Fuoricampo è un diario pensato per dar voce agli invisibili. Un viaggio a puntate alla scoperta delle storie dei nuovi schiavi, dei nuovi emarginati d’Italia. A parlare sarà la realtà. Nessuna costruzione, nessun archetipo. Come Caronte, Ibrahim – un ragazzo senegalese, uguale a tanti altri, che vive nel ghetto Chitomeni, uno dei tanti del Sud Italia – ci traghetterà nell’Inferno di una quotidianità che non ci appartiene. Perché solo quando l’intangibile si può toccare, diviene reale. E solo raccontando queste storie i loro protagonisti potranno finalmente avere un volto, un nome e una voce. Un grido di speranza che raggiunga le coscienze, fuori dal campo.
La velocità è violenza / Il potere è violenza / Il peso è violenza
La farfalla cerca salvezza nella leggerezza / Nel lieve volo ondeggiante
Ma a un incrocio dove la luce chiazzata
Cade dagli alberi su una nuova sfrontata autostrada
I nostri territori convergenti si incontrano / Giungo con forza sufficiente per due
E la dolce farfalla offre / Se stessa in un sacrificio giallo brillante
Sul parabrezza di silicone duro.
(“Farfalla” di Chinua Achebe, Nigeria)
PROLOGO
Scorrono i giorni, sfilano lenti e sempre uguali. Al ghetto Chitomeni tutte le albe si somigliano. Ibrahim vaga stanco tra le baracche. Qualche giorno prima, in questura, hanno pronunciato la parola che lui non vuol sentire.
«Espulsione, mi hanno deto espulsione. Meno male che c’era avvocato nuovo, amico tuo. Non come quelo stronso di Roma, quelo che ha rubato tutto e non ha fatto nienti. Quelo cornuto! Avvocato amico tuo ha detto no espulsione. Ha detto che adeso faciamo altra richiesta di protesione international, lui mi aiuta con carte nuove. Mia vita poteva finire altro giorno, ma tu hai fatto durare ancora. Tu ha regalato me speranza, lo sai? Hai regalato mie bambine, in Senegal, altra possibilità. Ora più dificile, ancora deve avere pasiensa. Pasiensa finisce certe volte, ma speransa ancora no. Quela ancora resta.»
Ibrahim, occhi vacui e sguardo basso, ci vuol credere ancora. La sua speranza è la mia. Mi prende per mano, ancora una volta, e mi accompagna lungo i vicoli sterrati di Chitomeni.
«Se non hai voglia di camminare, Ibrahim, possiamo fermarci», gli dico. «Adesso il mio lavoro non è importante.»
«No, sbali quando dici questo», risponde deciso. «Quelo lavoro che stai facendo qua è molto buono e molto importante per noi. Nesuno deve vivere così, nesuno. Tu aiuti noi, io aiuta te. Vieni, ti facio conoscere persona importante a Chitomeni. Lei molto brava. Lei si chiama Mary, ma noi tuti chiama MamAfrica. Vieni, vieni con me.»
MAMA MARY
Mary è una nigeriana sulla trentina che vive a Chitomeni da circa due anni. I suoi occhi, come grandi e profondi laghi neri, paiono riflettere il senso di ingiustizia del mondo. Ma lei non sembra vinta, non ancora. La sua luce è diversa. Con le sue mani, afferra le mie con la forza della delicatezza. Con le sue braccia, sembra volermi stringere anche l’anima. Ha vissuto la violenza, la sopraffazione, la ferocia dell’umanità. Ma non si è lasciata piegare, non del tutto. Dalla vita ha imparato la lezione della sopravvivenza. Della resilienza, costi quel che costi.
«Sua baracca molto bella», ammira con un pizzico d’invidia Ibrahim. «Se entri c’è tuto quelo che serve. C’è divani, c’è television, c’è sedie e tavoli, c’è frigorifiro con cose da bere e mangiare. È buono qua.»
«Quante persone vivono insieme a te?» chiedo subito a MamAfrica.
«Siamo tanti. Nostra casa parla con altre case, così viviamo un poco tutti insieme», risponde Mary. «Così tutti un poco meno soli. Dobbiamo lavorare per vivere. Anche quando lavoro non ci piace tanto.»
«Tu che lavoro fai?»
«Io fatto tanti lavori. Quando a Torino ho fatto pulisie in supermercato. Poi a Vercelli fatto badante, vicino a signora vecchia che aveva bisogno. Sono da otto anni in Italia, so fare tante cose.»
«E adesso», insisto «che lavoro fai?»
«Faccio capelli qua a Chitomeni, faccio lavori fuori quando trovo e faccio…faccio business, do you understand?» risponde secca.
No, all’inizio non comprendo il suo business. Ma di lì a poco, tutto mi sarà molto più chiaro.
