. E non può essere altrimenti. Sono impianti costosissimi. Possono servire anche centinaia di milioni di euro per realizzare un impianto di incenerimento. Quando si punta a realizzare un impianto di questo tipo si portano avanti i cosiddetti Project fìnancing. Le banche sono disponibili a fornire i prestiti soltanto se c’è la garanzia politicoamministrativa che i rifiuti verranno trattati e bruciati in quell’impianto per almeno 25 anni. Quindi, in realtà, chiamati in causa in modo sleale e surrettizio i finanziatori sono gli ignari cittadini che attraverso la bolletta garantiscono le banche per il rispetto del Project fìnancing stesso. Un’operazione che lede alle radici la democrazia. E i decisori politici, le istituzioni che dovrebbero tutelare la sovranità popolare, vengono cooptati dalle multiutilities.

Tenendo in considerazione gli 8 nuovi inceneritori previsti dallo Sblocca Italia, la produzione annua italiana di rifiuti basterebbe per alimentarli? O saremmo costretti ad importarli dall’estero?
Non abbiamo bisogno di inceneritori. Personalmente non ho mai preso in considerazione l’articolo 35 dello Sblocca Italia. Sanno benissimo che è spazzatura, non lo realizzeranno mai. Abbiamo curato dei ricorsi, ma mantengo un basso profilo. Oggi l’Italia è tra i Paesi europei che ricicla di più. Questo non certo grazie al governo centrale, ma alle infinite enclavi territoriali che, lottando contro discariche e inceneritori, hanno dimostrato che l’alternativa è il riciclo. Il caso della Campania e di Napoli fa scuola. La Campania vituperata batte la civilissima Toscana nella percentuale di raccolta differenziata. In Italia siamo al 50 per cento. Il governo centrale ha perseguito altri interessi. La vicenda di Taranto è emblematica. Una realtà che ci dimostra quanto il capitalismo industriale italiano equivalga all’industria sporca. E quanto spesso esso venga assistito dallo Stato. L’industria dell’acciaio, che ha in pugno gli inceneritori e le centrali a biomasse della Puglia, è dentro l’affare. L’articolo 35 dello Sblocca Italia è nato perché le multiutilities temono la “sindrome nordica”. In Nord Europa, infatti, i grandi impianti di incenerimento non hanno abbastanza rifiuti sul territorio nazionale e sono costretti a importarlo. La Germania importa milioni di tonnellate dall’Inghilterra. Fino a poco tempo Napoli spendeva meno imbarcando rifiuti via nave verso Rotterdam, anziché portandoli ad Acerra, a 15 chilometri di distanza. Per non correre questo rischio si è fatto ricorso all’articolo 35 dello Sblocca Italia. Un inceneritore costruito e attivato è per sempre. Per questo noi siamo ferocemente contrari. Non solo da un punto di vista sanitario e ambientale, ma soprattutto da quello funzionale. Se realizzi un inceneritore, ti impegni per venticinque anni ad alimentarlo. Se non hai abbastanza rifiuti, li devi importare. Oggi siamo assolutamente in grado di ridurre il ricorso alla discarica passando dal 50 al 65 per cento e infine al 70 per cento di raccolta differenziata, così come prevede la normativa europea. Se davvero vogliamo uscire dall’era delle discariche, non ci resta che passare all’era delle risorse e del riciclo.

