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Dal Pakistan all’Italia, il lungo viaggio di Wajahat per l’affermazione dei diritti umani

Si può smettere di vivere nell’ombra per affermare, a viva voce, che “Allah loves equality”? Intervista a Wajahat Abbas Kazmi, regista e attivista pakistano.

Si può essere gay e musulmani? Si può smettere di vivere nell’ombra per affermare, a viva voce, che «Allah loves equality»? Per Wajahat Abbas Kazmi, regista e attivista pakistano da anni residente in Italia, è possibile. Dalla sua coraggiosa campagna d’informazione, recentemente trasformatasi in un documentario completamente finanziato attraverso il crowdfunding, è nata una nuova consapevolezza. Si può essere uguali, pur nelle reciproche differenze. Si può scegliere, anche quando le scelte fanno paura. «L’omosessualità», afferma il giovane attivista di Amnesty International, «non è un problema dell’uomo con Dio. Ma solo un problema percepito come tale dall’uomo.» Perché c’è un solo linguaggio universale che prescinde razza, etnia, lingua, religione: quello dei sentimenti.

Wajahat, la tua è una storia molto particolare. Sei arrivato in Italia a 15 anni, con la tua famiglia, senza aver mai avuto l’opportunità di confrontarti sul tema dell’omosessualità. Come sono stati i tuoi primi anni in questo Paese?
Ero un ragazzino molto timido, che non conosceva la lingua. Ho iniziato a studiarla solo alle scuole medie. Per me è stato difficile. Avevo molti amici in Pakistan, ma con loro non avevo mai potuto parlare della mia omosessualità, era un tabù. Alcuni di loro, pur condividendo il mio stesso orientamento sessuale, oggi sono sposati e hanno famiglia. Io ho sempre saputo di essere gay, non ero confuso sulla mia identità sessuale. Ma non avevo avuto la possibilità di parlarne con nessuno. Per i primi tre o quattro anni, qui in Italia, non sapevo dove sbattere la testa. Non sapevo nemmeno se esistessero gli omosessuali in questo Paese. Oggi questa cosa mi fa ridere. Pensa, quando sono venuto qui per la prima volta c’erano voli diretti solo verso Roma, non verso Milano. Una volta uscito dall’aeroporto ho visto tante coppie etero, tutti ragazzi che si baciavano e accarezzavano in pubblico in piena libertà. Ricordo di aver pensato: cavoli, qui non mi guarderà nessuno. Qui i gay non esistono, le donne sono troppo disponibili, troppo aperte. Ora ci rido su, ma ai tempi io conoscevo solo la realtà del Pakistan. Lì sono assolutamente vietati i rapporti sessuali tra uomini e donne prima del matrimonio. E, chiaramente, questo favorisce la promiscuità sessuale tra persone dello stesso sesso. Ero molto preoccupato. Insomma, se i rapporti sessuali prima del matrimonio in Italia non sono vietati, e le donne sono libere, io non avevo nessuna speranza.

C’era troppa concorrenza insomma…
Esatto. Pensavo che le donne mi avessero già “rubato” tutto il mercato di riferimento. Ci ho messo almeno due anni per capire, anche perché non avevo internet a casa. Per me era tutto troppo difficile: la mia timidezza, la scarsa conoscenza della lingua mi impedivano di trovare il coraggio di fare coming out. Parliamo di diciotto anni fa. Non era così semplice per me confessare ai miei compagni di scuola di essere gay, non sapevo cosa aspettarmi. Ci ho messo del tempo per scoprire se ci fosse una cultura gay in Italia. Dai due ai quattro anni solo per capire questo.

Poi cosa è successo?
Poi è arrivato internet, i siti d’incontro e, finalmente, un po’ di consapevolezza. Insomma, ho scoperto che in Italia esistono i gay. E, pian piano, ho capito che c’era tutto un mondo di cui io ignoravo completamente l’esistenza. Prima di quel momento ero confuso. Non sul mio orientamento sessuale, quello era chiaro. Confuso sul se dovessi sposare o meno una donna. Nel mio destino c’era già il matrimonio combinato con mia cugina, che vive a Brescia. Mia mamma e mia zia avevano già stabilito tutto molti anni prima. Quindi, all’età di 18 anni, mi sono fidanzato. Non avevo molte opzioni e poi c’era il retaggio culturale: con un matrimonio già combinato alle spalle, senza amici, senza conoscenza della realtà italiana, mi sentivo in trappola. E poi sono il figlio maggiore, dovevo dare il buon esempio e accettare il fidanzamento. Un fidanzamento durato quasi sette anni, finché non l’ho interrotto facendo coming out. Io e mia cugina non ci siamo mai sposati. Ho dovuto affrontare tutto da solo, in piena autonomia. Per me è stato un processo lungo. Mi mancava la consapevolezza e, soprattutto, il coraggio. Perché il coraggio ci vuole, è necessario.

