Marciare, nel giorno di Pasquetta, tra le campagne e i ghetti foggiani, è stato come scardinare il silenzio e prendere coscienza, finalmente, di una realtà sommersa. La marcia nazionale contro il caporalato di Borgo Mezzanone di Manfredonia, in provincia di Foggia, è stato un grido contro l’indifferenza.
Sono oltre 430 mila le vittime del caporalato in Italia. Tra queste, circa 100 mila persone sono lavoratori che versano “in condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa.” Nell’ultimo rapporto della Flai Cgil sul fenomeno delle agromafie e del caporalato i numeri sono chiari. Fin troppo.
Si parla di “un’economia illegale e sommersa” che assicura alla criminalità organizzata introiti compresi tra i 14 e i 17,5 miliardi di euro all’anno solo in Italia. Ma c’è di più. “Ad essere vittime del caporalato – e delle sue diverse forme – sono indistintamente italiani e stranieri.” Sintomo che il fenomeno, più che natura sporadica o marginalizzata, ha assunto proporzioni trasversali e sistemiche. Nel contesto nazionale, la Puglia rappresenta di certo uno dei luoghi simbolo del caporalato. Terra in cui la commistione tra mafie autoctone e mafie dei caporali ha dato vita a una società parallela che vive secondo regole proprie, diverse da quelle che reggono la società civile e che garantiscono a tutti il diritto alla dignità. Di lavorare, dormire, semplicemente di vivere.
Marciare, nel giorno di Pasquetta, tra le campagne e i ghetti foggiani, è stato come scardinare il silenzio e prendere coscienza, finalmente, di una realtà sommersa. Se era questo l’obiettivo alla base della marcia nazionale contro il caporalato organizzata da intellettuali e scrittori a Borgo Mezzanone, può dirsi raggiunto.
Trecento persone, o poco più, hanno camminato per oltre cinque chilometri fino al “Ghetto bulgari”, sito in località Pescia, tra Borgo Mezzanone e Tressanti. Luogo in cui, solo qualche mese fa, un ragazzo di venti anni ha perso la vita per un violento incendio causato da una stufa mal funzionante. Nel ghetto, privo di qualsiasi servizio igienico o di acqua corrente, i rifiuti vengono accantonati in un enorme vallone adiacente alle baracche. Lì i bambini giocano coi copertoni bruciati e coi pneumatici abbandonati mentre i genitori, prelevati quotidianamente dai capò, vengono portati a lavorare tra i campi. Raccolgono pomodori, asparagi, uva a seconda della stagione. Hanno un salario che si aggira tra i 22 e i 30 euro al giorno, con orari lavorativi che vanno dalle 8 alle 12 ore. Pagano per smaltire i rifiuti, per mangiare, per bere acqua potabile. Pagano per essere semplicemente vivi in un territorio circondato dai vecchi poderi dei consorzi di bonifica abitati da altri schiavi, da altri caporali, nell’indifferenza generale. La marcia contro il caporalato è stata un grido silenzioso contro l’indifferenza. Un grido della società civile, accompagnata dalle istituzioni nazionali – presente il parlamentare Pd Davide Mattiello, membro della commissione parlamentare antimafia -, tra il silenzio e, in parte, il boicottaggio delle istituzioni locali.
“Quelle istituzioni che negano il rispetto dei diritti umani sono corresponsabili di un sistema mafioso”, sostiene Leonardo Palmisano, tra gli organizzatori della marcia. “È necessario – continua l’autore di Mafia Caporale – costruire un tavolo regionale permanente, una rete di solidarietà che tenga al centro il rispetto della persona, delle sue esigenze e bisogni reali.” A Borgo Mezzanone, nel fulcro dei ghetti della capitanata, nel giorno di Pasquetta una resurrezione c’è stata davvero. Era impressa negli occhi dei giovani ospiti del Cara di Foggia, che hanno marciato con la consapevolezza di chi ha una voce che merita di essere ascoltata.