C’è chi sostiene l’incenerimento dei rifiuti come alternativa sostenibile alle discariche. Una tesi portata avanti dall’associazione Amici della Terra in un convegno svoltosi a Roma il 22 novembre scorso. Nell’agosto 2014, proprio lei – criticando le dichiarazioni di Paola Muraro, già presidente di Atia Iswa Italia, poi assessore all’Ambiente della Giunta Raggi -poneva l’accento sulla destinazione delle ceneri degli inceneritori. Ma è vero che le discariche diminuiscono all’aumentare degli inceneritori? O, piuttosto, è vero il contrario?
Soltanto public relation profumatamente pagate possono far credere che gli inceneritori siano un’alternativa alle discariche. Tutti sanno che per ogni inceneritore c’è bisogno di due siti da adibire a discarica. Uno per le ceneri di fondo -contenute sotto le grate del forno – e un altro per quelle intercettate dai filtri della depurazione siti nel camino. Paradossalmente, più funziona la depurazione dei fumi e più pericolose e pestilenziali sono le polveri. Per questo sono considerate un rifiuto speciale pericoloso. A differenza di quel che accade per le ceneri di fondo, laddove la normativa prevede che venga verificato di volta in volta se siano da considerarsi o meno rifiuti speciali non pericolosi. Perché anche in queste ceneri è possibile trovare tracce di diossine o metalli pesanti tali da superare le soglie normative. Ceneri che, di fatto, resistono per migliaia di anni prima di essere ricondotte ai cicli naturali. In Germania e Austria sappiamo con certezza dove vengono stoccate tali ceneri, che subiscono lo stesso trattamento dei materiali radioattivi conservati nelle miniere di sale. Se la stessa domanda viene posta in Italia la risposta è incerta. Nonostante c’è chi dovrebbe curare la trasparenza informativa sui progetti degli impianti di incenerimento. In genere le ceneri nostrane finisco in discariche autorizzate. Rifiuti Zero non è favorevole alla realizzazione di nuove discariche, come pure si dice. Abbiamo pensato a un percorso che porterà nel giro di 10-15 anni al massimo ad azzerare i rifiuti. E, quindi, anche il fabbisogno di discariche. Ma nel frattempo c’è bisogno di siti ad interim, di transizione, dove andranno stoccati quantitativi di rifiuti sempre minori e sempre meno impattanti. La discarica è sostanzialmente un magazzino per uno stoccaggio provvisorio. Perché, con l’evoluzione rapidissima delle tecnologie, alcuni materiali che adesso non sono riciclabili potrebbero esserlo in futuro. Le strategie rifiuti zero prevedono il ricorso transitorio a discariche dove non vengono conferiti materiali putrescibili – che producono odori e percolato – e rifiuti pericolosi. Lì dove il sistema rifiuti zero manca la discarica è il luogo in cui si butta indifferentemente qualsiasi cosa. Gli stessi impianti TMB, che dovrebbero ridurre e aumentare la stabilizzazione della frazione organica, in genere funzionano da tritovagliatori. Riuscendo così a malapena ad ammortizzare l’impatto della frazione biogenica per limitare la produzione di percolato nelle discariche. Quindi, se davvero si vuole la riduzione delle discariche e degli inceneritori, si deve necessariamente sostenere il progetto e il modello rifiuti zero.

