Terre di frontiera ha intervistato i due vincitori del Premio Filangieri 2020, la rassegna sulla cultura della legalità organizzata a Lapio il 22 e 23 febbraio prossimi dall’associazione culturale Laboratorio Teatrale Lapiano. Ecco l’esclusivo faccia a faccia tra il procuratore aggiunto di Avellino, Vincenzo D’Onofrio, e lo scrittore antimafia Leonardo Palmisano sulla capacità delle “terre dell’osso” di riscattarsi dal giogo delle mafie.
L’associazione culturale Laboratorio Teatrale Lapiano quest’anno ha scelto di premiare due personalità che nel campo dell’antimafia, pur nelle diversità dei reciproci ruoli, svolgono una funzione civile complementare e, per molti versi, affine. Innanzitutto, che valore ha per voi questo riconoscimento?
Vincenzo D’Onofrio: Innanzitutto sento la necessità di evidenziare, al di là del sincero ringraziamento agli organizzatori dell’evento, l’onore e la felicità che provo nel sapere che giovani del territorio in cui professionalmente opero abbiano pensato di conferirmi un riconoscimento per quanto ho svolto in questi oltre venticinque anni nella mia funzione di magistrato. Individuandomi, al contempo, come testimone della legalità per le giovani generazioni. Onore, felicità e anche, non lo nascondo, un pizzico di commozione se penso che lo scopo finale di questa prima edizione della rassegna, oltre alla diffusione della cultura della legalità e dell’uguaglianza sociale, è quello di manifestare “vicinanza” e realizzare “schermi protettivi” per evitare che persone sovraesposte – sia che esercitino una pubblica funzione o siano semplici cittadini – possano, attraverso una scientifica quanto strumentale azione di isolamento, divenire veri e propri bersagli umani. L’intelligenza di questi ragazzi sta nell’aver percepito, quasi istintivamente, quanto l’isolamento possa essere più pernicioso delle intimidazioni o minacce in sé considerate.
Ogni volta che sono stato destinatario di azioni intimidatorie o di delegittimazione, mi è sempre tornato alla memoria un passo de “Il giudice ragazzino”, il libro scritto da Nando dalla Chiesa che racconta la storia di Rosario Livatino, il magistrato assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990.
Ad un collega di ufficio di Livatino, l’autore chiedeva se non ritenesse che il magistrato fosse divenuto un bersaglio a causa delle indagini che stava conducendo su gruppi mafiosi particolarmente agguerriti. Ebbene, quegli rispose che «Rosario è stato ucciso perché lasciato solo. E mi tormenterò per sempre nel pensare che non sia stato lui a fare un passo avanti, quanto piuttosto tutti noi a fare un passo indietro.»
Le storie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poi, hanno dato ampia conferma a questo assunto: si muore non perché si fa troppo, ma perché si è lasciati soli, si è abbandonati da chi dovrebbe proteggerti. Le mafie, da questo punto di vista si muovono come un branco di leonesse. Prima individuano la preda tra i più deboli, i più fragili, tra quelli che, insomma, vengono isolati dal gruppo. Poi attaccano quando la vittima è sola e senza possibilità di difesa.
Ragion per cui, sapere che i giovani del mio territorio prendono iniziative di tutela sociale nei confronti di chi, sovraesposto per l’azione di contrasto all’illegalità, rischia di restare solo, mi inorgoglisce. E, soprattutto, mi tranquillizza.
Leonardo Palmisano: Per me ha un valore altissimo. È un riconoscimento che mi riempie di gioia e di orgoglio e mi porta a fare delle riflessioni serie sul mio lavoro. Non è scontato, quando ascolti decine di esseri umani vessati e sfruttati dalle mafie della tratta, fermarsi per provare a capire il senso sociale di quello che fai.
Ecco, questo premio me lo fa capire. Ed è bello e utile insieme.
In questi anni, e a maggior ragione negli ultimi mesi, vi è mai capitato di sentirvi soli?
