Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

C’era una volta Masseria del Carmine

Quando il 9 febbraio del 2008, nel corso del convegno “Diossine Uomo Taranto”, l’associazione “Taranto Viva” presentava gli effetti della diossina nella città di Taranto, per la prima volta si cominciò a parlare di strage silenziosa. Non di una seconda Seveso, dunque, ma di un avvelenamento subdolo e drammatico negli effetti sulla popolazione tarantina. Un’ipotesi formulata dall’associazione Taranto Viva, costituita da medici e ricercatori del più autorevole laboratorio italiano di ricerche sui microinquinanti dell’epoca: l’Inca di Venezia. I dati, presentati con grande cautela, risultanti dalla ricerca di diossina nel corpo di dieci volontari tarantini, illustravano – con dovizia di particolari – tabelle, grafici e citazioni dei più importanti studi internazionali sulla diossina.

Il 10 febbraio del 2008 il Corriere del Giorno riporta: “Taranto Viva ha presentato i risultati dell’esperimento condotto su dieci tarantini. Acceso dibattito tra Stefàno e il direttore dell’Arpa Assennato. Le tessere della vertenza ambientale ci sono tutte, dai dati sanitari a quelli ambientali ora bisogna iniziare a comporre il mosaico. Fare ordine, costruire una rete, giocare in squadra sembra facile ma non lo è. Un anno fa, era il 13 febbraio del 2007, i vertici dell’Ilva furono condannati in primo grado per inquinamento ambientale. Un processo costruito faticosamente, vista la complessità della materia, attraverso perizie e acquisizione di documenti. I pubblici ministeri Franco Sebastio, procuratore aggiunto, e Alessio Coccioli, illustrarono in una lunga e articolata requisitoria modalità e conseguenze dei reati contestati all’imprenditore Emilio Riva e al direttore dello stabilimento siderurgico tarantino Luigi Capogrosso. Ieri il procuratore aggiunto Franco Sebastio, intervenuto durante il dibattito insieme al sostituto procuratore Antonella Montanaro, ha ricordato che quella requisitoria fu tenuta in un’aula vuota. Un vuoto che ancora oggi pesa sulla coscienza di chi, accettando di firmare un atto d’intesa che prevedeva il ritiro o la non costituzione di parte civile da parte di Regione, Comune e Provincia nei processi contro la grande industria, ha privato la città del diritto di essere rappresentata e di chiedere un adeguato risarcimento per il danno che ha subìto e che continua subìre. Volendo fare i conti fino in fondo, Sebastio ha anche sottolineato che il pool di magistrati impegnati nella lotta all’inquinamento si costituì 30 anni fa e che la prima sentenza contro “una grande industria” per sversamenti di sostanze tossiche in Mar Grande risale al ’79, mentre la prima sentenza legata allo spargimento di polveri provenienti da camini e parco minerali della stessa “grande industria” è datata ’82. Aggiungeva Sebastio: “Noi interveniamo quando il reato è già stato consumato e in più di qualche occasione abbiamo percepito un clima non propriamente favorevole nei nostri confronti”.
Quattro giorni dopo il convegno, Fiom-Cgil dichiara, da fonti Peacelink, che ”per queste ragioni al fine di non generare un locale spettro Seveso o Bopal occorre una rapida e coordinata azione tesa ad una indagine a più ampio raggio per luoghi e classi di campionamento, fra Enti locali, Università, Asl, Arpa, Organi tecnici, deputati al controllo bio statistico del territorio che diano segnali di trasparenza alla fine di tale lavoro. Si reputa scontato in tale procedimento di formazione cognitiva una partecipazione delle grandi industrie in forma attiva e spontanea, pena gravi dubbi sul proprio operato. Appare opportuno da parte nostra segnalare senza ipocrisia che tale azione deve partire nel controllo delle fasce più a rischio quali bambini, anziani e i lavoratori che operano nei siti potenzialmente produttivi di tale infausta sostanza.