Una volta fatto coming out come sono cambiati i rapporti con la tua famiglia?
Con la famiglia di mia cugina si sono interrotti tutti i rapporti da quando ho rotto il fidanzamento. Non siamo più in contatto da allora. Me lo aspettavo, è una cosa che doveva succedere per forza. Con la mia famiglia, invece, i rapporti non sono ancora definiti. Con i miei fratelli non ho alcun problema. Sono cresciuti in Italia, hanno studiato e hanno una mentalità aperta. Anzi, devo dire che sono molto favorevoli alla mia omosessualità. Poi sono il fratello maggiore, è anche una questione di rispetto. Nella nostra cultura va considerato anche questo aspetto. Mi fanno una sola, scherzosa, raccomandazione: se mai mi dovessi sposare, devo scegliere un uomo ricco e non povero come noi. Così, poi, ci guadagnano qualcosa anche loro. Invece con i miei genitori, che nel frattempo sono tornati in Pakistan, non è possibile affrontare l’argomento. Ci ho provato molte volte, ma alla fine il discorso cade sempre sullo stesso punto. Loro vorrebbero che io mi sposassi. Veniamo da una piccola città rurale dove non è assolutamente semplice accettare l’omosessualità del proprio figlio. I miei genitori sono andati a scuola, ma non hanno fatto degli studi di livello. È un po’ difficile far capire loro le ragioni di questa scelta. È troppo complicato e, soprattutto, è troppo tardi adesso. Non ho speranze di essere accettato da loro. Non c’è alcuna possibilità di avere un rapporto aperto sull’argomento. Quindi, in linea generale, evitiamo di parlarci. Oppure, se parliamo, cerchiamo di non aprire mai questo argomento.

I tuoi genitori avrebbero voluto che ti sposassi per, passami l’espressione, «salvare le apparenze»?
Beh, da quando ho rotto il fidanzamento con mia cugina la proposta è sempre la stessa. Il nostro era un matrimonio molto atteso, pianificato dalle nostre madri fin da quando eravamo ragazzini. Mi hanno detto spesso di sposarmi, fare un figlio, e poi sarei stato libero di far quello che volevo. Quello che avrei fatto fuori da casa non era importante. La cosa importante era avere una moglie, una famiglia e salvare le apparenze. Il condizionamento era forte, ma io non potevo assolutamente sposarmi.

Perché eri consapevole che con quel matrimonio avresti condannato te e la tua sposa all’infelicità.
Esatto. Nessuno può essere felice se vive in una bugia. Nei matrimoni forzati, specie in quelli in cui uno dei partner è omosessuale, l’infelicità è d’obbligo. Quando le donne pakistane sposano un uomo gay, devono tenere la bocca chiusa. Innanzitutto per una questione culturale: devi rispettare il tuo uomo, non puoi ribellarti alla tua condizione. In più soffrono perché sono sole e non possono avere rapporti con nessun altro. Gli uomini non hanno affatto una mentalità così aperta. È una condizione di grande sofferenza, la loro. Conosco tante coppie così in Pakistan, ma purtroppo non c’è nulla da fare. La colpa non è delle donne, dato che i matrimoni sono sempre combinati e loro non hanno possibilità di scegliere. La responsabilità è di questi ragazzi, che non hanno il coraggio di dichiararsi.

Da sciita e omosessuale, in Pakistan, probabilmente sei considerato una minoranza due volte. In Italia, da musulmano sciita e omosessuale, forse lo sei addirittura tre volte.
In Italia è più divertente. Poi, dopo i casi di cronaca di Sana Cheema e Hina Saleem, come pakistano, forse sono minoranza almeno quattro volte (ride). A parte gli scherzi, non posso dire di sentirmi discriminato in Italia. È vero, fino a qualche minuto fa ho ricevuto messaggi privati in cui qualcuno ha scritto: perché non vai a dire che «Allah loves equality» nel tuo Paese, se ne hai il coraggio? Adesso almeno posso rispondere: no grazie, lì ci sono già stato e sono persino tornato. Ma ripeto, quel che succede qui è quasi normale. Ed è dettato da un’ignoranza di fondo. Non posso considerarlo come una discriminazione a fronte di quello che succede in Pakistan. Lì è diverso. Non si limitano a mandarti un messaggio su Facebook, vengono a casa tua. In Pakistan i gay subiscono minacce e discriminazioni vere. Cosa che qui non si è mai verificata. Certo, abbiamo lanciato la campagna Allah loves equality nel periodo dell’islamofobia e omofobia dilagante. Ma il progetto non solo è andato avanti, si è persino trasformato in un documentario.