Vincenzo D’Onofrio: Vivo sotto scorta dal 1999, da quando ero pubblico ministero a Reggio Calabria. Per cui non posso nascondere che, accanto alle soddisfazioni, vi siano stati anche momenti di altissima tensione e preoccupazione. Mio malgrado, posso fare tantissimi esempi: ci sono state le minacce, i proiettili che mi sono stati recapitati, i messaggi intimidatori, le armi ritrovate nelle vicinanze dei luoghi che frequentavo, le dichiarazioni di pentiti che confessavano di aver progettato un attentato nei miei confronti, i dialoghi intercettati in cui si parlava espressamente di una vendetta nei miei confronti o nei confronti di un mio caro, le allusioni da parte di ‘ndranghetisti e camorristi circa i miei spostamenti e le mie abitudini quotidiane o, ancora, le allusioni fatte in pubbliche udienze ai miei figli e all’indirizzo di casa mia, gli inseguimenti da parte di auto sconosciute, i diversivi organizzati dagli uomini della mia scorta. L’elenco è piuttosto lungo. Anche perché in altri momenti, poi, sono stato invece oggetto di pesanti azioni di delegittimazione. Sono stato denunciato da persone su cui avevo indagato, destinatario di campagne diffamatorie orchestrate ad arte, attaccato pubblicamente in aula durante i processi per presunte irregolarità commesse.
Rispetto a tutto questo, che purtroppo continua anche oggi, ho tentato per prima cosa di “isolare” la famiglia, non facendo gravare su di loro ciò che mi accadeva. In secondo luogo, ho cercato sempre di assumere quel comportamento a cui faceva riferimento Giovanni Falcone nel corso dell’intervista rilasciata nel 1988 alla giornalista francese Marcelle Padovani. A costei, che gli chiedeva se avesse paura delle minacce, delle intimidazioni o, ancora, della sistematica attività di delegittimazione di cui era bersaglio, egli rispose: «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, ma incoscienza.»
Mi auguro di esserci riuscito, ma spetta ad altri valutarlo. Non posso nascondere, tuttavia, la vicinanza e la solidarietà che mi è stata costantemente dimostrata dai membri delle istituzioni, dai colleghi e cittadini. A ciascuno di loro va il mio ringraziamento, innanzitutto come uomo e poi come magistrato. E mi auguro di saper meritare, sempre, la loro vicinanza e la loro solidarietà.
Leonardo Palmisano: Mi sento spesso solo. Specie quando l’utilità del mio lavoro non viene compresa o accettata. A me non piace costruire retoriche sulle mafie, non mi appartiene il linguaggio di chi antepone se stesso a quel che dice. E forse questo mi isola.
In un Paese che tende a creare eroi inutili, io ho deciso di non recitare la parte dell’eroe, e questo forse a molti non piace. Perché devono confrontarsi con le mie analisi, non con la mia persona. Le istituzioni non mi sono sempre vicine, anzi. A volte mi sono nemiche. Soprattutto quando parlo di loro, delle loro aderenze con i sistemi criminali.
Sento invece molto vicine la magistratura e le forze dell’ordine. Così come la Caritas, tra le altre, e i parroci che conosco, perché hanno contezza di quanto sta accadendo in Italia. E vicine e solidali mi sono le persone con le quali lavoro e faccio politica. Siamo una comunità pensante e agente nella giusta direzione.
Minacce, intimidazioni e delegittimazioni sono dunque la summa di un’azione il cui obiettivo è quello di scardinare, in primis, il senso morale e civile del vostro operato sui territori. In molti allora potrebbero chiedersi: ma cosa vi spinge ad andare avanti?
Vincenzo D’Onofrio: Non potrò mai dimenticare gli occhi lucidi di un’anziana signora che si avvicinò in aula e venne a ringraziarmi, stringendomi le mani, per aver ritrovato dopo oltre vent’anni il cadavere del figlio trucidato dalla camorra di Ponticelli. «Mi ha donato una tomba su cui pregare e portare un fiore», furono le sue commoventi parole.
Così come resta vivida nella memoria la decisione della Corte d’Assise di Napoli che, su mia istanza, riabilitò quali vittime innocenti di una feroce strage quattro inermi cittadini che venivano indicati negli atti quali componenti di un’organizzazione mafiosa. Né dimenticherò mai le parole pronunciate in Corte d’Assise dalla sorella di un’altra vittima innocente della camorra che, dopo sedici anni di silenzi, trovò il coraggio di testimoniare contro gli assassini del fratello. Quando le si chiese perché fosse arrivata a quella determinazione, lei rispose: «Perché grazie a Lei, dottor D’Onofrio, ora credo nella giustizia.»
Ho provato queste soddisfazioni anche nei momenti più bui della mia carriera. Specie quando le attività di delegittimazione sono state portate alle estreme conseguenze coinvolgendo pubblicamente, in maniera più o meno diretta, anche i membri della mia famiglia. In una di queste occasioni, mentre anticipavo a mio figlio minore che sarebbero apparse sui giornali alcune notizie su di me, lui mi ha risposto: «Papà, ci hai insegnato a non vantarci del tuo operato, come puoi pensare che potremo mai vergognarci di te?»
Ecco, è questo che mi spinge ad andare avanti. A cui va sommata una ragione molto più banale ed egoistica: se non fossi un magistrato, dubito che sarei stato in grado di fare altro.
