Esattamente 40 lunghissimi anni fa, il 23 novembre 1980, alle ore 19:34, per un minuto e mezzo, un terremoto di magnitudo 6.9 ha sconvolto l’Irpinia e la Basilicata: 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 sfollati.
Oggi – accanto al ricordo doloroso ed eterno dei nostri nonni e dei nostri genitori – questi numeri restano tali, e si prestano, per lo più, ad uso e consumo nelle parate commemorative.
Ma cosa serve realmente alla narrazione di un terremoto lungo 40 anni, che non ha distrutto solo case, strade, chiese, ma ha marchiato almeno tre generazioni?
Diciamolo subito: non esercizi liturgici. E, al di là di molte speranze spezzate, certamente non serve il continuo piagnisteo, divenuto, forse, nel tempo la vera questione meridionale.
Se c’è una «generazione delle macerie» che ha ereditato gli effetti del sisma, c’è una «generazione terremotata» che queste macerie le ha alimentate e che continua ad alimentare. C’è una generazione che persiste nell’accumulare illusioni e fallimenti.
Quelle macerie politiche che continuano, dannatamente, ad incrementare ritardi nello sviluppo di un territorio che, invece, chiede ed attende risposte. Attende uno scatto finalmente proteso in avanti.
La memoria, tanto tirata in ballo ma con nessuna volontà di recuperarla, serve per rielaborare il presente e prepararsi al futuro, che può già essere oggi. Che è oggi. Perché, una volta per tutte, andrebbe messo da parte, nel racconto di un evento indelebile qual è stato ed è il terremoto del 1980, nella programmazione, nell’idea del «fare», quel «Fate presto» urlato dal presidente Sandro Pertini all’epoca dei fatti, semplicemente perché qualcuno ha già fatto presto – dalla criminalità organizzata alla mafia dei colletti bianchi, fino all’opera continua di abbeveraggio delle clientele – e perché dopo 40 lunghissimi anni il tempo è scaduto.
E in questo tempo ormai scaduto è mai possibile registrare atavico immobilismo pari a morte, nell’attesa – ancora – che siano i finanziamenti a pioggia a risolvere il problema dello sviluppo, dell’occupazione e del ritorno a casa per i meridionali emigrati? A mantenere vivo il ricatto occupazionale ad ogni tornata elettorale?
La legge n.219 del 14 maggio 1981 può mai essere la panacea o il modello, se con quella legge i territori di Irpinia e Basilicata hanno visto erigersi vere e proprie cattedrali nel deserto, sgretolatesi nella quasi totalità dei casi?
Può bastare lo storytelling poetico del south working a ripopolare il Sud senza infrastrutture e superare quella diaspora culturale che lo ha polverizzato? La ricchezza, anche culturale, va seminata, coltivata e poi raccolta, non trasferita e non condivisa.
A distanza di 40 anni il problema più grande è ancora un problema di governance del territorio, svenduto ai soldi facili delle multinazionali dell’energia, sporca e pulita (o presunta tale), dei rifiuti, dell’industria di cassaintegrati e dei «diversamente occupati».
La «generazione delle macerie» vive una crisi di identità e di stato confusionale, perché risulta sempre più difficile capire di quali macerie si parla.