Cosa rappresenta l’Italia per te?
L’Italia è il Paese che mi ha dato l’opportunità di uscire allo scoperto. Se non fossi venuto qui, probabilmente non avrei mai avuto la forza di fare coming out. Se l’ho fatto è perché ho avuto la possibilità di prendere coscienza dei miei limiti, ma anche di quelli dei miei genitori. Se fossi rimasto in Pakistan forse oggi sarei sposato, avrei due figli e un matrimonio forzato per coprire la reputazione della mia famiglia nella comunità. Mi sento molto fortunato per il solo fatto di essere qui. È un Paese che mi ha dato molto coraggio. Quello che sono oggi, lo devo all’Italia.

Come viene tutelata la comunità pakistana in Italia? E la comunità stessa, considera il nostro Paese una meta di passaggio o un punto d’approdo definitivo?
Bisogna fare molta attenzione su questo punto. La comunità pakistana che risiede in questo Paese è composta da migranti economici. Persone che vengono per migliorare le proprie condizioni economiche e per dare una possibilità ai propri figli di studiare. Ma poi, sognano di tornare nel proprio Paese d’origine. E quando c’è questa volontà di fondo, non si può parlare di integrazione. L’integrazione implica, per sua natura, un livello di relazione molto alta e molto stretta tra comunità diverse. In Inghilterra, ad esempio, pakistani e indiani possono considerarsi integrati e sono già alla quarta generazione. Qui, quelli che vogliono integrarsi davvero, possono subire delle gravi ripercussioni. Basti pensare alle storie di Sana Cheema e Hina Saleem, che hanno pagato un prezzo molto alto per la loro volontà di integrarsi. I pakistani vengono qui solo per migliorare le proprie condizioni economiche. Quando i loro figli crescono, chiedono loro di restare a lavorare. Se i genitori tornano in Pakistan, un giorno anche la seconda generazione, quella dei figli, deve tornare nel proprio Paese. La comunità non ha ancora deciso se vuol integrarsi davvero, oppure no. Poi, molti di loro vengono da comunità rurali, molto distanti dalle grandi città. Da villaggi, insomma, di cui a volte si perde traccia persino in Pakistan. Quando Sana è stata uccisa, ad esempio, molti ci hanno messo tanto tempo per capire quale fosse il suo villaggio d’origine. È difficile trovare, in Italia, un pakistano medico o avvocato. Qualcuno studia, va all’università, ma non si sa ancora se deciderà o meno di restare. La comunità che rappresenta il Pakistan in Italia, è la stessa che nel proprio Paese non vale nulla rispetto ai pakistani che vivono nelle grandi città. Non sono andati a scuola, non hanno cultura o talenti particolari. Non conoscono nemmeno il Pakistan, figuriamoci se riescono a integrarsi in Europa o in Italia. Questo è un bel problema, che ancora non si sa come risolvere.

Diciamo che è un problema che fa il paio con un altro, piuttosto grave, di cui ancora troppo poco si discute. In Pakistan, come in molti altri Paesi musulmani, i bambini sono spesso vittime di violenza. E talvolta gli abusi vengono perpetrati dagli “insospettabili”: gli Imam. Cioè gli stessi portavoce religiosi dell’atavico tabù secondo cui è contro natura essere omosessuali e musulmani, sono tra i primi fautori delle violenze su minori. Come spieghi questa doppia e insopportabile morale?
Purtroppo questo è un fenomeno molto diffuso in quasi tutti i Paesi musulmani, dal Pakistan all’Afghanistan. Ci sono molte storie di bambini violentati nelle moschee. Ragazzini che, fino a undici anni, sono costretti a subire violenza. E le denunce sono pochissime.