Leonardo Palmisano: Io lo faccio perché mi piace. Produrre analisi partendo dalle relazioni che i sistemi mafiosi si curano di creare è bello. C’è qualcosa di erotico nel mettere a nudo le mafie. Nulla di morboso, ma è molto piacevole avere ragione, arrivare dove non sono arrivati altri prima di me, costruire ipotesi e verificarle. Sì, mi piace, per questo lo faccio. Perché so che senza l’azzardo delle analisi e delle ipotesi, non conosceremmo le mafie come le conosciamo oggi. E, senza conoscenza, loro vincerebbero a mani basse.
Una piccola associazione culturale, in un piccolo comune di provincia, ha scelto coraggiosamente di farsi promotrice di un momento di riflessione collettivo che parta da una presa di coscienza dei territori. E lo ha fatto mettendo in comunicazione aree differenti, eppure simili nelle dinamiche che le attanagliano. Perché queste periferie, queste terre di frontiera, sono ancora oggi quelle che subiscono maggiormente i condizionamenti delle infiltrazioni criminali nel tessuto economico e sociale?
Vincenzo D’Onofrio: L’Irpinia è stata sempre descritta come una terra sana, senza infiltrazioni del crimine organizzato e assolutamente estranea alle logiche mafiose che caratterizzano da sempre, invece, le province di Napoli e Caserta. Avellino e la sua provincia sono state assimilate all’immagine di una sorta di “Svizzera della Campania”, un territorio in cui il crimine mafioso non ha mai attecchito perché non avrebbe trovato terreno fertile per svilupparsi. Ma questo è il messaggio più pericoloso che possa passare. Perché l’atteggiamento quasi snobistico di chi ritiene di essere “estraneo” all’inquinamento mafioso è sicuramente il regalo più inaspettato per le organizzazioni criminali e, allo stesso tempo, l’errore più grave per ogni organizzazione sociale che si riprometta di arginare le mafie.
Le regioni del nord Italia, fino a pochi anni fa, ritenevano che la mafia fosse una prerogativa esclusiva del Meridione. Ma un bel giorno hanno scoperto di avere i mafiosi in casa propria – dalla Valle d’Aosta al Trentino, passando per il Piemonte, la Lombardia, il Veneto – e che questi agivano ormai da anni non già con la “coppola e la lupara”, ma insinuandosi nel tessuto sociale apparentemente sano in veste di imprenditori, rappresentanti delle istituzioni, liberi professionisti e, al contempo, “grandi elettori”.
Occorre, quindi, avere ben chiaro questo aspetto: le organizzazioni mafiose, se hanno la necessità di controllare militarmente e con le armi il territorio di origine – senza un territorio “di competenza” non può esistere un clan, una cosca o una ‘ndrina – hanno altresì la primaria esigenza di avere a disposizione un altro e diverso territorio, apparentemente vergine alle logiche mafiose, su cui reinvestire gli enormi profitti illeciti ricavati. Di creare, cioè, dei “piani verdi” – mutuando la definizione di uno dei pochi collaboratori di giustizia calabrese – in cui meno presente è l’attenzione delle forze dell’ordine e più ingenua è la collettività.
Ed ecco che territori apparentemente estranei come l’Irpinia divengono la vera “lavatrice” dei clan di camorra, come del resto la ricostruzione post-terremoto del 1980 ha ampiamente e plasticamente dimostrato. Ed è proprio in queste situazioni e in questi territori, dove una mafia militare non ha ragione di esistere, che si è diffuso qualcosa di più pernicioso perché subdolo: il metodo mafioso.
In molte indagini condotte in questi anni tra Calabria e Campania ho potuto constatare fino a che punto politica e imprenditoria abbiano mutuato dalla mafia o camorra il proprio “metodo”. Non tanto sotto l’aspetto dell’intimidazione – che spesso pur interviene da parte del politico nei confronti dell’imprenditore – quanto piuttosto sotto quello del silenzio e dell’omertà, veri pilastri su cui si fonda ogni agire mafioso. Nell’intreccio criminale tra il politico e l’imprenditore, in pratica, il silenzio garantisce profitti per tutti. Per cui il tacere conviene più del parlare. E conviene, paradossalmente, anche a coloro che vengono penalizzati dalle scelte frutto di accordi corruttivi, giacché sanno che l’eventuale denuncia li isolerebbe dal “sistema”, all’interno del quale, invece, proprio il silenzio, l’aver taciuto, l’aver evitato di denunciare, costituisce una sicura patente di “affidabilità”. Se così è, allora, si comprende agevolmente quali enormi vantaggi può ricavare una camorra imprenditrice e, al tempo stesso, politica in territori apparentemente estranei alla sua azione.
