Il dramma de La Felandina ha ravvivato ancora il dibattito sulla centralità della giustizia e della dignità dei lavoratori. Sulla necessità di superare i ghetti per percorrere insieme la via della legalità. Ma ha anche mostrato, inesorabilmente, tutte le storture del sistema istituzionale che non ha cercato di costruire, nel tempo, alternative valide insieme ai braccianti. Oggi, i tempi sono maturi per imparare dagli errori del passato. Perché il riscatto nasce innanzitutto dal prendere consapevolezza che anche noi, etichettati come migranti, abbiamo dei diritti. E dobbiamo pretendere che vengano rispettati.
Siamo stati nel metapontino a più riprese. Come Casa Sankara (realtà attiva a San Severo, in provincia di Foggia, grazie alla volontà di riscatto di tre ex braccianti che, di concerto con la Regione Puglia, hanno messo su un progetto di accoglienza e di lavoro volto al superamento dei ghetti, ndr) non potevamo chiudere gli occhi davanti all’ennesima violazione dei diritti. La Felandina non è diversa da tutti gli altri ghetti. È un luogo che è stato palcoscenico dello sfruttamento, è vero. Ma è anche il posto in cui chi non aveva nulla ha trovato un po’ di speranza e tranquillità.
Personalmente so cosa vuol dire non avere un riparo, un tetto sopra la testa. E so anche che il ghetto, per quanto possa sembrar strano, a volte rappresenta l’ultima goccia di dignità. Per capire questo, sarebbe necessario comprendere appieno cosa significhi non avere nulla. Ma chi siede ai tavoli istituzionali spesso, di tutto questo, non ha la più pallida idea.
Quando abbiamo manifestato, il 26 agosto scorso, davanti alla Prefettura di Matera lo abbiamo fatto consapevoli che le decisioni ormai erano state già prese. Avrebbero sgomberato, giorno più o giorno meno. Ma manifestare era necessario per lanciare un messaggio: questi lavoratori, queste persone, non sono sole. Noi siamo dalla loro parte. E abbiamo il dovere di costruire delle alternative di vita dignitose per loro e per noi tutti.
LO SGOMBERO
Due giorni dopo, il 28 agosto, hanno sgomberato il campo. Noi lo sapevamo, e anche i ragazzi. Alcuni di loro hanno provveduto a smontare le baracche per recuperare i materiali da utilizzare, altrove, per costruirsi una nuova casa. A riprova del fatto che le istituzioni a tutti i livelli, ordinando la rimozione coatta di tutte le abitazioni senza alcuna soluzione alternativa, non hanno fatto altro che spostare il problema da una parte all’altra. Da La Felandina a un altro ghetto.
Pensateci un po’. Abbiamo dovuto affrontare il deserto e poi il mare, e siamo sopravvissuti. Arriviamo in Italia con una speranza che, fin da subito, viene piegata dal caporalato e dallo sfruttamento. Ci hanno tolto tutto ma almeno abbiamo una casa, un posto in cui tornare. Finché non ci viene portato via anche quello. Come se non contassimo nulla. Come se non potessimo avere nemmeno quella povera, misera baracca. Senza il diritto nemmeno di opporci o di replicare.
Quando hanno sgomberato La Felandina noi di Casa Sankara c’eravamo. E abbiamo visto i braccianti andar via sfilando con il loro carico di sofferenza sotto agli occhi consapevoli delle istituzioni. L’alternativa al ghetto non c’era e non c’è mai stata. I nostri diritti erano stati calpestati, una volta di più.
LA GIUSTA LOTTA DI CHI NON SI ARRENDE
Ma se le istituzioni non sanno o non vogliono risolvere il problema, siamo noi a dover reagire. Thomas Sankara, a cui non a caso abbiamo deciso di intitolare Casa Sankara, sosteneva che «lo schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi, merita completamente le catene che porta.»