Perché le famiglie non denunciano?
È un po’ difficile da spiegare. Se un bambino confessa alla propria famiglia di aver subito abusi dall’Imam, in linea generale i genitori provano a nascondere il fatto per una questione di vergogna. Non si denuncia perché si teme che, una volta raccontato tutto alle autorità, si dia un eccessivo risalto pubblico alla notizia dell’abuso. Si vuol preservare l’integrità e l’onore della famiglia, insomma. Chiaramente però, se non c’è una denuncia, non ci può essere una condanna esemplare. E gli Imam ne approfittano. Sono casi che si verificano per lo più in zone rurali, nei villaggi lontani dalle città maggiori. Quelle poche volte che si denuncia, i risultati alla fine arrivano. Ma nel 99 per cento dei casi, purtroppo, si sceglie la via del silenzio.

Denunciare la carica religiosa può creare problemi all’interno comunità?
Guarda, non è tanto un problema religioso quanto di mentalità. Le famiglie non vogliono che a notizie del genere si dia un risalto pubblico. Temono di rovinare per sempre la reputazione del ragazzino e, in generale, l’onore e la rispettabilità della famiglia all’interno della comunità. La religione non c’entra assolutamente nulla. È l’Imam che, spontaneamente, commette violenza. Tutti sanno che, specie nelle aree rurali distanti dai grandi centri urbani, questi fenomeni si verificano. Non è un mistero per nessuno. Pensa, ci sono barzellette famose sugli Imam che perpetrano abusi su minori. Solo che quando accade davvero, poi, non si denuncia.

È un po’ quel che è accaduto in numerosi Paesi cattolici. In questi casi, tuttavia, le denunce sono arrivate dopo molti anni. E troppo spesso le autorità ecclesiastiche, pur sapendo, hanno preferito nascondere i fatti per tutelare il buon nome dei propri preti, vescovi, cardinali. Forse però qualcosa lentamente sta cambiando…
Il fenomeno alla fine è un po’ lo stesso. Da un lato c’è un’autorità religiosa, che per definizione ha un suo peso specifico nella comunità, dall’altra dei bambini che dovrebbero essere tutelati innanzitutto dalle famiglie. Personalmente non conosco casi specifici di persone oggetto di violenza da parte delle autorità cristiane o cattoliche. Ma so per certo che, come nel caso dell’Islam, la religione non c’entra nulla. Il problema è sempre dell’uomo. Si ha ancora troppa paura di confessare una violenza sessuale perché, per farlo, oltre a una base culturale forte serve tanto coraggio. Il timore delle famiglie è quello di rovinare la propria rispettabilità e quella del proprio figlio. Si ha paura di subire una violenza due volte: la prima, dal capo religioso, la seconda dalla comunità d’appartenenza. La violenza viene vissuta come una vergogna, un marchio che ci si porta addosso. Anche se la vergogna è solo di chi commette l’abuso, non di chi lo subisce. Però è difficile, ti ripeto, molto difficile.

C’è da riflettere sui due volti del Pakistan. Da un lato, purtroppo, nelle aree rurali, nei piccoli villaggi, si continua a parlare di violenze e discriminazioni nei confronti delle minoranze. Dall’altro, però, è innegabile che sono stati fatti passi da gigante. Penso a Kami Sid, la prima modella trans del mondo musulmano. O a Marvia Malik, prima presentatrice trans del Tg. So che recentemente la Repubblica islamica del Pakistan, dopo un lungo dibattito con le autorità amministrative e tante battaglie, ha approvato la proposta di legge che riconosce i diritti fondamentali dei transgender (“Transgender Protection Rights Bill 2018”).
Esatto. Il Pakistan è uno dei primi Paesi musulmani ad aver riconosciuto i diritti dei trans. Devo dire che oggi la comunità pakistana è molto tollerante nei confronti dei transgender, che vengono accettati con facilità rispetto al passato. La loro battaglia è durata più di settant’anni. Oggi, questa legge dello Stato è un salto di qualità notevole. Ma, in generale, negli ultimi tre anni sono stati fatti innumerevoli passi avanti. Due trans, due donne, quest’anno sono candidate per le elezioni nel Paese. È stata aperta una scuola per transgender, perché precedentemente subivano discriminazioni nei normali istituti scolastici. O ancora, l’Università Punjab di Lahore ha inaugurato corsi gratuiti per i transgender. Credo che tra qualche anno assisteremo a un vero e proprio cambio di passo ufficiale della società pakistana nei confronti della comunità transgender.