IL BUSINESS
Una ragazza alta, magra e bellissima spunta da una delle stanzette della baracca di Mary avvolta in un asciugamano fradicio. Mi saluta, ma non incrocia il suo sguardo col mio. Un’altra, di lì a poco, entra da una porta comunicante. È più tarchiata della prima, ma molto molto più giovane. Anche lei non mi guarda. Non sorride, non saluta, rivolge la parola solo a MamAfrica. Il suo tono di voce è basso, sommesso. Sussurra parole impercettibili a cui Mary risponde, decisa, in uno slang intriso d’inglese.
Poi arriva lui. Alto, snello, ben vestito. Mi punta gli occhi addosso con uno sguardo inquisitore. Saluta, ma non sorride. Non mi stringe la mano, non si presenta. Col suo atteggiamento sembra voler lasciare intendere che lì, nella sua casa, io non sono la benvenuta. Mi tollera per via di MamAfrica, che lo tranquillizza subito.
«Lui è mio fidansato, si chiama Sun» mi spiega Mary. Eppure non pare poi così solare. Dopo di lui entra un altro uomo, più giovane, con un paio di occhiali marca Rayban poggiati sulla fronte. Anche lui non parla. Si mette seduto, di fronte e noi, e osserva attento. Si respira il senso di disagio. È evidente, palpabile. Sarei tentata di uscire da lì, ma gli uomini seguono guardinghi ogni mio spostamento. Per fortuna irrompe sulla scena lei. Un donnino minuscolo rispetto a quei giganti. Biondina, occhi azzurri e pelle olivastra, è la zingara del campo.
«Noi chiama lei zingarella», asserisce ridendo Mary.
«Oh Maria Sacrata, Mama dammi whisky marijuana! Oggi no bevuto ancora, fammi bere Mama! Tu», mi guarda, «tu che ci fai qua in ghetto di negri? Dammi un euro, così io compra whisky marijuana.» E con questa entrata scenica, le presentazioni con la ‘zingarella’ sono ormai fatte.
L’INTEGRAZIONE È UNA SCATOLA VUOTA
Lei è diversa dagli altri. Ma la sua diversità non disturba. È, piuttosto, un valore aggiunto. Scherzosa, chiassosa, con la sua esuberanza rompe il silenzio imbarazzante. È grazie a lei che capisco il senso del business. Mary, e il suo fidanzato Sun, sono i protettori di uno dei più rinomati bordelli di Chitomeni. Questa coppia gestisce, in concorso con altre, il business della droga e della prostituzione nel ghetto. Un bel modo per creare nuovi posti di lavoro.
«Vieni, ti faccio treccine», dice MamAfrica per distrarmi dai miei pensieri. «Zingarella, perché non fai un poco una sfilata per noi? Dai, vatti a cambiare. Metti vestito bello e tacchi, facci vedere come cammini bene. Facciamo Miss Chitomeni oggi.»
Ride, Mary, mentre io simulo un sorriso. Non riesco a parlare, ho come un nodo in gola. Mi chiedo cosa possa portare una donna forte come questa, una vittima come le altre, a trasformarsi in carnefice. Mi chiedo se la sopravvivenza giustifichi la sopraffazione.
«Siedi qua bella», mi sorride Mary. «Ora faccio mezza testa Africa e mezza testa Italia. Così facciamo vedere cosa è integrazione.» Già, l’integrazione. Questa scatola vuota che noi, adagiati nelle nostre comode quotidianità, utilizziamo per giustificare un’indifferenza colpevole. La nostra. L’integrazione, quest’artificio grandioso costruito su parole vacue e sogni infranti. Un alibi edificato ad hoc per continuare a guardarci allo specchio, per riuscire a dormire di notte mentre fuori il mondo gira alla rovescia. Mi accomodo su una sedia portata lì per me e decido di farmi forza per parlarle.
«Mary, è questo quello che fai? Perché lo fai?»
Mi guarda negli occhi mentre le sue mani si muovono veloci tra i miei capelli.
«Ti faccio treccine belle, ora ti faccio vedere» risponde. Non parlerà, non può. O forse, non vuole. Il suo silenzio è complice. Ma in questo momento, lo è anche il mio.
QUA PURE I SOGNI HANNO UN PREZZO
La ‘zingarella’ sfila per noi sulle sue gambe traballanti. Sfila mentre impreca sguaiata. Poi corre verso una delle uscite della baracca e vomita. Mi alzo per andarle incontro, ma Mary mi fa segno di restare seduta.
«Fa sempre così, beve troppo.»
«E tu perché la fai bere allora?» le domando piccata.
«Se tu paghi, bevi e fumi. Se non paghi, non fai niente. Business.»
«Quanto costano queste treccine?» la interrompo immediatamente.
«Niente, tu non paghi niente. Ibrahim ha detto che tu sei buona, che hai cuore pulito e aiuti noi. Quindi tu non paghi.»
