Dopo undici anni di indagini la Procura della Repubblica di Gela ha chiuso le indagini sul petrolchimico Eni. Per ventidue – tra direttori e tecnici di Enimed e RaGe Raffineria di Gela – c’è la richiesta di rinvio a giudizio. L’accusa è disastro colposo innominato. Informati i ministeri dell’Ambiente e della Salute.
Il 10 marzo scorso, a pochi giorni dall’uscita del nostro approfondimento “Gela profonda”, la procura della Repubblica di Gela ha chiuso un decennio di indagini a carico del petrolchimico Eni. Sotto la lente di ingrandimento del procuratore Lucia Lotti – che il Consiglio Superiore della Magistratura ha appena trasferito a Roma – sono finite le contaminazioni del suolo, dell’aria e delle falde acquifere. Come abbiamo avuto modo di raccontare sul primo numero. La richiesta di rinvio a giudizio è scattata per 22 persone, tra direttori e tecnici dell’Enimed e della Raffineria di Gela. Rischiano dai 3 a i 12 anni di reclusione. L’accusa è di “disastro colposo innominato”, e si inserisce in un contesto d’indagine molto ampio tra omesse bonifiche, violazione dei codici ambientali, gravi ricadute dell’inquinamento sulle comunità e sulla catena alimentare. L’Eni – che sta lavorando alla riconversione ‘green’ delle attività di raffinazione – ha risposto confermando di aver sempre rispettato norme e prescrizioni imposte dagli organi competenti, sottolineando come i risultati delle indagini sulle matrici ambientali “confermano l’assenza di un inquinamento diffuso nell’area e soprattutto di rischi per la popolazione della città di Gela”. Per cercare di capire di più sulla vicenda Gela abbiamo intervistato, in esclusiva, il geologo Vincenzo Portoghese, consulente della Procura di Gela dall’ottobre 2012 a settembre 2015. In sostanza, è stato gli occhi della Procura per una specifica parte della inchiesta.
Dott. Portoghese cominciamo dalla stretta attualità. Il 10 marzo abbiamo appreso che la Procura di Gela ha chiuso un decennio di indagini sul petrolchimico Eni. Vuole commentare la notizia?
Va dato merito alla Procura di Gela – come ho avuto modo di constatare lavorando da consulente per l’ultimo filone di inchiesta – di aver svolto un lavoro, nel tempo improbo, con la massima serietà e rigore su una delle questioni italiane più complesse e, al tempo stesso, poco note. Le inchieste hanno riguardato tutto il petrolchimico, comprese le attività estrattive con una produzione di dati enorme.
Per tre anni, come ha ricordato, è stato consulente della Procura. Quale situazione ha trovato a Gela? Può spiegarci dal suo punto di vista il contesto ambientale?
Innanzi tutto, premetto che il quadro emerso – al di là dei meri aspetti giudiziari – serve di sicuro a far capire cosa abbia rappresentato, non solo per Gela, la presenza di impianti industriali ad alto impatto ambientale, nonché l’estrazione di idrocarburi, con ricadute e conseguenze sotto ogni profilo: sociale, ambientale, occupazionale e sanitario. Gela è una città ricca di storia e, francamente, quando per la prima volta sono arrivato in quei luoghi, le impressioni sono state fortissime. Mi colpirono, arrivando di notte, i bagliori delle luci del complesso industriale, i pennacchi giallo-arancioni che fuoriuscivano dai camini. Ma più di ogni altra cosa ho avvertito, fin da subito, quell’odore forte, intenso e acre. Ho pensato che quell’odore e quelle sostanze aerodisperse i gelesi le annusavano 365 giorni l’anno. Per ogni anno della loro vita. Al contempo, ti aspetti di vivere in una città opulenta, invece noti lo stridio tra quelle luminosità, e colori forti, con un contesto a tinte fosche. Gela si apre, di fatto, sul Mediterraneo. Una finestra su immagini contrastanti, non solo di carattere ambientale, ma di coscienza e consapevolezza, di involuzione dell’intero territorio. Come emerge dalla lettura di migliaia di documenti, analisi, e rapporti tecnico-scientifici.
Lei, nello specifico di cosa si è occupato?
Il mio ruolo ha riguardato un’indagine relativa allo stato di manutenzione di alcuni serbatoi, nonché l’efficacia delle opere di bonifica delle acque di falda. Come avete raccontato nella vostra inchiesta ‘Gela profonda’, in pratica sono stato ‘gli occhi’ della Procura. Ed attenendomi a questo delicato compito, ti ho tenuti ben aperti in tutte le fasi previste.
Le risultanze dell’inchiesta della Procura di Gela – che parla di disastro ambientale innominato – sono molto forti. Dall’Eni hanno fatto sapere di aver sempre rispettato “norme, disposizioni e prescrizioni impartite per la corretta gestione delle attività industriali e in particolare, in relazione al rispetto delle norme in materia di emissioni in atmosfera, scarichi idrici e bonifiche”. È così. Può spiegarci come stanno le cose?