LE ANALISI IN PROCURA
Il 27 febbraio del 2008 Peacelink consegna alla Procura di Taranto le analisi effettuate dal laboratorio Inca di Lecce su un pezzo di formaggio pecorino. Le analisi sono state richieste da un socio dell’associazione che da tempo si rifornisce da un pastore per procurarsi prodotti artigianali e “genuini” (in particolare latte e formaggio). Il tutto in seguito a notizie apparse sulla stampa locale circa greggi che hanno pascolato in aree prossime alla zona industriale. I risultati non sono conformi alla normativa in vigore: la somma di diossine e PCB supera di 3 volte i limiti di legge. Da quel momento in poi la vita di tantissimi allevatori cambia radicalmente. Si susseguono poi denunce da parte di vari enti e associazioni che, nel 2010, portano alla richiesta di un incidente probatorio finalizzato ad individuare la fonte. L’enorme pressione mediatica esercitata da chi sostiene anche un controllo epidemiologico – il comitato “Taranto libera” in primis, divenuto poi “Legamjonici” – spinge i magistrati a commissionare anche una perizia epidemiologica che si affianchi a quella chimico-ambientale. Quell’enorme polverone sollevato provoca però ulteriori danni alla già fragile economia tarantina. I controlli a tappeto dell’Asl portano all’abbattimento di numerosi capi di bestiame, distruggendo attività agricole tramandate di generazione in generazione. Danni sanitari, danni all’agricoltura e danni al turismo. L’acciaio no, quello continua a mietere distruzione e a creare profitti indisturbato. Perché solo chi denuncia disturba.

LA STORIA
La storia che vi stiamo per raccontare narra il dramma vissuto dalla famiglia Fornaro, famiglia di allevatori. Un esempio di come le conseguenze di attività industriali inquinanti siano immediatamente quantificabili in termini di perdite economiche reali, di danno all’agricoltura e all’immagine di un territorio che, oggi, è in ginocchio sotto l’aspetto sanitario e che tenta faticosamente di risollevarsi. Perché se da un lato è difficile stabilire il nesso di causalità tra inquinamento industriale e patologie, è altrettanto difficile, ma non impossibile, dimostrare la fonte di contaminazione alimentare, quando questa si bio-accumula e presenta delle caratteristiche specifiche chimico-fisiche. A partire dal 2010 è stato questo lo scopo dell’incidente probatorio richiesto dalla Procura della Repubblica di Taranto e al quale, anche chi scrive, ha avuto l’onore e l’onere di partecipare e dunque può raccontare. Non a caso Vincenzo Fornaro era presente nel corso dei sopralluoghi, perché parte lesa. Si dedicherà un capitolo a parte sulla storia dell’inchiesta sull’Ilva. In questo numero daremo voce ai danneggiati.

TRADIZIONI ANTICHE
L’attività dei Fornaro andava avanti dall’inizio del Novecento. Cominciata dal capostipite della famiglia. Vincenzo e suo fratello sarebbero stati la terza generazione di allevatori. L’attività era incentrata sull’allevamento ovicaprino con produzione di carne e prodotti caseari quali ricotta e formaggio. A questo si affiancava la lavorazione e la semina dei terreni prevalentemente per colture di cereali quali grano ed orzo. Attività abbandonata. Continua ad essere effettuata la raccolta delle olive e la relativa trasformazione in olio. La diossina non penetra all’interno delle olive e non se ne trova traccia nell’olio. Tutto si è concentrato prevalentemente sul rischio alimentare correlato ad attività di allevamento. Il Dipartimento di prevenzione ha avviato, dunque, una serie di analisi per capire lo stato di contaminazione degli animali nel raggio di 20 chilometri di distanza dalla zona industriale. Partendo dall’analisi della carne nei primi sei allevamenti colpiti dal vincolo sanitario, sono stati riscontrati valori oltre il limite in tutti e sei. Poi, in seguito all’emanazione di linee guida per i controlli da parte della Regione, le analisi si sono limitate al solo latte. Qualora il valore si fosse avvicinato al limite fissato dalla legge si sarebbe passati ad analizzare la carne. I dirigenti Ilva, nell’immediato, hanno reagito smentendo la possibilità che la contaminazione fosse dovuta alle loro emissioni, minacciando di querelare chiunque si fosse permesso di fare un simile accostamento. Nel 2008, a causa della contaminazione dei terreni e quindi degli animali che vi pascolavano, la famiglia Fornaro è stata costretta ad abbattere ben 605 capi di bestiame. Nella loro carne erano stati riscontrati valori di diossina e PCB anche 30-40 volte oltre i limiti consentiti dalla legge. La mattanza è avvenuta esattamente l’11 dicembre 2008.
Il danno economico subìto si aggira intorno ai 200mila euro solo per il valore degli animali abbattuti, a cui va sommato il nucleo cessante dovuto alla perdita dell’attività e, soprattutto, all’impossibilità di poter riprendere l’attività dato che l’inquinamento persiste, così come il divieto di pascolo nel raggio di 20 chilometri di distanza dalla zona industriale. Del resto, sarebbe costato troppo nutrire quel gregge con mangimi artificiali. I Fornaro hanno avanzato una richiesta di risarcimento pari a 5 milioni di euro. Ma dalla Regione Puglia hanno ottenuto solo un ristoro spese di 39 mila euro per tenere in vita, al chiuso e in condizioni crudeli, i capi di bestiame da marzo (quando scoppia il caso) a dicembre del 2008 (quando sono stati prelevati ed abbattuti).
Il governo non ci ha minimamente sostenuti anzi ha continuato a fare decreti su decreti salvaguardando solo la produzione ed ignorando completamente chi quei danni li ha subiti. Anzi, la Regione Puglia, nella persona dell’allora Presidente Nichi Vendola ha sempre sostenuto che i danni sarebbero stati pagati da chi ha causato l’inquinamento, una volta accertato. Ma quando si è dimostrata la responsabilità dell’Ilva l’intera classe politica si è schierata a favore della stessa”, afferma Vincenzo, voce coraggiosa di questa triste vicenda.

