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La moria di ovini e il pecorino al petrolio. La storia di Giuseppe

Quando l’industria arriva a mille metri di quota tra zootecnia ed agriturismo: dalla strana moria di ovini alla contaminazione degli alimenti, dai mancati controlli all’assenza di risposte.

Lo chiamiamo Giuseppe, uno pseudonimo per tutelare un uomo che con la sua famiglia e l’avvocato, combatte contro la prima multinazionale dell’area euro, la Total. Giuseppe allevava vicino il pozzo petrolifero “Tempa Rossa 1”. Alcuni anni fa iniziò ad avere frequenti morie di ovini: necrosi, disturbi nervosi, aborti.
Il copione era sempre lo stesso: morte dell’animale, dubbi, preoccupazioni, visite del veterinario dell’Azienda sanitaria di Potenza (Asp). Il ciclo proseguiva senza che Giuseppe avesse mai dall’Asp un’analisi chimica sulle carcasse. Al tempo stesso, oltre alle morie, arrivano altri strani eventi fino ad allora sconosciuti nella zona: folate improvvise di gas e persistente olezzo di uova marce, allarmi sonori nella zona pozzo, traffico pesante che frantumava le gracili vie di montagna, fusti di fluidi da perforazione abbandonati nei rovi ed il Comune di Corleto, che sembrava più comprensivo verso le ragioni di Total piuttosto che verso quelle di Giuseppe, corletano doc da generazioni.
Appena informati della storia di Giuseppe, gli attivisti dell’associazione Cova Contro lo invitano a reagire, carte alla mano. Effettuano analisi su falda (pozzo di abbeveraggio degli animali), tessuti animali e latte ovino.
Non ho mai visto tutti questi metalli in un animale”, afferma un dipendente di un laboratorio pugliese che ha condotto le analisi. Infatti, è stato difficile trovare raffronti nella letteratura scientifica e, ancora oggi, non si trova chi supera le contaminazioni rinvenute a Corleto Perticara nelle pecore di Giuseppe: cuore 3,32 microgrammi/chilogrammo di piombo (oltre sei volte la soglia di legge); fegato 13,1 microgrammi/chilogrammo di piombo ed 1,5 microgrammi/chilogrammo di cadmio; reni 542 microgrammi/chilogrammo di piombo (oltre mille volte la soglia di legge UE) e 1,4 microgrammi/chilogrammo di cadmio. Lo stesso nel latte ovino, dove il piombo è stato rinvenuto a 0,043 microgrammi/chilogrammo, a fronte di un limite di legge di 0,02 microgrammi/chilogrammo. In tutte queste matrici sono stati rinvenuti tanti altri metalli non normati in abbondanza, sulla cui presenza ed eventuale pericolosità sanitaria nessuno si è mai espresso.
Nell’acqua del pozzo di Giuseppe comparivano pesanti contaminazioni da solfati, piombo, alluminio, ferro, manganese e tracce di idrocarburi – 273 microgrammi/litro, a fronte dei 350 previsti per legge (la n.152/2006).
Il nesso sembrerebbe chiaro ma, ad oggi, mentre nessun ente pubblico sancisce la conformazione delle falde o la migrazione della contaminazione dell’area del pozzo “Tempa Rossa 1”, a Giuseppe non rimane che l’onere di stabilire, a sue spese, anche il nesso di causalità, in una regione – la Basilicata – dove con i soldi pubblici e le royalties petrolifere si finanzia di tutto.
Intanto manca il “bianco ambientale” e la documentazione sul pozzo petrolifero in questione è custodita dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig), che concede la consultazione dei fascicoli sulla vita dei pozzi solo dietro autorizzazione della compagnia petrolifera proprietaria.
Oggi Giuseppe attende giustizia. E l’attesa forse sarà ancora lunga perché pare che nessun CTU voglia assumersi l’incarico. Ma oggi Giuseppe sa, grazie all’aiuto di altri cittadini e non delle Istituzioni, che in quella zona è meglio non allevare. Perché l’acqua che ha usato, non interdetta da alcuna ordinanza, la carne ed il latte prodotti, erano avvelenati. Per questo ha spostato il suo pascolo per far spazio ad una multinazionale e a dirigenti che lo considerano “gente del terzo mondo.

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Autore:

Attivista amante della Basilicata ma poco dei lucani.