Perché è vero che la scelta di sgomberare senza creare una valida alternativa per le migliaia di persone che in un ghetto hanno trovato la propria casa e il proprio rifugio è disumano. Ma anche non lottare, non pretendere che i propri diritti vengano rispettati, lo è altrettanto. Parlando con i ragazzi de La Felandina non ho avuto remore a ribadirgli che avevano atteso troppo a lungo prima di cercare un dialogo e una mediazione con le istituzioni competenti. Hanno agito tardi, subendo uno sgombero che a quel punto era divenuto quasi inevitabile. Ho cercato di fargli comprendere che costituire comitati, incontrare i responsabili istituzionali sedendosi, se serve, ai tavoli che contano è una nostra possibilità.
Il meccanismo va cambiato. E va cambiata la mentalità di chi, vivendo nel ghetto, si assuefa a ogni forma di privazione, accontentandosi del poco perché non ha nulla. È un percorso culturale che non può essere avviato senza consapevolezza. Che va creata, con l’aiuto di tutte quelle realtà che operano attivamente sui territori.
L’ESPERIENZA DI CASA SANKARA PER IL SUPERAMENTO DEI GHETTI
Questo è quel che abbiamo cercato di fare in Puglia attraverso Casa Sankara. Che, grazie ai moduli abitativi messi a disposizione dalla Regione è una realtà in grado di accogliere circa 500 persone. Chiaramente, fin da subito, ci siamo resi disponibili per garantire ospitalità ad alcuni dei ragazzi sgomberati a La Felandina. Oggi molti di loro, pienamente inseriti nel nostro circuito, hanno persino trovato un lavoro con tanto di regolare contratto. In più, grazie alla partecipazione della Regione Puglia, della Provincia, della Prefettura di Foggia e della Flai Cgil abbiamo messo su un progetto che prevede la creazione di apposite fermate dei bus, lungo il territorio, che garantiscano il trasporto legale dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Ad oggi già 86 persone usufruiscono di questo servizio fondamentale che consentirà, progressivamente, di abbattere il meccanismo su cui si regge il caporalato. Se i caporali trattengono parte dei salari poiché assicurano alla manodopera il trasporto nei campi, togliendo loro questo business fondamentale possiamo aiutare i ragazzi – anche quelli che vivono ancora nei ghetti – a ribellarsi allo sfruttamento.
Sulla filiera etica, invece, lo scorso 23 settembre abbiamo raggiunto un risultato importantissimo. Finalmente siamo riusciti a mettere sul mercato la prima passata di pomodoro realizzata senza sfruttamento. “Iamme”, questo il nome del marchio etico, è nato dalla collaborazione tra il gruppo Megamark, l’associazione internazionale anticaporalato No Cap – che promuove e valorizza le aziende agricole che rispettano la legalità e i diritti dei lavoratori – e Rete Perlaterra, un gruppo di imprese che incentiva il lavoro agro-ecologico.
Questo è quel che possiamo fare, nonostante tutti i limiti del caso. Sappiamo che Casa Sankara risponde a un’esigenza transitoria e che di certo le casette in cui i braccianti trovano rifugio non possono essere considerate delle soluzioni valide nel lungo periodo. Ma rappresentano, comunque, una risposta di legalità e di riscatto. La nostra realtà non fa altro che offrire delle possibilità a chi vuol coglierle. La dignità del nostro progetto sta nel fatto che ciascuno vede garantita, innanzitutto, la propria possibilità di scegliere cosa fare della propria esistenza, come e dove viverla. Nessuno è obbligato a restare a Casa Sankara.
Ma ciò che conta davvero è che ognuno deve fare la propria parte per superare definitivamente la piaga dei ghetti e del caporalato. Una filiera etica, che tenga insieme tanto le esigenze del mercato quanto quelle dei rispetto dei diritti umani, è possibile. Noi, nel nostro piccolo, ci stiamo provando. Ma non potremo riuscirci finché anche l’ultimo bracciante sfruttato non avrà compreso che il riscatto inizia da dentro. Che la libertà non ha colori e va pretesa. Sempre.