C’È CHI HA PERSO IL POSTO DI LAVORO
In azienda, tra fissi e stagionali, lavoravano circa venti persone. Nessuno di loro oggi continua a lavorare nella masseria del Carmine, di proprietà dei Fornaro, che, al momento dell’esplosione del caso, avevano progettato un ampliamento della loro attività: la realizzazione di uno spaccio aziendale di vendita dei prodotti realizzati “genuinamente”. E la genuinità era garantita dai controlli biologici. Ma nessuno degli organi di controllo aveva previsto di effettuare dei controlli chimici. Semplice dimenticanza? Per questo motivo la famiglia Fornaro era di fatto la prima consumatrice dei propri prodotti. Lo ribadisce Vincenzo: “Credo che nessuno al mondo più di noi potesse dire di mangiare un alimento genuino. Lo producevamo noi, quindi eravamo convinti della qualità del prodotto, senza sapere che mentre noi lavoravamo in maniera genuina c’era chi, a nostra insaputa, avvelenava terreni ed animali.
Cosa ha provato in quei mesi la famiglia Fornaro, prova a spiegarcelo sommessamente ancora Vincenzo quando dice che “lo stato d’animo della nostra famiglia in quei giorni era di totale scoraggiamento. Vedevamo vanificare gli anni di lavoro fatti dal nonno Vincenzo prima e da nostro padre poi. Non vedevamo un possibile futuro sui nostri terreni. Ma la sera, subito dopo aver caricato sul camion l’ultima capra, ci siamo ritrovati tutti seduti intorno al camino per decidere cosa fare. La decisione è stata unanime: rimanere in questa azienda, ricominciare una nuova attività ma soprattutto lottare per vedere riconosciuti i nostri diritti. La grande forza è stata l’unità della nostra famiglia.

LA RICONVERSIONE TOTALE
Oggi la famiglia Fornaro è impegnata in un progetto di riconversione totale dell’azienda agricola che è diventata nel tempo un luogo simbolo della lotta all’inquinamento ed anche contenitore culturale, ospitando presentazioni di libri, spettacoli teatrali e serate musicali. Ha aperto un maneggio dove si svolgono corsi di equitazione, ippoterapia e spesso si organizzano escursioni in Gravina per far conoscere la bellezza e la storia di questi luoghi dalle atmosfere magiche. Inoltre, da tre anni è partito il progetto sulla coltivazione della canapa con l’obiettivo di bonificare i terreni in modo naturale, a basso costo e
soprattutto senza modificare lo stato dei luoghi. Si tratta di un processo di fitobonifica con conseguente miglioramento della fertilità del suolo, grazie alla capacità di assorbimento da parte delle sue radici dei componenti organici o inquinanti presenti nel terreno. Tali sostanze vengono trasformate in metaboliti meno pericolosi, oppure catturate e recuperate. Ed ha sicuramente enorme interesse ed utilità l’applicazione di questo metodo, in diversi contesti, specie in zone con attività dismesse ed ex siti industriali. Quando però la fonte è ancora attiva non c’è alcuna operazione di bonifica che possa rivelarsi efficace. Ma il business delle bonifiche è un capitolo a parte. Un’attrattiva per attività illecite da tenere sotto stretto controllo da parte delle autorità competenti e della cittadinanza attiva che spesso si sostituisce agli organi di vigilanza.
La famiglia Fornaro dunque vuole provarci, propone, reagisce. I processi in corso a Taranto e presso la Corte europea di Strasburgo, forse, renderanno un po’ di giustizia. Intanto, ad oggi, gli unici ad aver visto sfumare le proprie risorse economiche sono stati gli allevatori, gli agricoltori e i mitilicoltori, mentre il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, spalleggiando i ministeri di Ambiente e Salute dichiara che a Taranto non c’è emergenza sanitaria. Una beffa irriverente nei confronti di quanti continuano ad ammalarsi a causa dell’inquinamento.

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Autore:

Responsabile del Comitato Legamjonici di Taranto. Nel 2010 consulente di parte nell’inchiesta “Ambiente svenduto” sull’Ilva.