Il Pakistan potrebbe fare da apripista rispetto agli altri Paesi musulmani?
Questo è molto difficile. Io dico sempre che c’è un solo Islam, ma la differenza tra il Pakistan e i Paesi arabi è netta. Purtroppo ogni realtà, ogni Paese, dovrà fare i conti con le proprie leggi. La società pakistana è molto più aperta rispetto ad altre comunità. Poi è chiaro, ci sono le dovute eccezioni. Sana Cheema era pakistana, eppure è stata uccisa da suo padre.

Wajahat, parliamo un po’ dell’enorme successo che ha avuto la campagna Allah loves equality. Hai ricevuto un supporto trasversale, a partire dal mondo dell’informazione per arrivare a quello della politica. Persino la senatrice Monica Cirinnà ha sostenuto attivamente questa encomiabile campagna. Te lo aspettavi?
Il sostegno istituzionale è stato molto importante. Qui in Italia la maggior parte delle persone ha accolto questa campagna a braccia aperte. Quando ho iniziato a girare con il cartello Allah loves equality non mi aspettavo questo sostegno. Pensavo avrei resistito un paio di giorni e non di più. Invece la campagna non solo ha preso piede, ma si è trasformata in un documentario. Sarebbe stato impossibile raggiungere questi risultati senza un sostegno trasversale. Oggi i sostenitori della campagna crowdfunding sono circa 400. Di questi, il 98 per cento sono italiani, con donazioni partite direttamente dall’Italia. Abbiamo finito con le riprese, ora ci stiamo dedicando al montaggio. Non abbiamo ancora finito, è necessario il supporto di tutti. Ma sono molto soddisfatto e felice dei risultati fin qui raggiunti.

Allah loves equality nasce per dar voce a chi, quella voce, non ce l’ha. A chi è costretto a nascondersi, troppo spesso, per il timore di subire ripercussioni, di essere etichettato, allontanato dalla famiglia e dalla comunità. L’iniziativa, nata nell’ambito de “Il grande Colibrì” – un progetto sui diritti delle minoranze sessuali nel Sud del mondo, sviluppato con l’ausilio di numerose associazioni e attivisti – è stata realizzata grazie al sostegno del Fondo Samaria, dell’Arcigay Gioconda di Reggio Calabria e del Progetto Giornata, con il patrocinio di numerose realtà e associazioni. Questo inverno sei stato in Pakistan per ultimare le riprese. Che tipo di difficoltà hai avuto? Ci sono state delle reticenze da parte dei protagonisti del tuo documentario?
Ho già lavorato nel mondo del cinema pakistano dal 2010 al 2014, sapevo come muovermi. Da questo punto di vista non ho avuto alcun tipo di difficoltà. Devo ammettere, però, che prima di partire avevo qualche timore. Pensavo che alcune delle persone con cui avevo preso i contatti, non si sarebbero presentate per fare le interviste. O che avrebbero sollevato problemi durante le riprese. E invece gli attivisti LGBT pakistani sono stati molto aperti e disponibili. Pensa, alla fine di ogni intervista, erano disposti a farmi conoscere altre persone così che io potessi raccogliere altre testimonianze. Questo non me lo sarei mai aspettato. Quindi no, non ho avuto alcun problema a realizzare questo documentario in Pakistan.

Come ti spieghi questa apertura?
Ho indagato un po’, in verità. E ho scoperto che gli attivisti si sono fidati di me perché conoscono il mio lavoro e perché sono pakistano. Devi pensare che ogni volta che gli organi di stampa occidentali si occupano del Pakistan, dalla BBC alla CNN, i registi vanno alla ricerca dello scoop a tutti i costi. Cercano di mostrare un Paese in cui la gente muore di fame. Spesso ci accomunano ai talebani o ai fondamentalisti islamici per manipolare, anche nella fase del montaggio, la realtà delle cose. In casi come questi, gli attivisti diventano reticenti perché hanno paura di subire ripercussioni. Loro corrono dei rischi reali. Nel mio caso, non hanno avuto paura. Mi conoscono. Sanno, soprattutto, che sono un credente. Non avrei mai manipolato l’aspetto religioso per “fare notizia”, per sporcare il nome dell’Islam o per generalizzare sulle condizioni del Pakistan. La differenza è questa. Infatti le riprese sono andate alla grande. L’unico problema reale che abbiamo avuto è quello relativo ai fondi. Scegliere di farsi finanziare interamente attraverso il crowdfunding è stato molto coraggioso, devo dire. Non avevamo mai tutti i soldi che avremmo voluto, tante volte ci siamo trovati un po’ in difficoltà. Ecco perché la campagna crowdfunding è ancora aperta, servono gli ultimi fondi per concludere il progetto. Ma, a parte questo, non c’è stata alcuna difficoltà.