Provo a insistere, ma Mary è irremovibile. Esco dalla baracca con l’integrazione sulla testa e il dolore dentro al petto. Fuori, la ‘zingarella’ sta ancora male. Le compro qualcosa da mangiare, ha bisogno di riprendersi. Beve un po’ d’acqua gelida, ma continua a sudare freddo.
«Non puoi stare così, non ti fa bene», le dico carezzandole la testa.
«Se non faccio così melio che muoio prima. Maria Sacrata, mia vita è una merda. Avevo un bambino piccolo una volta, sai, e ora non ho più. Venduto, chissà dove sta. Chissà se vive o muore. Ora dottori hanno chiuso tubi. Come si dice quando non può fare altri bambini? Così, capito? Altrimenti, poi, come cazzo faccio a fare la puttana.»
«Chi ha preso il tuo bambino?»
«Mia familia ha venduto» risponde. «Tanto non vedo più. Se non vedo più, forse melio che non penso. Allora bevo e fumo marijuana. Prendo droga, così è più facile. Mi dai un altro euro?»
«No, non posso darti altri soldi» le chiarisco. «Altrimenti vai di nuovo a bere e fumare. E non puoi stare così tutto il giorno. Se vuoi ti compro delle scarpe nuove, qui a Chitomeni ci sono, le ho viste. Dai, ti va di andare a comprare un paio di scarpe Miss Chitomeni? O una collana, così ti fai bella. Quello che vuoi, ma non puoi bere ancora adesso.»
«Ah Maria Sacrata, questa è mafia eh? E va bene, andiamo a prendere scarpe. Però paghi tu. Io non ho soldi, non si guadagna tanto facendo puttana.»
«Quanti soldi ti danno?» provo a domandare.
«Dieci euro ogni scopata, ma non sono tutti miei. Sono zingarella, mica tutti i soldi sono miei. Devo dare una parte a Sun, così sto tranquilla.»
«Miss», la guardo «pensi spesso al tuo bambino?»
«Penso lui quando bevo, quando prendo droga, quando scopo. Penso sempre. La notte, quando chiude occhi, vedo sua faccia, mani picole, piedi picoli. Poi mi svelio e bevo ancora. E pago, pago sempre. Una vita a pagare. Qua pure sogni hanno un prezzo.»
Non parlo più. Le prendo la mano e andiamo insieme a comprare un paio di scarpe nuove. Si appoggia a me, rendendomi degna di condividere con lei qualche passo traballante lungo il cammino della vita.
EPILOGO
Ibrahim è accanto a me, attento. Ha paura, teme per la mia incolumità. Ogni volta che vengo a Chitomeni, lui mi segue. Mi sta accanto come sa, come può.
«Qua è difiscile, stanno africani buoni e africani cattivi. MamAfrica è buona, ma lei costretta a fare così, capisci? Non pensare cattivo di lei. Lei fa quelo che può», tenta di giustificarla.
«Non penso male, Ibrahim» gli rispondo. «In verità non riesco nemmeno a pensare in questo momento.»
«Lo so, è brutto quelo che sucede. Nesuno vuole vivere così. Vive così perché difiscile.»
Mi fermo. So che ha ragione. Ma, guardandomi indietro, non posso fare a meno di pensare alla sbornia triste di ‘Miss Chitomeni’, agli occhi di Mary, agli sguardi inquisitori di Sun e il suo compare, i ‘magnaccia’ del bordello. Il senso di inadeguatezza mi resta dentro, come un marchio a fuoco sul cuore. Siamo corresponsabili e complici di una tragedia che si consuma mentre le nostre vite scorrono indisturbate. Abbiamo sacrificato la compassione, quel sottile senso di partecipazione all’altrui sofferenza, sull’altare dell’egoismo. Con il risultato che oggi, noi che abbiamo avuto il privilegio di nascere dalla parte giusta della rete, ci sentiamo quasi protetti nel nostro bozzolo di solitudine.
Ibrahim sembra aver imparato a penetrare attraverso il flusso dei miei pensieri. Sa leggerli, anche quando non riesco a pronunciarli. Sa ascoltare i miei silenzi. Ed è per questo che, prima di lasciarmi andare, mi chiede se io creda in Dio.
«Ci ho creduto, Ibrahim, ma adesso non so cosa pensare di un Dio che si volta dall’altro lato del campo. Forse Dio non è per tutti» rispondo amara.
«Dio è per chi ha fede e sa trovare Lui», mi dice. «Purtroppo dobiamo soportare qualchi cosa brutto in questa vita, altrementi poi non viene cose belle. Hai capito? E mondo molto più bello si noi portiamo un poco di amore di Dio fuori. Tu hai portato Dio dentro Chitomeni. Ora io ti lascio un poco di Dio, così tu può portare fuori.»