Ma c’è anche chi sostiene che la valorizzazione energetica dei rifiuti completerebbe un ciclo virtuoso di smaltimento che altrimenti non potrebbe concludersi, in quanto non sarebbe possibile recuperare e riciclare tutti i rifiuti. Eppure gli inceneritori, per poter funzionare, hanno necessità di moltissima materia da bruciare. È sostenibile una coesistenza tra l’incenerimento e la raccolta differenziata? O, in realtà, l’uno esclude l’altra? Quanti sono gli inceneritori, quanta massa di rifiuti bruciano annualmente e in quale rapporto con il totale prodotto?
Partiamo da un presupposto. Il decisore politico elabora i piani preventivi e consuntivi della Tia o della Tari. L’inerzia nella gestione dei rifiuti, attuando il cosiddetto sistema di gestione integrata – che significa inceneritori con recupero di energia – crea un business protetto. Non c’è il rischio di impresa. Si investe solo dopo che i decisori politici hanno imposto che per dieci anni la bolletta andrà a finanziare quel sistema di gestione dei rifiuti. È un investimento più che certo. Se l’inceneritore non si dovesse realizzare si rischia di pagare “il vuoto per il pieno”: quindi in sostanza anche se si cambia approccio nella gestione dei rifiuti, comunque si pagherà come se fosse tutto destinato a incenerimento. Il presidente di Hera, di fatto, ha più potere di un qualunque sindaco. Nell’epoca dell’economia circolare ci sarebbe molto più interesse a perseguire strade diverse. Non c’è confronto alcuno con i posti di lavoro creati attraverso la raccolta differenziata porta a porta, la riparazione, il riuso e i sistemi di compostaggio. O, addirittura, un sistema rifiuti zero. Secondo l’Europa si uscirà dalla crisi quando i Paesi europei sapranno introdurre una moderna industria del riciclo. In questo momento, però, si persegue solo l’interesse di gruppi marginali di persone che in Italia ruotano intorno all’oligarchia industriale, al cui centro c’è sempre stata l’industria sporca, come nei casi di Moratti, Marcegaglia, Ansaldo. Oggi è troppo facile capire che chi promuove l’incenerimento affossa ogni prospettiva che la stessa macroindustria manifatturiera italiana possa competere sul mercato internazionale. Basti pensare alle terre rare e ai metalli. Il 90 per cento delle terre rare è commercializzato dalla Cina. E senza terre rare, non esiste industria manifatturiera. Dovremmo iniziare a considerare il cassonetto come una sorta di miniera urbana. Le città dovrebbero diventare giacimenti urbani da cui estrarre metalli, fibre cellulosiche, vetro, polimeri plastici.

Sin dagli anni Novanta sono state molteplici le inchieste che hanno dimostrato la longa manus della criminalità organizzata nella gestione dei rifiuti. Da Nord a Sud, indistintamente. L’interesse dei clan si è postato dalla gestione delle discariche al business dell’incenerimento?
Gli interessi sporchi si concentrano lì dove c’è l’industria sporca. L’industria dello smaltimento dei rifiuti è oggettivamente un’industria sporca. Un caso di scuota è quello dell’inceneritore di Pietrasanta, in provincia di Lucca. L’Istituto Superiore di Sanità aveva partecipato agli incontri pubblici sostenendo, davanti a cittadini arrabbiati, che quello di Pietrasanta era uno degli inceneritori più controllati d’Europa. Una tesi che si basava sull’imposizione del controllo delle diossine in tempo reale su una linea. Ma, successivamente, una faida interna ha portato alla luce un’altra realtà. Una denuncia anonima ha fatto emergere che il sistema di monitoraggio delle emissioni riduceva del 90 per cento quanto veniva registrato. C’è stato un processo con condanne e gli inceneritori, in questa zona, sono stati messi al bando. Questi impianti favoriscono la mancanza di trasparenza. In Campania la camorra ha investito soprattutto nel trasporto e nella sepoltura dei rifiuti. Minore è la partecipazione popolare, tanto è più ampio il vuoto democratico. E maggiore è la pervasività della malavita. Perché insieme alle armi e alla droga, quello dei rifiuti è un vero e proprio business per i gruppi criminali. Maggiore è la partecipazione popolare, maggiore è la densità delle buone pratiche, minore è l’inquinamento dei territori. Dobbiamo bonificare il nostro paese. Dobbiamo far respirare la democrazia. Rifiuti Zero parla di educazione, democrazia dal basso, di un nuovo modello, di una nuova stagione. È la rivoluzione delle comunità. La vera bonifica dei territori. Il Sud del Paese è molto più sensibile del Nord. Qui le comunità hanno capito al volo. L’esperienza di Napoli l’ha dimostrato. L’elemento che è entrato in scena in questi anni in Campania è la società civile. E la società civile dimostra, invece, che la raccolta differenziata è possibile. Recuperando il cartone, il vetro, la plastica, si creano posti di lavoro. Lo dimostrano esperienze di varie parti del mondo, come i waste piquers, i recicladores, i cartoneros in Argentina. Oggi siamo in grado di produrre impianti, fabbriche dei materiali, piattaforme di riciclo: i RAEE sono una miniera a cielo aperto. Stiamo sotterrando, mettendo in discarica o bruciando un’immensa ricchezza.