C’è qualche storia, qualche testimonianza che ti ha colpito particolarmente?
Il documentario è ricco di storie e testimonianze. Ma quel che mi ha colpito di più è stata l’aria di cambiamento che ho respirato in Pakistan. Le NGO (ONG, ndr) stanno facendo un lavoro eccezionale. Le associazioni a tutela delle persone LGBT, oggi, sono moltissime. Fino a quattro o cinque anni fa la situazione non era questa. Grazie a loro, si sta innescando la cultura del cambiamento. Oggi le NGO vanno nelle scuole, organizzano marce e manifestazioni informative, accolgono gli attivisti per discutere, per elaborare nuove soluzioni ai problemi. E le cose stanno cambiando davvero. Si festeggia, si organizzano giornate contro l’omofobia, eventi per la tutela dei diritti umani. C’è un dialogo e una tolleranza che prima non c’erano. La cultura NGO, così come viene definita dagli attivisti LGBT, sta portando a dei risultati molto positivi. All’interno delle NGO di mattina si lavora, di sera si discute con grande apertura dei problemi reali per promuovere il dialogo. E lo spazio per il dialogo e per il confronto, sta cambiando molte cose.

Quando c’è il confronto, quando si promuove il dialogo anche tra posizioni differenti, è possibile raggiungere dei risultati. Quando sarà proiettato per la prima volta il documentario?
Tra un paio di mesi dovrebbe essere pronto. Lo porteremo in tutti i festival LGBT e non LGBT. Poi, lo faremo uscire online. È un progetto realizzato attraverso il crowdfunding, è una proprietà di tutti. E poi, è un documentario educativo che nasce con lo scopo di far emergere storie di tolleranza, di lotta all’integralismo e alla discriminazione. Per portare alla luce le interpretazioni non omofobe delle fonti islamiche, quali il Corano e la Sunnah.

Che tipo di accoglienza ti aspetti?
Il mio obiettivo era quello di fare la differenza. Volevo emergesse la condizione delle persone LGBT che vivono in Pakistan. Volevo spiegare innanzitutto che in Pakistan, a differenza di quel che accade in altri Paesi arabi, i gay non vengono buttati dal tetto, condannati a morte o torturati. Volevo portare a galla una realtà diversa, che pian piano, con non poche difficoltà, sta cambiando. So che è un documentario molto atteso. E non voglio deludere le aspettative.

Sei stato tra i primi a metterci la faccia pubblicamente. Tra i primi ad affermare il principio per cui si può essere uguali, davanti a Dio, pur nelle reciproche differenze. L’anno scorso hai vinto il premio Cild per le libertà civili. Ti hanno definito “l’eroe dei diritti umani”. Ti senti un po’ eroe?
Guarda, non ho ancora capito perché mi hanno definito l’eroe dei diritti umani. Però, che dire, li ringrazio. Sono felice che mi abbiano scelto, ma ci sono tanti attivisti che rischiano le proprie vite. Loro dovrebbero ricevere premi ogni giorno. Vedi, io apprezzo la diversità. La mia battaglia è stata molto lunga. Ho quasi 33 anni, ci ho messo tanto tempo per capire e per provare a realizzare quello che avevo nella testa. A volte penso di aver sprecato tanto tempo, ma forse le cose dovevano andare così. Forse, quando sei solo e non hai nessuno che ti spieghi come fare, il tempo è necessario. Sono molto fortunato. Oggi potevo essere sposato, potevo avere una famiglia che avrei condannato all’infelicità. E invece ho l’opportunità di aiutare anche gli altri. Sono fiero del mio coming out. E sono fiero che, attraverso la campagna Allah loves equality, tanti omosessuali musulmani si siano riavvicinati alla religione. Questo progetto è servito per spiegare che esiste una terza via. Che non si deve per forza scegliere tra la religione e il rispetto di se stessi. Alcuni temono di uscire allo scoperto perché gli hanno fatto credere che se ammettono di essere gay, saranno abbandonati da Dio. Ma non è così. Si può essere omosessuali e musulmani. Ed è un messaggio è bellissimo. È un grido di speranza per chi si sente solo, abbandonato da Dio. Mentre Allah, appunto, ci ama tutti allo stesso modo. Anche quando siamo diversi, eppure uguali.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.