Chiariamo subito. È dovuta intervenire la Procura per inquadrare la situazione e cercare di incanalare ed indirizzare l’attività industriale nella direzione del rispetto e dell’osservanza delle leggi e delle ‘famose prescrizioni tecniche’ relative all’ottenimento delle varie autorizzazioni, per ultima l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), in sostanza ho avuto la netta sensazione che la Procura abbia assolto anche compiti non propriamente suoi, essendosi dovuta occupare di osservanza e vigilanza delle varie prescrizioni, delle normative tecniche e ambientali di riferimento.
La Procura, insomma, si è sostituita agli Enti preposti al controllo?
Esattamente. Giova ricordare che c’è già stata un’inchiesta, con successivo processo concluso con l’assoluzione per intervenuta prescrizione dei reati. Ma, i fattori di contaminazione, e in parte le responsabilità, furono già allora acclarati. Per quanto mi riguarda, dagli studi ed atti pubblici visionati il quadro che ne viene fuori non è di certo così rassicurante. Lo strumento che permette di identificare la dimensione e l’entità delle conseguenze derivanti dalle contaminazioni è l’analisi di rischio. Da quel che mi risulta, anche in questo caso, è stata effettuata ma al momento non è ancora possibile anticiparne i contenuti.
L’analisi di rischio è già un sentore…
L’analisi di rischio si esegue secondo quanto contemplato nel Decreto legislativo n.152/2006, allorquando anche un solo analita risulta essere superiore alle Concentrazioni soglia di contaminazione (Csc). Devo specificare che nel procedimento che ho seguito sono state effettuate dal Collegio peritale anche nuove analisi geochimiche in contraddittorio, inoltre, la Raffineria di Gela è tenuta ad effettuare dai primi anni duemila monitoraggi cadenzati ed analisi secondo protocolli stabiliti di concerto con le Autorità competenti.
Tutto chiaro. Ora apriamo il capitolo bonifiche, che dal quadro probatorio sembrano non essere risolutive.
Le opere di bonifica, secondo quanto prescritto e concordato nelle varie sedi tecnico-istituzionali, non sono risultate essere né del tutto efficaci, né risolutive. Lo stesso barrieramento idraulico è risultato avere forti criticità. (Conferenza dei servizi del 18 dicembre 2013, ndr). Se eseguo un’opera atta al confinamento, al di fuori del complesso industriale non deve, non dovrebbe, fuoriuscire nulla. Se, invece, ritrovo anche minime tracce sia pur al di sotto dei limiti di legge, di elementi e composti riconducibili ad attività industriali esercite a monte, vuol dire che quell’opera probabilmente non è stata eseguita correttamente. Se poi ritrovo anche superamenti dei limiti di legge, credo che ogni commento sia superfluo.
Queste criticità sono state più volte riscontrate ed evidenziate, in atti che sono pubblici, dagli stessi funzionari del ministero dell’Ambiente (Conferenza dei servizi del 18 dicembre 2013, ndr). in particolare, i funzionari scrivono che “sono risultate fino ad oggi infruttuose le richieste reiterate di dimostrare l’efficienza idraulica e l’efficacia idrochimica del sistema di barrieramento idraulico del sito multisocietario di Gela. ”In sostanza ci troviamo di fronte ad una situazione complessa e compromessa. Realisticamente parlando, il professor De Vivo – autorevole scienziato di fama internazionale, da voi già intervistato (Il petrolchimico e le malformazioni, intervista di Emma Barbaro su Terre di Frontiera n.l – marzo 2016, ndr) ha indicato il da farsi in particolari contesti. Parlare di bonifica è spesso parlare di speculazione. Dal punto di vista tecnico ed economico sarebbe meglio pensare a messe in sicurezza permanenti, serie ed efficaci, con stringenti e costanti monitoraggi. Laddove insistono le estrazioni di idrocarburi, si parla di inserire gran parte della Piana di Gela ampliando il perimetro dell’attuale Sito d’interesse nazionale (Sin) per poi procedere alle attività di bonifica. Se, come sembra, la dimensione della compromissione di queste aree è molto vasta, cosa va bonificato? E, semmai fossero raggiungibili, quanto tempo occorrerà per raggiungere le finalità stabilite?
Lei crede in uno scaricabarile delle parti in causa sulle responsabilità?
Credo ci sia stato un dialogo tra sordi. Se, ripetutamente, in ogni atto ufficiale vengono rimarcate e riproposte le stesse problematiche, mi aspetto non solo una stretta, attenta e rigorosa vigilanza, ma anche atti autorizzativi vincolanti. Non sembra che questo sia accaduto. E i relativi permessi sono stati rilasciati di volta in volta senza tenerne in debito conto, quasi come se non avessero mai contestato e/o rilevato alcunché. Come già evidenziato è dovuta intervenire la Procura. Esaminando quanto contenuto nell’Autorizzazione integrata ambientale del 2012 – aggiornata nel 2014 – è possibile rilevare criticità concernenti la dispersione, la diffusione e la concentrazione dei diversi contaminanti. Mi preme altresì puntualizzare un aspetto che riguarda alcuni composti come ad esempio i solventi clorurati (percloroetilene, tetracloroetilene, dicloroetilene, cloruro di vinile, ndr): la loro persistenza in termini spazio-temporali è paragonabile a quella di contaminazioni radioattive. Ovvero, le sorgenti possono migrare nel sottosuolo e rimanere attive anche per lunghi periodi, nell’ordine di un centinaio di anni. Ovviamente non lo dico io, ma studi scientifici e tecnici – anche di parte – che ho avuto modo di studiare.