Nel febbraio scorso la Commissione europea ha inviato un ultimatum a sei regioni italiane: Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Sardegna e Sicilia, più la provincia autonoma di Bolzano. L’Europa intima di aggiornare i piani regionali di gestione dei rifiuti conformandoli alla direttiva 2008/98, la quale stabilisce che «la priorità principale della gestione dei rifiuti dovrebbe essere la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio di materiali» da «preferirsi alla valorizzazione energetica dei rifiuti». Il 19 giugno scorso il sottosegretario alla presidenza della Giunta regionale Abruzzo, Mario Mazzocca, ha dichiarato che non ci sono state finora sanzioni. Ha notizie in merito?
Probabilmente l’infrazione è solo una minaccia. Dal mio punto di vista è un dato irrilevante. Dobbiamo comunque attuare le buone pratiche, al di là del dibattito sulla permanenza nell’Ue. Per quanto riguarda la gestione ambientale abbiamo tutto da guadagnare a restare in Europa. Grazie alle battaglie portate avanti dai movimenti oggi siamo superiori nella capacità di riciclo di Inghilterra, Francia e Spagna. Presto batteremo anche la Germania. Tutto questo deve diventare ragione di promozione di progetti di economie locali, di cooperativismo. Basterebbe smontare le schede madri dei computer per avere remunerazioni che vanno dai 5 mila ai 14 mila euro a tonnellata.

L’Europa, dunque, boccia gli inceneritori?
L’Europa è a trazione tedesco-francese e la locomotiva tedesca è “inceneritorista”. Il mondo tedesco, l’Austria, la Danimarca, l’Olanda, promuovono l’incenerimento. Juncker ha annacquato il pacchetto dell’economia circolare, che precedentemente prevedeva la totale messa al bando degli inceneritori. Rimane naturalmente lo spirito della centralità economica. In questo l’Europa è credibile. Noi non abbiamo giacimenti naturali, la scarsità delle materie prime ci impone di estrarre dai cassonetti. Il Parlamento europeo è più lungimirante, ma poi il Consiglio europeo tende a frenare, condizionato dalle lobby. Questo fa sì che l’Europa sia un po’ ambigua. Il Rapporto Onu del 2013 mette sullo stesso piano inceneritori e discariche. E qui si coglie l’ambiguità del messaggio europeo – che mette in fondo l’incenerimento, pur senza rinnegarlo del tutto – e la linearità delle Nazioni Unite. Questo rapporto, l’ultimo pubblicato e quindi ancora vigente, cita il Centro di Ricerca del Comune di Capannori. Un importante riconoscimento che ci dà, ovviamente, soddisfazione. L’Europa non è contro gli inceneritori, la Germania non lo è. Nemmeno Greenpeace tedesca muove un dito contro l’incenerimento dei rifiuti. Probabilmente per non dar noia ai propri finanziatori.

