Mustafà
Mustafà è uno studente di fisica di Dakar. Un ventottenne molto alto e molto sereno.
Lo incontro a Brindisi, in un pomeriggio d’autunno umidito da una pioggerellina insulsa e fastidiosa. Brindisi è una città morta, uccisa dall’industria tardonovecentesca almeno quanto le tangenti prese dagli amministratori locali. Brindisi è la prefigurazione di quel che avverrà molto presto a tutto il Sud: depressione, corruzione, disoccupazione, solitudine e Sacra Corona Unita. Per questo mi fa piacere essere illuminato dal sorriso radioso di Mustafà, un venditore senegalese di braccialetti, un ambulante di un metro e novanta, magro e bello, che prova a sollevarmi dalle paturnie con inestinguibile positività.
“Stai su, amico mio. Pensa sempre positivo, tutto cambierà in meglio”, dice quando mi approccia nei pressi della marina. Davanti a noi tre navi militari e un catamarano da milionari oscillano mollemente nel porto.
“Ne sei convinto?”, gli domando.
“Eh!”, risponde.
“Non ti devi preoccupare. C’è la vita!”
Mustafà è arrivato in Italia un anno e mezzo fa, dopo aver mollato l’università perché sua madre – è orfano di padre – non ce la faceva a pagargli gli studi. Era bravo, una specie di promessa della fisica senegalese.
“Adesso mi esercito in matematica con questi”, dice mostrandomi decine di braccialetti di cuoio e di lattice. Li importa dal Senegal, glieli invia sua sorella. Un’economia familiare di sussistenza tipica del mondo globalizzato. Lui non è di quelli che vanno a Napoli a comprare roba contraffatta nei quartieri Spagnoli. È scappato da Milano per non cadere nella trappola dello spaccio ed è sceso in Salento, dove non sottostà al governo della Sacra Corona ma divide una stanza nel centro di Lecce con un connazionale, anch’egli dedito alla vendita di strada.
“Dev’essere difficile, la fisica”, gli dico.
“La fisica è come Dio, governa tutto”, risponde sorridendo ancora.
“Anche le disgrazie?”
“Certo. Per questo ti dico che devi avere fede. Voi italiani dovete avere fede, perché prima o poi tutto cambia. Tutto”
Qualche anno fa, prima che a Corino trecento italiani avessero scacciato dodici donne immigrate, gli avrei dato ragione. Adesso no. Non più. L’Italia è cambiata in peggio. L’Italia è più vicina all’Ungheria del fascista Orban di quanto si possa pensare. Da nord a sud una ventata di radicato razzismo sta prendendo piede, e l’ottimismo di Mustafà ha i giorni contati.
“Perché non vai via da qui?”, gli domando.
“Per ora no. Voglio provare ancora a fare qualcosa, ma so che senza di voi, senza gli italiani, non ce la posso fare”. Annuisco. Ha ragione da vendere.
La ragione di chi assiste ineluttabilmente a una sconfitta epocale.
“Potresti andare in Francia, a studiare fisica”
“Ci sto pensando. O lì o in Germania, se Dio vuole”
In Germania, dove vive un altro fìsico. Un italiano. Un mio amico.
“Adieu, mon ami”, mi saluta.
“Vendimi un bracciale, dai”, lo esorto e lui mi infila a un polso un braccialetto di lattice giallo, verde e rosso, sul quale è stampato il nome del suo Paese: Senegal.
“Grazie”, gli dico porgendogli cinque euro.
Non li accetta. Si schermisce.
“Stasera i conti non mi torneranno, ma sarò contento lo stesso”, fa.
Ci salutiamo sotto la pioggerellina di Brindisi, mentre alle nostre spalle il mare s’increspa contro la chiglia delle grigie navi da guerra.
Massimo
Abbiamo fatto il liceo insieme, nella stessa scuola ma in classi diverse, lo ho scelto di frequentare Lettere, lui Fisica. Era talmente bravo, che non ci ha messo molto a farsi notare, a prendere dimestichezza con la sentenziosa serietà della ricerca. Prima ancora di laurearsi partecipava a simposi e convegni internazionali, apprezzato come una fulgida promessa italiana della scienza. Poi, il tracollo. Quando…
“Ho terminato un dottorato internazionale abbastanza prestigioso. Avevo mille promesse davanti, tutte interessanti, ma ho sperato fino all’ultimo che l’università italiana mi tenesse con sé”
“E invece?”
“Invece niente. Manco un arrivederci. Si sono giustificati dicendo che non c’erano fondi, che l’aria era amara per tutti…Poi son venuto a scoprire che la figlia di un docente del nord ha preso un bel posto da ricercatore dove dovevo esserci io. Senza titoli. Senza uno straccio di pubblicazione decente”
Massimo non mi racconta niente di nuovo, ma la sua commozione, perché davvero ci teneva a restare in Italia, mi porta a fare alcune considerazioni. La prima è che dentro le statistiche sugli italiani che vanno via, che sono 107mila solo nel 2015, ci sono storie, affetti interrotti, delusioni cocenti e investimenti emotivi. Ci sono le separazioni e perfino un certo orgoglio nazionale tradito.
“L’Italia è vergognosamente ignorante. L’università non ci merita. Per questo noi ricercatori non torneremo mai qui”
Massimo lavora a Berlino, dove ha a disposizione uno stipendio come si deve, un alloggio, un pensatoio, un laboratorio e due collaboratori che sta allevando pur non essendo ancora un docente. Questo sistema sta migliorando le performance della ricerca tedesca e garantendo una tenuta del Pii.
“I tedeschi hanno capito che se investono in ricerca possono essere i migliori e competere meglio di chiunque altro”
È proprio così. La Germania drena cervelli che mette al servizio della ricerca.
“Dell’umanità del futuro. Perché io faccio fisica teorica. Cerco quello che ancora nessuno ha dimostrato, non so se mi sono spiegato”
Si è spiegato eccome. Massimo prova a dare solidità scientifica a ciò che all’apparenza può sembrare etereo, impalpabile. Quanto stonano le sue parole con la vile ricerca di praticità e soluzioni facili dei governi italiani.
“Se tu avessi la possibilità…”
“Non dirlo nemmeno per scherzo. In Italia non c’è il clima giusto per fare ricerca. Troppi baroni e poca fiducia nella scienza”, risponde senza farmi terminare.
“Sto bene così”
Nessun rimpianto, quindi. Nessun desiderio di tornare. Ma soltanto l’amara constatazione di esser figlio di un Paese dove – che si venga o si parta – di Fisica campano soltanto gli immeritevoli vassalli del medioevo universitario.