Ritorniamo al contesto e facciamo un riassunto. Nell’ultimo decennio è emersa un’immagine di Gela come di un territorio definitivamente compromesso. Con responsabilità addebitabili a più livelli, anche agli organi di controllo. Come lei ci ha confermato. Probabilmente si è giocata una partita sporca non molto diversa da altre aree del Paese. Cosa non ha funzionato?
La mia opinione è che si è agito sempre in una sorta di regime di emergenze. Nel senso che, per lungo tempo e Uno a quando la Magistratura non ha iniziato a far luce sui fatti, si è immaginato di vivere una realtà fantastica.E come ho detto, chi doveva vigilare e controllare lo ha fatto, quanto meno, con molta superficialità. I dati e i documenti prodotti esistevano da decenni, tanto che sono nati studi specifici per evidenziare il forte impatto socio-sanitario ed ambientale. Lo stesso ministero della Salute, con il braccio operativo dell’istituto Superiore di Sanità, nel rapporto “Sentieri”pone con forza la problematica sanitaria rilevata in queste aree industrializzate. Lo stesso hanno fatto altre istituzioni ed Istituti di ricerca. Il punto è che rimangono confinati a strette fasce di interesse, poco visibili, senza particolari rilievi e conseguenze. Mi aspetto che una volta evidenziate e documentate scientificamente le questioni, poi vi siano atti, non solo di indirizzo formale, ma azioni mirate e rigorose. Si sono creati organismi tecnici e di controllo nel corso degli anni forse più per sostegno a interessi, che a garanzia del rispetto delle normative e del buon senso.
A tal proposito devo fare giusto qualche osservazione per capirci, il Decreto legislativo n.l52/2006 viene sistematicamente rivisto nelle sue parti – specie quelle relative agli analiti e ai valori limite di riferimento – non perché sia più stringente e severo come prevede in base a nuove e comprovate evidenze scientifiche, ma per garantire la prosecuzione di attività che sforano costantemente i parametri già molto permissivi. Come, quindi, non citare anche la questione legata al Metilterbutiletere (un composto che ha sostituito a partire dagli anni Novanta il piombo tetraetile nelle benzine, ndr) che non è normato. Eppure, anche per il Metilterbutiletere esistono studi scientifici sulla sua pericolosità. Tanto è vero che esistono delle sentenze (Sentenza del Consiglio di Stato n.2526/2014, ndr) che ne attestano la pericolosità ed i limiti di riferimento cui almeno attenersi. Ancora una volta è la Magistratura che deve sopperire a vuoti e negligenze di altri organismi istituzionali.
Emerge, ancora una volta, la delicata questione dei controlli. Dove sta la garanzia della terzietà?
Il problema è che si lascia la possibilità ai soggetti privati di provvedere, in proprio, alla predisposizione ed attuazione di analisi e monitoraggi, con il solo obbligo poi di inviarle agli Enti di riferimento. Nel corso della mia attività professionale, non solo legata a questo procedimento, mi sono reso conto di anomalie nella produzione di dati alle quali, dagli Enti di controllo e verifica, non viene mosso in genere alcun rilievo. Si accettano così come vengono ricevuti. Solo per rispondere ad un mero compito formale. Addirittura, in alcuni casi, sono gli stessi Enti statali – preposti a garantire la terzietà – che vengono incaricati dagli stessi soggetti privati. Pertanto la commistione tra controllore e controllato diventa paradossalmente garantita per legge. La verifica e le analisi in contraddittorio con particolari e stringenti protocolli sono casi eccezionali e non, invece, una prassi consolidata.
Oggi, per Gela, si parla di nuova fase occupazionale a seguito di una riconversione industriale. Cosa ne pensa?
Non spetta a me indicare soluzioni di tipo imprenditoriale. Bisogna capire bene il significato di riconversione industriale. Ho sentito parlare di Green Refinery. Potrebbero essere delle proposte e scelte valide, ma le nuove attività dovrebbero essere attentamente valutate con estremo rigore, onde identificare prima tutte le possibili ricadute future. Non è che tutto ciò che si identifica con la parola magica “green” sia sostenibile per l’ambiente. Anzi, molte volte nasconde delle coperture.
inoltre le nuove attività non dovrebbero essere slegate e disgiunte dalle necessarie e prioritarie opere di messa in sicurezza e/o eliminazione delle situazioni di rischio per l’ambiente e la salute. Mi sembra di avere inteso, anche da precise e puntuali normative che giungono, quasi sempre in maniera tempestiva (articolo 36 della legge n.l34 del 7 agosto 2012) che le due questioni possano viaggiare separatamente e in qualche modo venendo meno al principio del “chi inquina paga”.