Il decreto legislativo n.507 del 5 novembre 1993 ha introdotto la Tarsu. Il decreto legislativo n.22 del 5 febbraio 1997, invece, la sostituisce con la Tariffa di igiene ambientale (Tia), che avrebbe dovuto consentire la realizzazione di un sistema nel quale il cittadino avrebbe pagato in base ai soli rifiuti prodotti. Un meccanismo virtuoso, un incentivo a ridurre la produzione prò capite di rifiuti ed effettuare correttamente la raccolta differenziata. Con il decreto Salva Italia (n.206/2011) -convertito con la legge n.214/2011 – il Governo Monti ha sostituito la Tia e la Tarsu con la Tares, imposta basata sulla superficie dell’immobile di riferimento (l’80 per cento della rendita catastale dell’immobile per le abitazioni private), il numero dei residenti, l’uso, la produzione media dei rifiuti. Obiettivo della Tares è coprire il 100 per cento del costo del servizio sostenuto dai Comuni per raccolta e smaltimento dei rifiuti, e i servizi indivisibili forniti: illuminazione pubblica, manutenzione delle strade, polizia locale, aree verdi. Ma così facendo non si è tornati indietro? È stato detto che l’applicazione alla Tia sarebbe avvenuta solo per una minima parte dei comuni italiani. Ci sono dati in merito? Oggi è comprovato che la raccolta differenziata porta a porta comporti questo aggravio economico?
Recentemente c’è stato un decreto attuativo del ministero dell’Ambiente sulla Tia che non è stata abolita. Il passaggio più rivoluzionario del decreto Ronchi era quello inerente alla Tia puntuale, che obbligava al porta a porta. Fu poi superato con la legge n.152/2006. Ma tanti Comuni, intanto, erano già partiti in via sperimentale. I Comuni con una tariffa puntuale sono all’incirca il 20 per cento. Tuttavia se il sistema non è patrimoniale deve essere applicato il principio del “chi inquina paga”. Ognuno deve pagare per quanto è effettivamente responsabile di aver sporcato. Più virtuoso sei, meno paghi. Oggi il 50 per cento della tariffa rimane purtroppo ancora patrimoniale, legata ai costi fissi. E ci sono stime presuntive che non corrispondono all’effettiva produzione di rifiuti. Ma alla finanza locale, che ha subito un drastico calo dei trasferimenti statali, fa buon gioco correlare l’illuminazione pubblica e la gestione dei rifiuti. Ragioni di cassa inficiano, quindi, provvedimenti che potrebbero essere decisivi per l’ambiente. Siamo ancora a metà del guado. Ma la decisione spetta ai Comuni. Anche dopo la legge n.152/2006 è stata lasciata in via sperimentale ai Comuni la possibilità di propendere per la Tia puntuale. Quindi un sindaco opportunamente sensibilizzato dai movimenti locali, che vuol tentare una buona raccolta differenziata porta a porta, lo può fare con la tariffa puntuale. La leggenda metropolitana che il porta a porta costa di più, non è vera. Ma lì dove il porta a porta viene bene organizzato, la raccolta differenziata non presenta costi aggiuntivi. Capannori è il Comune che paga meno in Toscana. E non c’è l’impianto di compostaggio. Se ci fosse, la raccolta dei rifiuti costerebbe ancora meno. Più pulito è il materiale, maggiore è la remunerazione. Laddove abbiamo dei decisori politici e delle associazioni che lavorano, i risultati sono eclatanti. La Lombardia, nel 2010, ha redatto uno studio in cui si certificava che il porta a porta è più economico.

Il primo punto del decalogo Dieci passi verso Rifiuti Zero recita che «La gestione dei rifiuti non è un problema tecnologico ma organizzativo, dove il valore aggiunto non è quindi la tecnologia, ma il coinvolgimento della comunità chiamata a collaborare in un passaggio chiave per attuare la sostenibilità ambientale». Il passaggio-chiave è proprio la raccolta differenziata. Come si articola l’intera strategia e quali sono le esperienze già presenti in Europa e nel nostro Paese?
In Europa ci sono, grazie alla spinta italiana, circa 350 municipalità che adottano la strategia rifiuti zero. La prima capitale europea è stata Lubiana. Rifiuti Zero parte in California alla fine degli anni Ottanta, si diffonde in Australia, poi in Nuova Zelanda. San Francisco, che dal 2000 con il 50 per cento di raccolta differenziata è andata verso l’adozione di rifiuti zero, adesso è un riferimento per tutti. In questo momento l’Italia probabilmente supera anche San Francisco. Abbiamo 270 comuni, con oltre 6 milioni di abitanti, che adottano ufficialmente la strategia rifiuti zero. Tutto questo al netto della città di Roma, che ha chiesto di far parte del percorso rifiuti zero. È in corso l’istruttoria. Nei recenti incontri con l’assessore Montanari abbiamo stabilito che a fine ottobre Zero Waste Italy e Europe garantiranno una task-force di supporto al percorso che il Comune di Roma e Ama hanno elaborato verso rifiuti zero. L’obiettivo è di arrivare al 70 per cento di raccolta differenziata entro il 2021. E, ovviamente, la riconversione dei Tmb in fabbriche di materiali per sottrarre allo smaltimento, e quindi anche alla combustione, quanto più rifiuto possibile. Se Roma facesse parte della strategia, il 15 per cento degli italiani si muoverebbe nella direzione rifiuti zero.