Leonardo Palmisano: Perché c’è povertà, manca il lavoro e perché manca il senso del lavoro. Recentemente ho intervistato un venticinquenne del quartiere Baggio di Milano. Si droga da quando aveva dodici anni, nonostante venga da una famiglia tutto sommato per bene. Si buca per piacere e, per farlo, spaccia per conto di una famiglia di ‘Ndrangheta. Abbiamo ragionato insieme sul senso di quello che fa e, dal momento che non gli resta niente in tasca e che quello che fa non gli dà un’identità sociale positivamente riconosciuta, siamo arrivati a definire lo spaccio come un non-lavoro. Ci siamo abbracciati e abbiamo quasi pianto insieme.
Ora sta a lui decidere se uscirne. Io sono pronto ad aiutarlo.
Dunque, non esistono monadi o isole felici. Ma se nessun territorio può dirsi immune dal germe mafioso, come lo si può debellare?
Vincenzo D’Onofrio: Non più di qualche anno fa l’allora Procuratore Nazionale Antimafia, nel rappresentare la diffusione capillare del fenomeno corruttivo e di deviazione della funzione pubblica dai fini istituzionali, usò parole fortissime e trancianti, che mi piace ricordare. Egli evidenziava come in Italia si continuasse ad assistere alla cosiddetta “privatizzazione della cosa pubblica”, una regola base dell’agire mafioso, nella quale il politico o l’amministratore di turno piega l’ufficio o l’incarico che ricopre – per un tempo più o meno lungo – all’esclusivo interesse proprio e della cricca di “amici” e “amici degli amici”. Anche questi atteggiamenti e queste situazioni rientrano a pieno titolo nel novero delle mafie da contrastare. Per cui, in primis, va debellato il metodo mafioso. E, in tal senso, l’uso di strumenti repressivi tipici degli organi investigativi e inquirenti, da solo non può bastare.
La magistratura – mi piace ripetere spesso – interviene quando “il morto è a terra”. Ma vi sono altre istanze precedenti che dovrebbero attivarsi affinché il morto non vi sia affatto. La magistratura, l’istanza punitiva, è l’estremo rimedio all’interno di una struttura organizzativa complessa. Tanto minore è il suo intervento, quanto maggiore è l’efficienza e l’efficacia delle azioni preventive, che non sono naturalmente quelle – o solo quelle – affidate pur sempre alle forze di polizia. Mi riferisco alle istanze culturali, sociali, ambientali, rimesse alla competenza di famiglie, scuole, università, politici, amministratori pubblici e imprenditori.
Si tratta di una scelta di valori di riferimento. Si deve decidere se si vuol essere un Paese in cui deve prevalere – e divenire una regola generalizzata di condotta – il cosiddetto “principio dell’affidamento” oppure si deve continuare a operare secondo una logica egoistica e di breve respiro. Si deve stabilire se ognuno deve poter contare sul fatto che tutti gli altri, ma proprio tutti, perseguano con le loro azioni, nel loro campo, l’interesse di tutti, oppure no.
Leonardo Palmisano: A mio avviso è necessario isolare mafiosi e corrotti nei luoghi d’elezione del loro agire: nella politica, nell’impresa, nel funzionariato pubblico e privato. Il prestigio sociale guadagnato dalle mafie ricade nelle periferie di provenienza delle mafie stesse. In Calabria si gioisce quando una famiglia come quella di Nicolino Grande Aracri esprime un consigliere in Emilia Romagna, perché si è conquistato un mondo apparentemente incorruttibile. Isolando queste figure dove serve, raccontandone il luridume, si crea la giusta differenza tra chi è sano e chi non lo è. Non ha senso chiedere alla gente comune di isolare i mafiosi se poi le associazioni datoriali non prendono le distanze dalle loro imprese. Lo stesso vale per i politici. Le autorizzazioni a procedere, per corruzione, vanno concesse e vanno espulsi dai partiti i politici corrotti, eletti col voto di scambio o provenienti da ambienti discutibili. Cominciamo dall’alto, dove l’ipocrisia e il reciproco interesse criminale vanno a braccetto.
Qual è, per voi, il senso più profondo dell’antimafia sociale?