Quali sono le attività del Centro di ricerca Rifiuti Zero del Comune di Capannori?
Capannori è la culla di rifiuti zero. Da qui siamo partiti impedendo la realizzazione dell’inceneritore in provincia di Lucca nel 1996. Non ci siamo limitati a dire di no, abbiamo proposto alternative valide. All’epoca la strategia adottata non si chiamava rifiuti zero, lo è diventata nel 2000. Oggi operiamo in una provincia che vanta quindici comuni che hanno già adottato la delibera rifiuti zero e hanno un tasso di raccolta differenziata del 70 per cento. Non c’è solo Treviso – che è un po’ la nostra San Francisco – con 600 mila abitanti e l’80 per cento di raccolta differenziata. Ci sono anche altre province virtuose. Qui al contrario di Treviso, dove forse vige un modello prevalentemente industriale, si è diffusa la cultura. È una cultura bottom up, dal basso verso l’alto, prevalentemente civica. Il civismo delle comunità fa la differenza. È in corso di svolgimento una rivoluzione che, probabilmente insieme a quella femminile è la più macroscopica e rilevante che sia avvenuta in Italia. Purtroppo questo i mass media, se non in modo sporadico, non lo lasciano trapelare. Stiamo parlando di 9 milioni di italiani che si muovono nella direzione rifiuti zero. Questo è il dato. È il partito delle buone pratiche, quello più importante che c’è in Italia. Il partito dell’industria sporca, trasversale, era sicuramente quello più forte, tuttora agguerrito, ben finanziato. Ma i movimenti locali e le comunità hanno guadagnato punti. Girando l’Italia, noto che c’è un circuito potentissimo, brulicante di buone idee. E lo dimostra anche l’Onu quando indica un centro come quello di Capannori come esempio positivo. E non i Politecnici di Torino o Milano. Un centro che in 6 anni ha avuto un budget di 20 mila euro. È la dimostrazione che il bottom up e la creatività sono elementi della contemporaneità. La modernità non consiste in grandi opere, cemento, concentrazione degli investimenti. È puntare sulla rete diffusa delle buone pratiche. Diamo importanza alle persone e non ai processi. “Non bruciamoci il futuro” è uno slogan nato dalle battaglie di Capannori. La prima grande opera è il coinvolgimento diffuso. Quando si promuove il porta a porta e le buone pratiche, si deve parlare in modo orizzontale alle persone. È il sindaco che deve farsi carico di parlare coi cittadini. Così la politica può ritrovare il volto umano che ha perduto. Rifiuti Zero non è una tecnocrazia contrapposta a quella dei politecnici e degli inceneritori. Il Centro Rifiuti Zero studia soprattutto i prodotti non riciclabili e non compostabili. Devono essere riprogettati, coinvolgendo i produttori. Noi cittadini risolviamo l’80-85 per cento del problema. La parte restante deve essere risolta da chi immette sul mercato i prodotti usa e getta. Un patto che coinvolge comunità, decisori politici e produttori. Una volta instaurato questo patto si potrà guardare con minor pessimismo, e anche con positività e speranza, ai grandi problemi planetari.

Nel 2014 sono state raccolte oltre 86 mila firme per la proposta di legge popolare Rifiuti Zero. Tre anni dopo, quale destino ha avuto l’iniziativa?
La buona notizia è che tra le leggi di iniziativa popolare questa è stata la prima a essere discussa dal Parlamento. Siamo stati chiamati un paio di anni fa per presentarla in Commissione ambiente alla Camera. Abbiamo incontrato anche la presidente, Laura Boldrini. La cattiva notizia è che probabilmente nessuno ha interesse a portare avanti questo disegno di legge a livello politico. Sia che si tratti di partiti di governo, che di opposizione. Compreso il Movimento 5 Stelle, che ha poi fatto una proposta propria. È il problema italiano: i partiti spesso cadono in inutili faziosità. Personalmente non ho una visione negativa dei partiti, ce l’ho delle fazioni. Il fazioso promuove un’idea, ma il giorno dopo potrebbe cambiarla perché deve mantenere la propria identità di fazione. Nonostante il relatore in Commissione ambiente fosse De Menech, deputato del Partito Democratico ed ex sindaco del Comune riciclone di Ponte nelle Alpi, a dispetto degli incontri e delle sollecitazioni, non abbiamo riscontrato alcun interesse. Non a caso è stato promosso l’articolo 35 dello Sblocca Italia. Complici anche le diatribe politiche, che rendono difficile trovare interlocuzioni a livello governativo e parlamentare. Siamo forti sui territori, ma non siamo come i No Tav che riescono a organizzare grandi manifestazioni a Roma. Noi non ci riusciamo. Ma torneremo alla carica.

Davanti alla nuova emergenza rifiuti romana si è tornati a parlare dell’inceneritore di Colleferro. Qual è la situazione oggi? E soprattutto: quali interessi stanno spingendo per questo inceneritore? Chi ha le responsabilità di questa scelta e dell’attuale situazione romana?
Non credo ci sarà il revamping di Colleferro. Che non è un vero e proprio revamping. Si è creato una sorta di equivoco dopo un articolo di un quotidiano nazionale che faceva riferimento al revamping. In realtà ci sarà una manutenzione ordinaria e straordinaria per il funzionamento della seconda linea. La prima linea funziona fino a 80 mila tonnellate, la seconda era ferma da tempo. Il 60 per cento è di proprietà della Regione Lazio, il 40 per cento di Ama. Quando era assessore Paola Muraro sembra che l’amministratore delegato, nominato dal Movimento 5 Stelle, avesse avallato la ricapitalizzazione di Ama. Pena il pagamento di una penale alla Regione di circa 15 milioni. Però l’assessore Muraro ci ha sottoposto i verbali. Qui nasce il giallo: sembra che il sindaco Raggi non fosse favorevole. La stessa amministratrice pare avesse ammesso di aver dato parere favorevole. Ma lo stanziamento dei fondi non avrebbe comunque avuto la sua firma. Sta di fatto che attualmente l’amministrazione Raggi non ha intenzione di concedere l’uso di questa seconda linea. La giunta capitolina chiede alla Regione di investire i fondi, anche aggiuntivi, non per il revamping dell’impianto ma per riconvertirlo in fabbrica di materiali. Quindi non un impianto che produce CSS ma uno per l’estrazione di metalli, frazione cellulosica, stabilizzazione della frazione organica e produzione di manufatti che donino alla plastica una seconda vita. Questo al netto della guerra politica con il PD, che punta a mettere all’angolo l’amministrazione M5S. Durante l’incontro con l’amministrazione e il nuovo amministratore di Ama, Lorenzo Bagnacani, ci siamo confrontati sul nuovo piano che prevede la conversione dell’impianto di Colleferro a fabbrica di materiali. Quel che è certo è che chiunque avesse vinto le elezioni si sarebbe trovato davanti le rovine del sistema precedente. Un sistema governato dall’ottavo re di Roma, Manlio Cerroni, con la discarica di Malagrotta. Cerroni è quello che ha “salvato” Roma dalle emergenze rifiuti in passato. Ma ha ricattato tutte le amministrazioni. Nessuna delle quali, da Rutelli a Veltroni, ha mai fatto decollare la raccolta differenziata. Nei ripetuti incontri con la nuova amministrazione, una volta ratificate le dimissioni dall’assessore Muraro, abbiamo trovato molti punti di collaborazione. Attualmente stiamo lavorando con Pinuccia Montanari, ex assessore a Reggio Emilia e a Genova, vicina al circuito rifiuti zero. Roma ha moltissime complessità. Non a caso la nostra task-force sarà formata dai migliori esperti a livello internazionale.