Vincenzo D’Onofrio: Per me l’antimafia si compone di cultura, lavoro onesto, salute e giustizia. Il sapere aiuta a parlare e confrontarsi. A capire quando si è in errore e quando è necessario accettare anche di cambiare idea. Un lavoro consente una vita dignitosa. Un sistema sanitario organizzato ed efficiente aiuta a vivere bene e più a lungo, in maniera più lucida e senza affanni, fisici e psicologici. Un sistema giudiziario efficace, forte e realmente egalitario, garantisce la giusta, rapida ed effettiva punizione nel settore penale e decisioni rapide e condivise in quello civile.
Sono questi i segmenti valoriali in cui uno Stato deve investire se intende sradicare il “metodo mafioso”. Perché il mancato funzionamento di ciascuno di essi determina l’innalzamento del potere mafioso. Infatti, l’assenza di cultura genera una subcultura egoistica in cui il “farsi i fatti propri” prevale sull’interesse collettivo. L’assenza di lavoro rimpingua la manovalanza delle organizzazioni mafiose e consegna la dignità dell’individuo nelle mani del politico o dell’amministratore di turno.
La mancanza di una sanità efficiente, consegna le vite umane nelle mani di pochi, capaci – anche con violenze e abusi – di far “saltare” le liste di attesa, di arricchirsi per interventi che, se tutto funzionasse, sarebbero gratuiti. E senza una giustizia celere ed efficiente, infine, il cittadino è portato a pensare che tutto sia addebitabile ai giudici per un verso e, per un altro, che conviene trovare scorciatoie più rapide e sicure.
Fatte queste premesse, spesso mi chiedo a quale livello di sviluppo è possibile collocare questi quattro segmenti e, di conseguenza, che grado di civiltà possiamo riconoscere al nostro Paese. La risposta, la lascio ad altri. Ma è chiaro che, in questo stato di cose, la collettività continui ad essere confusa.
Leonardo Palmisano: Non essere antimafia ma essere democrazia, sempre. Le mafie ostruiscono gli spazi di libertà, nell’economia, nella cultura, nella società. Chi lotta per la libertà è per forza di cose antimafioso. Ma chi lotta per la libertà, lo fa per l’affermazione della democrazia. Le mafie hanno una forte carica eversiva, totalitaria. Svuotano di senso la civiltà democratica, per questo dobbiamo tornare al senso pieno della pratica dei diritti e dei doveri.
Che ruolo potrebbero avere le giovani generazioni in questa riscoperta valoriale della società civile?
Vincenzo D’Onofrio: Oggi le giovani generazioni oscillano tra valori altissimi, intorno ai quali molti provano a coagularsi e diventare rappresentativi – come la lotta alla mafia piuttosto che all’inquinamento ambientale, e simili – e valori legati ad una società fatta di apparenza e di consumo. Penso, ad esempio, alle migliaia di ragazzi che si presentano ai provini per i reality o ai componenti dei gruppi ultrà del calcio, sempre più collegati e sovrapposti alle bande che gestiscono e spacciano stupefacenti. La confusione nasce, purtroppo, anche dalla scarsa fiducia che la nostra generazione, specie nelle terre di mafia, è riuscita a trasferire ai più giovani. Una generazione, la nostra, che nei confronti delle mafie si è posta attraverso un modello basato su uno spirito egoistico: o prevale un atteggiamento basato sul principio che tacere è meglio che parlare, con tutto ciò che ne deriva, o si sovraespone quei pochi che hanno la forza e il coraggio di portare avanti un’ideale che guardi al vivere civile. E, in tal senso, penso ai magistrati, ai giornalisti, ai preti, ai sindacalisti o agli appartenenti alle forze di polizia che le mafie hanno ammazzato nel corso di tutti questi anni.
Si dirà che i magistrati o le forze dell’ordine devono necessariamente agire perché rispondono un obbligo di legge mentre la società civile, se vuole, può scegliere di guardare dall’altra parte. Ma non è così. Perché una società che tace uccide il futuro dei propri figli. Per dirla con le parole del poeta libanese Kahlil Gibran “il desiderio è metà della vita, l’indifferenza è già metà della morte.”
Ecco. Ognuno di noi è libero di valutare se intende già cominciare a morire.
Leonardo Palmisano: Innanzitutto i giovani possono sviluppare questi valori per mezzo della cultura e dello studio inteso come interesse collettivo. Nelle scuole incontro molti ragazzi che parlano di mafie solo perché hanno visto una fiction o conoscono a memoria i nomi delle vittime innocenti più celebri. Ma quanti di loro conoscono la storia delle mafie dei loro territori?
Dall’altro lato, però, anche gli adulti devono studiare alla pari dei giovani. Perché solo un riconoscimento collettivo dell’esistenza delle mafie e delle loro caratteristiche, che cambiano da luogo a luogo e da sistema a sistema, può aiutare la società a prendere le distanze da questi modelli.