Il 30 giugno scorso a Massafra si è tenuto un corteo dopo la sentenza del Consiglio di Stato favorevole alla costruzione di un secondo inceneritore. Quali sono le prospettive?
Ho partecipato alla manifestazione. Devo dire che la situazione è doublé face. Le comunità locali hanno mandato in Comune amministrazioni anti-inceneritori, ma il territorio è vessato da industria sporca. Abbiamo da un lato il polo di Taranto, dall’altro Statte con un inceneritore sul modello di Pietrasanta. E a Massafra c’è Albanese, braccio destro di Marcegaglia, che fa di tutto non solo per raddoppiare l’inceneritore esistente ma anche per ottenere un impianto che bruci fanghi. L’impianto di Massafra nasce come impianto a biomasse -combustione di legno vergine – all’inizio del 2000. Una sorta di escamotage, diffuso in molti territori: richiedere le autorizzazioni per bruciare legna verde e poi passare di punto in bianco all’incenerimento. Come accade anche nei cementifìci. È una sorta di pendolo: quando la termovalorizzazione è in crisi, i cementifici non bruciano; quando il prezzo del cemento cala, i cementifìci bruciano. Così si lucra con il conferimento del CSS. Con gli impianti a biomasse accade lo stesso. A Monfalcone A2A ha rilevato un impianto di cogenerazione e vuole sostituire una linea a carbone con una a rifiuti. C’è poi tutta la partita delle piccole centrali da 1 megawatt termico – che comunque contrastiamo perché la biomassa andrebbe restituita ai terreni che sono oggetto di desertificazione e perdita di fertilità – che non è possibile convertire a piccoli combustori di rifiuti. A Massafra servirebbe innanzitutto uno screening sanitario che attesti lo stato di salute della popolazione. Il Consiglio di Stato in teoria dà ad Albanese la possibilità di procedere ai lavori. Da qui l’appello delle associazioni che hanno incontrato la Commissione ambiente regionale per cercare cavilli normativi che blocchino l’inizio dei lavori. Il governatore pugliese, Michele Emiliano, telefonicamente mi ha assicurato di aver attivato un gruppo di lavoro legale perché dia attuazione alla volontà politica di non permettere il raddoppio dell’inceneritore. Viene chiesto di ripetere l’iter di rilascio dell’Aia, in quanto è stata rilasciata in tempi in cui la normativa regionale non era stata aggiornata. I pareri sull’Aia appaiono, quindi, anacronistici tanto più che emerge l’elevatissima vulnerabilità ambientale e sanitaria della zona. Tutt’uno con la realtà tarantina, c’è Grottaglie con una mega discarica e Statte con l’inceneritore. A Modugno, in provincia di Bari, è stata evitata la realizzazione della centrale a biomasse. Tuttavia rimpianto non realizzato a Modugno lo si vuole sostituire raddoppiando l’inceneritore di Massafra. Bypassando, in questo modo, la partenza iniziale della struttura come centrale a biomasse.

Iscriviti alla nostra newsletter!

Condividi questo articolo
Autore:

Attivista di vari movimenti pacifisti e ambientalisti abruzzesi, referente locale dell’associazione Antimafie Rita Atria e PeaceLink.